Si propone il nono dei dieci racconti inediti o rari di Rocco Scotellaro. Il racconto, come al solito, è preceduto da una introduzione, per la quale si propone, con alcuni tagli e una variante, quella della prof. Giulia Dell’Aquila (pagg. 765-768 della speciale edizione della rivista “Forum Italicum”).

La novella “La testuggine”, la più riuscita sul piano narrativo (Dell’Aquila, p. 765), ci è giunta attraverso diverse redazioni dattiloscritte e a stampa, con diverse ipotesi di titolo, modifiche e integrazioni. La prima redazione dattiloscritta è datata 22.12.1949. Sul verso della seconda redazione compaiono i seguenti versi manoscritti a penna: “Non possa mai far giorno, mai far notte / vuol fare il tuono sulla terra!”, che sono da intendere come incunabolo della poesia “Il morto” del 1951: “Non voglia mai far notte, mai far giorno / è venuto di piombo il pane al forno. / Cicala canta la canzone spasa, / il tizzone si è spento nella casa, / S’alzano i gridi ringhiera ringhiera / Giustiza nera, Giustizia nera”.
Il testo è stato poi pubblicato nelle pagine della rivista “Svizzera Italiana” (gennaio-aprile 1950), con ripresa di alcune soluzioni espressive delle prime redazioni; infine, il 2 gennaio 1951, la novella è apparsa nelle pagine del “Mattino d’Italia”, con titolo “La testuggine”. In quest’ultima redazione il testo appare privo di alcune parti, seppure brevi: è ipotizzabile (G. Dell’Aquila cit.) che gli interventi operati siano da imputare alla volontà o necessità di ridurre il testo e/o di adeguarlo a un pubblico di lettori più ampio e variegato, anche sul piano linguistico. Si spiegherebbero così alcune varianti lessicali registrate nel passaggio dalla prima redazione all’ultima.
Scompare del tutto, nella versione del “Mattino d’Italia”, un’intera frase, presente invece in tutte le altre redazioni seppure con varianti: “Cosi chiamano le mamme pensando ai figli nascosti nei portoni che non vogliono rincasare”. Una connotazione “d’ambiente’ che non guasta in una rivista come “Svizzera Italiana”, fondata e diretta da Guido Calgari – esperto conoscitore del Ticino più umile, dei pescatori, dei contadini, dei villaggi, anche attraverso la sua tradizione letteraria – e apertasi nel dopoguerra agli apporti italiani, tanto da svolgere un ruolo importante, negli anni a venire, nel contrastare la germanizzazione della Svizzera italiana. Nella versione del “Mattino d’Italia” è espunto anche il finale di una frase che ritorna in tutte le altre redazioni: “Di nuovo hanno apparecchiato la tavola e ci siamo disposti intorno allo stesso riso del pranzo e il babbo ha guardato la mamma e Franco si è levato sul seggiolone aprendo le braccia: -Zitti, zitti!”, altrove (anche in “Svizzera Italiana”) completato da “- e tà una scoreggia, non ne potevamo più dal ridere. Serafina ha risputato un boccone nel piatto”. Un intervento (ad avviso della prof. Dell’Aquila) molto probabilmente richiesto a Scotellaro e teso alla eliminazione di una nota di scurrilità sicuramente ritenuta inopportuna nelle pagine di un quotidiano nazionale.
In tanta varietà di redazioni, è da segnalare la costanza di alcuni termini dalla forte carica espressiva: si pensi, ad esempio, al lemma “incignare”, nel significato d’ “indossare per la prima volta”, presente in tutte le redazioni testimoniate. Un verbo certamente non comune, che Scotellaro preleva dal dialetto ma che ha anche modo di riscontrare nella tradizione letteraria, ad esempio nei versi della “Morte del Papa”, uno dei “Nuovi Poemetti” di Pascoli: “incignava quel giorno anzi un guarnello” (Dell’Aquila, p. 767). Rendo invece testimonianza che Scotellaro affermava la derivazione greca e latina della parola dialettale ngignà/ ngignato e l’uso della stessa nei testi letterari da parte di Luigi Pirandello.
     La novella addensa molti degli ingredienti propri della poetica scotellariana: l’epos della difficile ma decorosa quotidianità si realizza attraverso la voce del giovane narratore che ricorre a tutte le possibili armoniche di cui l’immaginazione dei bambini dispone. Ne deriva un testo fluttuante tra spensieratezza dell’infanzia e maturità compiuta, bizzosa variabilità di umori e sedimenta consapevolezza adulta. Su tutto, la minaccia della reificazione, che trova nella testuggine morta e maltrattata il correlativo oggettivo delle difficoltà dell’esistenza. Immobile in cucina, sulla “piastrella bianca della fornacetta”, nel cuore pulsante cioè di ogni ambiente domestico, scaraventata con stizza giù per le scale dopo aver subito la crudeltà dei giochi infantili, abbandonata nell’immondizia per essere recuperata ed esposta al sole ad essiccare in vista di un avvenire da fermacarte: la testuggine è, nella fantasia del narratore, emblema di arrendevolezza, paziente sopportazione e indurita capacità di sopravvivere (“Ma come devo dire, a questo punto, che, tanto, il babbo e la mamma mi assomigliano alla testuggine?” Tutte sagge risorse di una condizione ormai adulta che però l’amore bambino pugnacemente rifiuta, per le naturali dinamiche di amore e odio filiale. Il frettoloso abbandono della bestia da parte del narratore e il recupero altrettanto rapido che ne fa per sottrarla a qualunque altra sorte, sono la dimostrazione di un sentimento controverso, alimentato dalla sofferenza estrema per la difficile vita genitoriale e dal segreto quanto acuto desiderio di negarla:

 

Mi veniva da piangere quando hanno messi i piatti in tavola. Il babbo mi pareva cosi stanco; per la prima volta ho studiato nuovi pensierini per il compito della sera, avrei parlato di babbo e del suo ufficio lontano, della testuggine morta che stava all’aria della finestra, del riso che ogni ventisette il babbo ci portava nelle tasche.

     Nettamente incisa appare la figura paterna, per brevi e fugaci che siano le sue comparse: non un bracciante che rientra dalla campagna bensì un impiegato che torna dal suo “ufficio lontano”, con il riso nelle tasche ogni ventisette del mese, ad ulteriore correzione di “certo meccanico abbinamento della poesia di Scotellaro alle istanze dei contadini” (F. Vitelli, Introduzione. In Scotellaro R. “E’ fatto giorno” (edizione riveduta e integrata a cura di Franco Vitelli, Milano, Mondadori, p. 11) e nella più allargata attenzione per la varietà delle classi sociali. È al padre che il protagonista “deve” i suoi compiti per le vacanze di Natale, brevi pensieri scritti “in un quaderno” e consegnati al rientro dallì’ ufficio in segno di riconoscenza per gli sforzi compiuti dal capofamiglia nell’accettare un lavoro cosi pesante. E c’è da rilevare che, pur negli atteggiamenti stracchi, la figura paterna è quella che sembra positivamente additare l’unica via di uscita, affidata allo studio e al lavoro “di concetto”: “Rimettila alla finestra, si asseccherà, ne faremo un fermacarte per la scrivania”, propone il padre al figlio, implicitamente ribadendo l’importanza assegnata alla cultura. Ma si ricordi che il padre di Rocco era un artigiano.

9. La testuggine

Sarebbe un segreto non farsi prendere dalla malinconia in queste giornate natalizie, eppure nel vicinato i camini, che fumano lenti sulla strada, come i panni sparsi al sole, si prendono i nostri pensieri dentro i loro pennacchi.
È morta stamane la testuggine, l’avevamo tenuta nella crusca, vicino al fuoco per conservarla calda e viva. Già si muoveva cosi poco, la mattina levandoci la trovavamo sulla piastrella bianca della fornacetta che pareva un ornamento come le corna di capra, un po’ più alte verso il soffitto. Franco non se n’è accorto; egli è uscito subito con la palla per giocare. Paolo che gioca con lui dà sempre dei calci forti e due volte la palla è scomparsa nel vicolo e tocca scappare subito dietro perché va a finire di sotto, alle strade parallele, di vicolo in vicolo, e se la prendono gli altri ragazzi che giocano alla lippa. Cosi Franco è tornato a casa che noi eravamo già a tavola, si è intese le grida di mamma perché il riso era a colla.
lo m’ero alzato dopo di lui, sono più grandetto e devo dire che mi piace fantasticare sveglio dentro le lenzuola, mi vengono già dei pensieri che il babbo mi fa scrivere in un quaderno quando si ritira dall’ufficio. Sono le vacanze e devo solo questi compiti al babbo. Serafina mia sorella lavava per terra, la mamma si è messa a ripulire il riso, io giravo per le due stanze, mi rivedo ogni mattina le mie cose; i guanti sono un po’ scuciti, ma vanno ancora bene e devo metterli tra qualche giorno, mi sono provato il basco che devo incignare il giorno di Natale, la cartella è sempre appesa al chiodo, dietro la panca il cerchione di bicicletta è polveroso, non potrei spingerlo oggi con le strade fangose e non farebbe quel canto sulla rotabile come d’estate. Allora mi ricordo della testuggine sulla fornacella: -Levati con quello schifol- mi dice la mamma. L’ho presa con le due mani allo scudo e al piastrone e me ne sono andato nelle scale per stuzzicarla. La testa e le zampe non si muovevano come sempre quando io le faccio sentire il mio fiato vicino. Poi l’ho scossa sulla corazza aspettando che si muovesse come un’automobile a carica, ma solo le zampe per l’urto hanno raschiato un istante i mattoni. L’ho guardata allora nell’occhio, era aperto e nero e luccicante, ho preso lo spillo dai calzoncini e mi sono messo a pungere, quante altre manovre non ho tentate! Mi pareva che ci fosse qualche cosa come nelle automobili a carica quando la molla si allenta o le ruote si svitano. Io ho guardato di nuovo l’occhio nero, io so quanto sono furbe queste bestie e mi sono adirato, l`ho punta nell’occhio, l’ho sbattuta per terra, infine l’ho gettata in fondo alle scale, sono risalito sulla panca a giocare con le cartine “Stella”.
Serafina col suo straccio è passata alle scale, a me le cartine sfuggivano di mano così ero eccitato. Per prenderne una da sotto la panca, c’è voluto il palettino e raschia raschia ho sporcato il pavimento. -Te la vieni a prendere ola getto? -mi ha chiesto Serafina. -Gettala- le ho risposto e mi sono affacciato alla finestra, l’ho vista nemucchio d’immondizia, c’era un cerchio di sole e a lato l’ombra d’un camino, non c’era Paolo, non c’era Franco, la palla doveva essere finita al Precettore, alle ultime case del paese.
La mamma si è messa a risciacquare il pentolino della crusca riponendolo al suo posto e mi ha detto: -Ti è passata, e tutta, la fantasia della testuggine!
Nello sgabuzzino dove mamma aveva rimesso il pentolino erano attaccati a una cordicella i coperchi di latta, ne ho preso due per fare la banda e suonare a piattini Ne veniva un fracasso che mia madre gridava e non si sentiva finché è corsa a battermi sulle mani.
Non potevo più stare nella casa, quando la mamma mi batte ella è nemica estranea e io mi controllo come davanti al maestro di scuola, sono uscito. Tutti i miei compagni e mio fratello Franco avevano preso strada lontani dal vicinato, ero solo e senza guardare la bestia tra l’immondizia sono andato a sedere al portone d
Notaio dove c’era sole.
Il primo a tornare è stato Paolo. Sua madre come un banditore si era a affaccia più di una volta a chiamarlo: “Se non vieni, non vieni, ma se vienil”.
Paolo si avvicina alla testuggine e la prende e sta per portarsela via mentre io gli corro incontro e gli scappa di mano. Allora l’ho ripresa, sono risalito da mamma: Deve essere morta – le ho detto – stanotte. La conservo al babbo per vedere.
L’ho messa alla finestra all’aria perché la mamma ha detto che poteva puzzare.
Il babbo è tornato frettoloso come sempre fregandosi le mani. Mi veniva da piangere quando hanno messi i piatti in tavola. Il babbo mi pareva così stanco per la prima volta ho studiato nuovi pensierini per il compito della sera, avrei parlato di babbo e del suo ufficio lontano, della testuggine morta che stava all’aria della finestra, del riso che ogni ventisette il babbo ci portava nelle tasche. Franco, già corrucciato, non ha detto niente quando gliela ho mostrata, babbo invece si è mosso sulla sedia, mi ha fatto girare dietro e ha smesso di mangiare: -Rimettila alla finestra, si asseccherà, ne faremo un fermacarte per la scrivania.
Franco appariva sempre corrucciato davanti al suo piatto che fumava, a un tratto è scoppiato a piangere, io gli facevo il verso e lui saltava, è finito sotto il tavolo e li man mano si è addormentato.
Serafina è stata lenta a sparecchiare, la mamma ha chinato il capo sul fuoco e il babbo ha aperto il suo giornale.
È successo il solito pomeriggio di festa, babbo è uscito e tornato, sono venute le comari, certe amiche di Serafina,     Franco di nascosto ha mangiato il riso (ce n’era tanto nella madia che nessuno aveva voluto), io alla finestra guardavo la partita di calcio sulla tempa di Santamaria, così la sera è calata.
Di nuovo hanno apparecchiato la tavola e ci siamo disposti intorno allo stesso riso del pranzo e il babbo ha guardato la mamma e Franco si è levato sul seggiolone aprendo le braccia: -Zitti, zitti!
Domani è Natale- ha detto allora la mamma. Ci siamo dati tutti da fare per prendere il gallo dallo sgabuzzino, che volava sulle mensole e per le scale, Franco veniva dietro con le forbici, per il colpo al collo.
Non si è sciupato il sangue che colava in un piattino, il gallo era inserrato con le zampe sotto il coperchio della madia, lo abbiamo squartato come un porco.
Non c’era più altro da fare e mi hanno lasciato solo per il compito di domani. Sulla piastrella bianca della fornacetta ho rimesso la testuggine, sto scrivendo la lettera, domani mi sentiranno: Babbo mio, mamma mia, abbiamo scannato il gallo per sentirci felici, ma la testuggine era morta da sé. Vi voglio bene. Io, Franco e Serafina vi vogliamo bene. Ogni giorno vi tiriamo un po’ di sangue, genitori amatissimi, per crescere, per sentirci felici, grazie, grazie di cuore. Aspetteremo la tua venuta dall’Ufficio, babbo, mamma, andremo a fare la spesa.
Ma come devo dire, a questo punto, che, tanto, il babbo e la mamma mi assomigliano alla testuggine?

 

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