Come per alcuni altri precedenti racconti inediti o rari di Scotellaro, anche questo ottavo racconto, intitolato La Postulante, si avvale della introduzione della prof.ssa Giulia Dell’Aquila (speciale edizione del Forum Italicum più volte citata, pp. 764-65. Il racconto di Scotellaro occupa le pagine 785-88). Si omettono le citazioni contenute nella suddetta introduzione, limitandosi talvolta, a citare solo il nome dell’autore).

        Diversamente da quanto accade nella maggior parte della produzione narrativa scotellariana, la narrazione nel racconto La postulante avviene in terza persona, intersecando “in più punti gli assi cartesiani del romanzo di formazione” (Langella). Il racconto, pubblicato da Scotellaro nel ‘50 nelle pagine della rivista barese “Puglia”, è noto solo attraverso l’esemplare a stampa.

Protagonista è la giovane Vincenza che, orfana di madre, vive con il padre Prospero, calzolaio e portiere di uno stabile, e il fratello Paoluccio, paralitico dalla nascita. Il racconto si sviluppa in verità intorno a un esiguo tema, che è quello della monacazione forzata, in questo caso indotta dal sentimento di disagio che la giovane prova rispetto agli sguardi maschili (tra cui anche quelli del padre), incuriositi e attratti dal corpo sodo e in crescita della giovane. La scelta compiuta dalla ragazza è dunque obbligata: ella cerca innanzitutto una “via di scampo” dalla libidine maschile”, in “un proposito di fuga paragonabile a quello della selvaggina che corre a imbucarsi nella tana per non finire preda del cacciatore”(Langella). “Sono venuta qua, perché avevo paura degli uomini”, scrive Vincenza nella domanda per essere accettata al noviziato in convento.

Volto a una tematica complessa e delicata quale la percezione di sé attraverso lo sguardo degli altri, Scotellaro dà qui prova di una certa sensibilità psicologica, non disgiunta da capacità psicanalitica, soprattutto attraverso gli sconfinamenti nei territori onirici. Nel richiamo alla tradizione letteraria del tema, in particolare alla Storia di una capinera verghiana e alle Lettere di una novizia di Guido Piovene, l’atmosfera piuttosto in quietante del racconto trova agio nella madrina, che pur sbiadita è l’unica figura positiva del testo. Probabilmente partecipe della stesura finale è da considerare ciò che si legge in due dattiloscritti, non firmati, intitolati rispettivamente “Per le Postulanti” e “Rito per la Professione”. Si direbbe che siano la fedele trascrizione della prassi prevista per il rito della monacazione; ne sarebbe conferma già il fatto che nel racconto scotellariano ritorni lo stralcio più significativo, corrispondente alla domanda rivolta dal celebrante (“Che domandate, figliuole?”) e alla risposta fornita dalle postulanti (“Come il cervo desidera le fontane di acqua, cosi desidero te, mio Dio”). Del resto, che Scotellaro sia autore che conosce bene il repertorio liturgico oltre ai testi sacri è noto, tanto che qualcuno, a partire da questo dato di fatto, ha tentato una interpretazione di tutta l’opera del poeta come preghiera collettiva (Giannantonio). Meno convincente appare l’ipotesi che questi siano materiali preparatori di invenzione scotellariana, a meno che lo scrittore non avesse in mente di tornare sul tema della monacazione; ma di questo non vi è notizia.

La presenza di radici cristiane nel pensiero e nell’opera di Scotellaro è già stata analizzata, soprattutto a fronte di una comprovata dimestichezza del poeta con la Bibbia, tale da generare in alcuni suoi versi una intonazione vicina allo stile dei salmi. D’altro canto, Scotellaro ha avuto conoscenza delle condizioni di vita del clero a Tricarico, sede vescovile, e nella sua esperienza di studente nel Convitto Serafico dei Cappuccini a Sicignano degli Alburni e poi a Cava dei Tirreni. La madre del poeta, Francesca Armento, non risparmia dettagli pesanti circa l’avidità dei religiosi nel gestire le provviste alimentari e i beni di consumo inviati ai propri figli dai genitori rimasti in paese. E ciò basta a liberare La postulante da qualunque intento celebrativo nei confronti della Chiesa cattolica. Quanto si legge nelle pagine del Racconto della madre non basta tuttavia a liquidare il rapporto dello scrittore con il clero: in una prospettiva laica, con esso Scotellaro si impegna fattivamente nella realizzazione di una delle opere più importanti della sua attività di sindaco, l’Ospedale tricaricese, iniziativa in cui sembrano convergere, sul terreno della solidarietà, la componente francescana e quella contadina insite nel suo animo (Sibilla).

Il convento che accoglie Vincenza non è tuttavia il sicuro riparo per un’anima che cerca Dio ma, più semplicemente, l’unico spazio in cui alla ragazza è garantita l’assenza di figure maschili, peraltro minacciosamente presenti sotto forma di allucinazione anche durante le pratiche della preghiera mattutina: “A un’adorazione, al mattino, il santo le apparve trasfigurato come il padre, impazzito, minaccioso, tentatore. Gridò, le altre suore non si scomposero. La madre venne a prenderla”.

8. La Postulante

Nella casa di Prospero si accedeva sotto la gradinata che portava ai piani di sopra ancora sconnessi dalle bombe. Vi era la vetrina coperta di cartone, c’era scritto su un lato “Portiere” con la calligrafia di Vincenza, tonda e inclinata.
Subito si vedeva il letto grande, sconvolto sul fianco di fondo. Era lì l’altro figlio di Prospero paralitico come era nato. La madre era morta da lì a poco. E Prospero aveva da girare in quell’unico vano con una scarpa sempre da rattoppare. La guerra era passata così: attorno a Prospero l’odore delle cucine che invadeva il cortile e su un lato della finestra, nella debole luce della casa, il volto stanco della moglie morta che mirava avanti a sé. Vincenza si faceva il letto da quando non era più bambina e l’allievo di suo padre cominciò a guardarla nel petto. Fu allora che divenne lei la padrona della casa. Furono anni in cui la casa si fece più buia: le sere veniva l’allievo a piazzare il cuoiame ai calzolai delle montagne. Egli era uomo da poter vivere, in breve, seduto a una poltrona, così sicuri andavano i suoi affari, e per lui Prospero e la sua famiglia si sfamò. Prospero non si rassegnava al pensiero che in tanti anni di portiere e di calzolaio non era stato capace di mettere un soldo nel comodino, dove ora conservava i biglietti grossi dell’allievo. Né poteva a lungo non vergognarsi di essere ormai mantenuto, lui con la famiglia, da quel ragazzo che pochi anni fa aveva ricevuto piccolo e goffo, davanti al deschetto come apprendista. In questi pensieri egli si aggirava per la stanza come un cane vecchio, non osava più coraggio di mostrarsi al grande portone per guardare nella strada. – Sentimi, figlia, – disse ancora una sera a Vincenza, sperando di intenerirla ~ ormai potresti solo tu salvarmi. Il giovanotto ci mantiene. Gli ultimi denari per il vestito erano suoi.
Vincenza ebbe una pronta reazione di pianto: -Dunque, disse – non è che facevate a parte!
Il padre se lo vedeva davanti carico di anni e di questo tormento di essere mantenuto. Promise che avrebbe pensato a lungo sulla proposta di andare in sposa al giovane. Non uscì più di casa. Aveva sedici anni allora. Cominciò a guardare con occhi gonfi il fratellino nel letto, cominciò a guardarsi addosso anche lei, l’indomani non si rifece le treccine; sciolti cosi i capelli, si accorse del suo petto che montava e quando di nuovo l’allievo ritornò, ella si sentiva rubata dai suoi occhi e non le veniva di sentirsi sposa a lui. Ma il padre più di tutto era cambiato. Gli vedeva gli stessi occhi avidi del giovane, era il suo complice contro di lei. Quando il padre le disse ancora, insinuante e mellifluo, di far gentilezze all’allievo, allora gridò la prima volta sul viso del vecchio che non se la sentiva. Nel palazzo di fronte abitava la famiglia della madrina, volle andare da lei, dalle sue figliuole a parlare. La madrina tornava dalla messa la domenica mattina, Vincenza si fece vedere. Dalla strada additò la gradinata nel suo portone, disse: -Madrina mi sento morire là dentro. Il fratello piange più la notte e il padre e un giovane mi spiano. Raccontò per filo e per segno le cose. La madrina, una signora dalle linee dure al volto, parve dapprima scossa e scrutava la ragazza severamente. Ma via via che il racconto di Vincenza si sviluppava ella andava distendendo il suo volto pensando all’occasione felice di prendersi la ragazza al servizio e di compiere una buona azione. Le prese la mano, le disse soltanto: -Starai con me – e Vincenza la seguì leggera, come se partisse la prima volta per un lungo e piacevole viaggio. .
Il lungo e piacevole viaggio durava ancora nei primi giorni della nuova vita nell’ampia e bella casa della madrina: lavorava, usciva alle compere, recitava il rosario la sera, dormiva con la piccola delle figlie in un grande letto soffice.
Le altre due figlie della signora studiavano, sempre nervose nelle loro stanze. Una sera vennero dei giovani a trovarle. Vincenza andò ad aprire e uno di loro non smise più di guardarla. Quella notte si vide ai piedi del letto, nel sogno, un’inf orme macchia nera, un uomo. La macchia nera era curva sulla linea del suo corpo disteso. Chi era quell’uomo, che stava per saltarle su, e non c’era difesa, non c’era via di scampo? Vincenza era giovane e soda, lo studente l’aveva guardata, l’allievo del padre la voleva, il padre aveva fatto quella faccia orribile chiedendole di sposarsi.         Quel povero padre rimbambito non aveva altri pensieri che questo, e la sua faccia lo esprimeva senza riserve, senza veli. Chi era quell’uomo che la tentava nel sogno? Suo padre?
Vincenza si svegliò e quella macchia nera di suo padre le rimase negli occhi fino al mattino.
~Non ci andare più in quel buco d’inferno, -le aveva detto la madrina, -con un padre simile, con una simile tentazione.
Ma vide gente al suo portone quel giorno, e una sua amica le mise una mano sulla spalla senza parlare, Vincenza si avviò verso la vetrina; le fecero largo, Prospero :tendeva una mano sul cadaverino del fratello per cacciargli le mosche: -Paoluccio mio! «gridò Vincenza in lacrime, e fece per inoltrarsi, quando Prospero si piegò a terra e poi, brandendo il martello, venne avanti per colpirla: -Fuori di qua disgraziata, fuori di qua!
La stessa gente le fece largo, uscì sulla strada e si mise a correre sperando di trovare il giovane allievo per dirgli di sì, per tornare a suo padre e piangere Paoluccio.
Passò del tempo, Prospero era impazzito e solo, e l’allievo non si vide, Vincenza andava da una chiesa all’altra col velo, e aveva tratti di monella così staccati dal suo vino melanconico e pensieroso. Gli zii dopo qualche esitazione e rimorso si accordarono con la madrina per avviare la ragazza in un convento.
La madrina volle patrocinare ogni iniziativa e non fece passare giorni che, agghindata come una sua figlia, trasse Vincenza davanti al Vescovo. ~~Sì. è vero, voglio farmi monaca, – disse al Vescovo ammirato e felice.
Ha trovato un’amica, postulante come lei, e le ha raccontato il suo fatto, ed ha saputo i fatti dell’amica nell’ora della passeggiata. Il paese è di fronte con le sue case ammucchiate su una collina arida e sassosa, il convento è dall’altra parte, dopo il vallone c il ponte, in mezzo ai cipressi e al verde degli orti e alle terre maggesate cinte dai pioppi lungo il vallone.
Per passeggiare, in fila e con le mani nelle maniche, si esce dal convento al parco Emi I tigli. C`è un tiglio più alto e più odoroso dove si sentono le api. È in cima al viale lsrgo. Per regolamento, nelle passeggiate, le suore dovevano allargare i polmoni. anche spiritualmente. con un conversare gaio ed elevato, ma nemmeno le professe riuscivano, per quanto facessero. a sentirsi ricreare sotto i fiori odorosi del tiglio. Parevano rondini ferme per partire nel loro abito bianco e nero. Vincenza vestiva da postulante, un vestito di lana nero lungo fino ai piedi. Le avrebbero tagliato i capelli, alla vestizione, le avrebbero imposta la sufficie bianca, e il velo nero dagli orli bianchi, e il grembiule di mussola.
“Figlie che domandate?” avrebbe detto il Vescovo e le postulanti “Lo Sposo, il Diletto” e avrebbero ricevuto l’abito e la candela. “Sia lucerna ardente nelle vostre mani per andarGli incontro, per essere ammesse alle Sue nozze”.
Poi la voce del venerabile vecchio avrebbe parlato di terre lontane dove piccole postulanti negre attendevano le sorelle bianche, dolci missionarie di pace e di amore. E per Vincenza l’immagine era già quasi realtà.

        Scordarsi del padre e dell’allievo, del fratellino paralitico morto, delle amiche e del Corso con l’altoparlante, dello studente: era ciò che voleva Vincenza. Era meglio qui per lei, gli uomini, i contadini passavano al di là del muro con le loro voci, con i loro scarponi. E che domandava Vincenza? Era giusto rispondere al celebrante, il giorno della vestizione, “Come il cervo desidera le fontane di acqua così desidero te, mio Dio”?

        All’ora dell’adorazione le suore in tulle bianco, a turno, comandate dai tocchi della campana, scendevano in chiesa. Sull`ostensorio illuminato che pareva una fiamma nell’aria c’era il grande quadro del Santo benedicente. Era allora che Vincenza si straziava: “Che domandate, figliuole?”.

        A un’adorazione, un mattino, il santo le apparve trasfigurato come il padre, impazzito, minaccioso, tentatore. Gridò, le altre suore non si scomposero. La madre venne a prenderla. Mancavano due mesi alla vestizione, doveva riempire la regolamentare domanda per essere accettata al Noviziato. La madre l’aiutò a scriverla. Si poteva leggere tra l’altro: “Sono venuta qua, perché avevo paura degli uomini’ ‘.

 

3 Responses to Rocco SCOTELLARO: 8. La Postulante

  1. Gilberto A. Marselli ha detto:

    Sei l’esempio vivente e palpitante della preziosità di una VERA amicizia intelligente e partecipe, attentamente impegnata a mantenere sempre vivo il ricordo del nostro Rocco, che ci manca e ci mancherà sempre più. Grazie, Antonio, di questi soffi di benessere mentre sono ancora assediato dai medici, dagli analisti e dai ricoveri sempre in agguato.

  2. Rachele ha detto:

    Ho appena finito di leggere il racconto. Grazie per avermi dato questa occasione.

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