Il testo della novella La testuggine di Rocco Scotellaro, trascritto sulla citatissima speciale edizione di Forum Italicum, è quello che si legge nel Mattino d’Italia del 2 gennaio 1951.La novella l’avevo letta se non proprio quel 2 gennaio 1951, qualche giorno dopo e, ora, alla lettura del titolo della novella – così la definisce la prof. Giulia Dell’Aquila – mi è tornata nebulosamente alla memoria, come ho pure ricordato che su quel giornale, che fu in edicola un paio di anni, Rocco Scotellaro pubblicò altri racconti. Per esempio, pubblicò il racconto Suonata a distesa, datata Portici 8-16 febbraio 1951, che si legge alle pagine 67-70 del volume Uno si distrae al bivio, edito nel 1974 da Basilicata editrice. Il Mattino d’Italia, come fonte di questo racconto non è indicato nel citato volume, né in nessun altro scritto, ma il finale “Stanco, ho preso il tram che si vedevano le scintille violazzurre dei filo” è un timbro stampato nella mia mente.

La testuggine di Rocco muore. Le testuggini vivono anche cent’anni e forse un secolo è vissuta la testuggine di Rocco, che è morta e, morendo, evoca ancora storia, avendone vissute di storie! Inizio dal giornale dove la novella fu pubblicata. A prescindere dalle vicende della testata nel passato, Il Mattino d’Italia uscì a Napoli nei primissimi anni Cinquanta. Lo storico quotidiano di Napoli era Il Mattino (ancora in edicola), fondato nel 1892 da Edoardo Scarfoglio e da Matilde Serao, che divenne ben presto il più diffuso quotidiano del Mezzogiorno e uno dei più importanti d’Italia. Dal 1950 la direzione del giornale era affidata a un grande giornalista, quale è stato Giovanni Ansaldo, che confermò il prestigio del quotidiano, dandogli un indirizzo moderato. Va ricordato che la direzione di Giovanni Ansaldo fu suggerita da Alcide De Gasperi.

Il Mattino d’Italia era un degno concorrente, con indirizzo liberale di sinistra e fu il quotidiano preferito da me e da Antonio Albanese, che sicuramente non mancammo di leggere neppure un numero. Il direttore si chiamava Ugo Amedeo Angiolillo. Era un lucano, nato a Ruoti, antifascista e nittiano, che era stato segretario particolare e responsabile dell’ufficio stampa di Francesco Saverio Nitti, ministro e presidente del consiglio. Era un vecchio giornalista, che mi limito a ricordare come direttore di un quotidiano che iniziò a stamparsi a Napoli nel giugno del 1919 come Giornale della sera- La Basilicata, dove aveva chiamato a collaborare il giovane fratello Renato, appena diciottenne, che acquisterà grande notorietà come fondatore e direttore a vita dal quotidiano romano Il Tempo.
Ugo Amedeo Angiolillo ebbe al Mattino d’Italia la collaborazione di personalità prestigiose come Gino Doria, singolare figura di storico, che ne era il vice direttore, e Francesco Compagna e Michele Prisco.
Il giornalismo napoletano, con i due suddetti quotidiani, vantava un indubbio prestigio, turbato dalla rivalità. Il Mattino, quotidiano storico, intentò causa per concorrenza sleale, sentenziata dal tribunale, anche se il Mattino d’Italia era una vecchia testata, in quanto il titolo del giornale concorrente costituiva atto idoneo a ingenerare confusione tra i lettori. Fu così frustrata l’aspettativa di un impegno di Rocco Scotellaro, che gli avrebbe data quella tranquillità economica che non ebbe mai.
Una volta accompagnai Rocco alla sede del giornale. Si incontrò con Francesco Compagna. Erano i giorni più acuti della crisi coreana, col rischio incombente della terza guerra mondiale. Aveva inizio inizio una storia, una guerra sembrò avvisasse la fine del mondo, causò oltre 2 milioni di morte e, formalmente, non si è mai conclusa, ma in questi giorni sembra avviarsi a un epilogo con l’incontro a Singapore  tra il presidente degli Stati Uniti Trump e il comandante supremo della Corea del Nord Kim Jong-Un.

Compagna era terrorizzato:, – Ro’ – diceva – non ho il coraggio di avvicinarmi alla telescrivente, ho paura di leggere la notizia che tutti temiamo! – Rocco mi disse: – Questo è un fifone, perché è un barone -. E continuava a insistere ironicamente sulla baronia. Quando lasciammo il giornale, mi spiegò perché avesse tanto preso in giro Compagna. Quando si sposò – mi disse – non era ancora laureato. Per impedire che i futuri suoceri annunciassero il matrimonio della graziosa figliola col barone Tal dei Tali, e per offrire un sia pure modesto titolo al posto del deprecato sig., Compagna conseguì privatamente il diploma di ragioniere, col quale dette inizio alla sua brillante carriera di accademico, storico e politico. Come giornalista va ricordato come fondatore della rivista Nord Sud, che Rocco non fece in tempo a conoscere.
In quel periodo, e ancora per alcuni anni, fin dopo la morte di Rocco, Compagna era militante nell’ala sinistra del partito liberale e uno studioso di studi storici presso il Centro fondato da Benedetto Croce. Uscì dal partito liberale nel 1955 e aderì al partito repubblicano, dove ha militato per tutta la vita. E’ stato sottosegretario e ministro.
Il cognome Angiolillo ricorda una avvocatessa Angiolillo di Potenza, probabilmente parente dei due fratelli Angiolillo. Non ero a conoscenza di altre donne che esercitassero la professione forense, neppure a Napoli. La presenza di una avvocato donna, più che stupire, scandalizzava. Ma non scandalizzò l’avv. De Maria, che, scandalizzando i tricaricesi, volle con determinazione associarla nella difesa di una giovanissima e bella ragazza processata per l’omicidio del suo maturo seduttore.
Non posso lasciare sfuggire l’occasione di accennare, per associazione di idee, alla lotta che le donne hanno dovuto combattere per accedere alla professione forense e all’amministrazione della giustizia. L’opposizione è stata particolarmente violenta e dura, perché affermare la parità in questi campi significava negare la superiorità degli uomini sulle donne. Solo nel 1963, quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, le donne furono ammesse al concorso in magistratura.
La prima donna ad essere iscritta all’Ordine degli Avvocati in Italia si chiamava Lidia Poët nata il 1855 e deceduta il 1949, a 94 anni. Il procuratore generale fece denuncia alla Corte d’appello, che accolse la richiesta del procuratore con una sentenza dell’11 novembre 1893, di cui riporto subito un estratto, confermata dalla Cassazione.
«[…] La questione sta tutta in veder se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria (sic) […]. Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine […]. Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare: costrette talvolta a trattare ex professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di fare motto alla presenza di donne oneste. Considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qual volta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra […]. Non è questo il momento, né il luogo di impegnarsi in discussioni accademiche, di esaminare se e quanto il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto eguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati propri soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne, siccome la provvidenza le ha destinate.
Agli argomenti della corte d’appello faccio seguire quelli di un giurista del 1957 – non faccio il nome – per giustificare l’esclusione delle donne dalla magistratura. Non fu egli il solo. Il giurista – illustre giurista usa dire – stampò addirittura un libello, che conobbe almeno due edizioni – quante ho avuto l’opportunità di conoscere – Il libello era intitolato: “ La donna giudice – Ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”. Per comprendere la “finezza” del titolo si ricordi che il dicastero competente si chiamava a quel tempo ministero di grazia e giustizia, di cui era titolare l’on. Aldo Moro, sostenitore della parità tra uomini e donne nell’esercizio della funzione giudiziaria, contro il quale si appuntano gli strali dell’illustre giurista … e non solo di lui. Siamo nel 1957, non ci dobbiamo inoltrare brancolando nella notte dei tempi. Quell’anno io e mia moglie ci fidanzammo. Sindaco di Tricarico era il mio amico Benito Lauria. Rocco Scotellaro era morto da quattro anni. Ma bisogna aspettare ancora sei anni per vedere le donne ammesse alla magistratura. Alla professione forense erano state ammesse nel 1919.
Ed ecco alcuni estratti del saggio dell’illustre giurista, che – sia ripetuto l’onore ai meriti – non è il solo a scalare tali vette:
« Il Ministro Moro – Segretario di Stato per la grazia e la giustizia – vuol passare alla storia, col chiamare le donne alle funzioni giudiziarie, cioè col sacrificare la “Giustizia” alla… “grazia femminile”!
Evidentemente il Ministro Moro, o non conosce la donna, o si dimentica della tremenda gravità e difficoltà della funzione del giudicare!
Funzione, che richiede intelligenza, serietà, serenità, equilibrio; che va intesa come “missione”, non come “professione”; e vuole fermezza di carattere, alta coscienza, capace di resistere ad ogni influenza e pressione, da qualunque parte essa venga, dall’alto o dal basso; approfondito esame dei fatti, senso del diritto, conoscenza della legge e della ragione di essa, cioè del rapporto – nel campo penale – fra il diritto e la sicurezza sociale; ed, ancora, animo aperto ai sentimenti di umanità e di umana comprensione, ed equa valutazione delle circostanze e delle ragioni che hanno spinto al delitto, e della psiche dell’autore di esso; coscienza della gravità del giudizio, e della gravissima responsabilità del “giudicare”.
Elementi tutti, che mancano – in generale – nella donna, che – in generale – “absit injuria verbis” – è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal “pietismo”, che non è la “pietà”; e quindi inadatta a valutare obbiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti.
Il Ministro Moro, che è valoroso Professore di “Diritto Penale”, deve avere constatato, coi suoi Colleghi delle altre branche del Diritto che – ad es. – la donna-studentessa della Facoltà di giurisprudenza ripete quasi sempre a memoria, incapace di penetrare l’essenza della norma, o dell’istituto giuridico su cui è interrogata.
Già il fatto che, fra le tante professioni o mestieri, pure onorevoli, e per i quali è più adatta, la donna voglia scegliere e chieda proprio quella del “giudice”, che è la più difficile, quella per la quale essa è assolutamente inadatta, quella che fa tremare le vene e i polsi a chi è cosciente della sua gravità ed altissima importanza, già questo fatto – dico – dimostra quanta poca dimestichezza la donna abbia con la logica! Essa difetta, in particolare, di quel senso logico e giuridico, che è indispensabile per ben giudicare».
Può bastare, direi. Il troppo stroppia. O storpia? In questo caso direi che stroppia e storpia.

 

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