Rabatana avverte che, da domenica 24 luglio, non uscirà per una diecina di giorni e di questo si scusa.

Nicola daziere va alla festa

L’ultimo dei dieci testi qui pubblicati è una differente versione del racconto “La festa”, già comparso nel maggio del 1951 in “Svizzera Italiana” e poi incluso nel volume “Uno si distrae al bivio” edito nel 1974 da Basilicata Editrice. Con titolo mutato in “Nicola daziere va alla festa” e con espunzione di un ampio brano, il testo appare in “Paese Sera” il 14 luglio 1951 ed è stato scelto per la pubblicazione nella speciale edizione di “Forum Italicum” del 2016 e, quindi, così ora compare in Rabatana. Del racconto – attesta la prof. Dell’Aquila – si posseggono due copie identiche di una redazione che consta di quattro fogli numerati dattiloscritti solo su recto, con firma dattiloscritta in calce all’ultima pagina “Rocco Scotellaro” di fianco alla data “Maggio 1951”. La redazione dattiloscritta coincide con il testo pubblicato in “Svizzera Italiana”, poi acquisito in volume nell’edizione Basilicata.
A differenziare il testo di “Paese Sera” è dunque solo la soppressione di un ampio stralcio, qui di seguito riportato, sacrificato nel giornale probabilmente per ragioni di spazio:

Il buon tempo fu a spingere la moglie del Duca Sanseverino che trovò bello il posto dove i pastori, entrati tra le quercie una volta e due per legnare, avevano fatto largo ed era nato il piano. Ed era stato istradato anche uno zampillo fino alle pietre dove si sedevano di solito a far merenda.
Oggi si prende una delle cinque balilla per arrivare al bosco la giornata della festa.
Pochi anni fa ~ invece – venivano in una stessa macchina soltanto il primo cittadino e i preti e bastavano tre viaggi a Ferdinando con la sua Lancia a sei posti per portare a Fonti tutti i professionisti e i proprietari.
Gli altri andavano a piedi o nei traini o con le bestie, generalmente scalzati per devozione alla Madonna, “che in Fonti sta”.
Da quindici anni a questa parte, dalle mezze guerre alla guerra, alla fine prima le biciclette e poi le moto, infine le balilla e i pullman hanno ridotto il numero degli scalzati. Se le cose andavano bene 0 male, se gli uomini non scrivevano o tornavano, bisognava correre alla nicchietta a deporre fotografie e cornicelli, ogni tanto capelli, 0 scarpette di bambini o la veste bianca della sposa che mori nell’allegria, tutta roba di prima. E perciò i dieci chilometri sono coperti di gente, come prima e più di prima, dal paese al bosco.

Il racconto, omaggio al mestiere del fratello di Rocco Scotellaro, Nicola, è da includere tra quelli cosiddetti “d`ambiente’. Nella parte espunta, la connotazione storica riguardante i Sanseverino, Signori di Tricarico, viene piegata a una mitizzazione dei luoghi.
Sebbene ridotto di una buona sezione, il testo pubblicato in “Paese Sera” mostra intatto l’interesse dell’autore per la descrizione di un momento topico nella vita del paese e delle comunità circostanti. Le annotazioni sono infatti prevalentemente incentrate su aspetti folklorici o devozionali nonché sul ruolo del daziere, figura di legalità che non facilmente riesce a esercitare il proprio lavoro, diviso egli stesso tra il rigore della coscienza e la volontà di svestire i panni del pubblico ufficiale, partecipando più spensieratamente all’evento paesano.
Le scelte operate nella trascrizione dei testi hanno necessariamente incrociato, quanto meno per necessità di “anamnesi”, le ragioni del dibattito svoltosi negli anni Cinquanta che nella lingua del poeta trovava elementi di rinforzo per le diverse letture.
Certamente Scotellaro guarda spesso a una tradizione poetica, e più ampiamente letteraria, che contadina non è; nello stesso tempo, sia attingendo al parlato e al dialetto sia attraverso l’inserimento di frasi altrui – cioè dando spazio a quanti “normalmente non fanno sentire la propria voce, di modo che una scelta apparentemente solo sintattica si carica di valenza sociale” (De Blasi, 2013: 26) -, perviene a una lingua discontinua”, per “la presenza antinomica di culto e popolare” (Vitelli, 1982: 8). Tale discontinuità è da rilevare anche qui: gli aulicismi di matrice classicistica che lo scrittore, pur in un indirizzo di realismo, accoglie nella sua poesia, convivono anche nella sua prosa con espressioni colorite e proprie della cultura contadina e lucana. Si vedano, per un verso, il participio “schiarate” (Il pellegrino della neve), l’avverbio “immantinente” (Infanzia), il sintagma “le calme del meriggio” (La morte in vacanza); per l’altro, le espressioni “soffiava il pelo” per ‘soffiava sulla parte superficiale’ (Il pellegrino della neve), “voccole” e “lamione” (L’affacciata alla finestra), “pittatore” e “addivozione” (Nicola daziere va allafesta).
Una singolare coincidenza di aulico e dialettale sembrano attestare i termini “calcagne” (Ed anche i ricchi. . .) e “lumera” (Il coprifuoco).
Nell’idea che in questa commissione sia da vedere uno dei tratti più forti della scrittura scotellariana, la trascrizione dei racconti è avvenuta secondo criteri conservativi. Ciò anche quando si è entrato in rotta di collisione con alcune regole della lingua italiana: si pensi, ad esempio, al plurale dei nomi in -cia e –gia che si è preferito mantenere nella forma sistematicamente adottata da Scotellaro in accordo con le scelte precedentemente adottate anche per l’edizione della produzione poetica (Vitelli, 1989c :147-128).
Identico criterio nel mantenimento delle maiuscole delle quali Scotellaro fa un uso strettamente connesso con personaggi e situazioni (si veda, ad esempio, l’uso enfatico della maiuscola nel racconto Ed anche i ricchi …, in riferimento al commendatore Franceschi, definito “Signore”).
Conservare alcune espressioni di derivazione dialettale “fanchiglia” nel Pellegrino della neve; “Essi” nel racconto Infanzia come trascrizione del parlato al posto di “Eh si”.
Per una migliore fruizione dei testi, sulla punteggiatura sono stati operati alcuni interventi, se non altro perché certe incongruenze sembrano ricondurre a errori materiali.
Sono stati corretti i refusi riscontrati sia nei dattiloscritti sia nei manoscritti.
Tutte le citazioni tra « », in assenza di riferimento, sono da considerarsi attinte da materiale inedito.

(Da Giulia Dell’Aquila, Forum Italicum 2016, pp. 768-70)

10 Rocco Scotellaro: Nicola daziere va alla festa

La prima festa capita di maggio, con le ginestre e le fave piene. Sui traini traballanti si canta la vecchia storia del pittore pugliese, cui annottò nel bosco pieno di lupi e la Madonna gli chiese: “Bel pittatore che vai pittando – perché non me la pitti la cappella?”. Diventò cieco perché aveva risposto alla voce pretendendo duecento ducati di compenso, ma poi capi e mise i colori alla cieca su una pietra. L’alba viene per istrada a chi si avvia con i vecchi mezzi, cantando la storia del pittatore. Dal venerdì sono arrivati i venditori ambulanti che fanno trovare il piano imbandito di tavole e carrozzini con i giocattoli, le arachidi e le prugne secche.
Anche sezioni di bar e di cantine ci sono.
Da San Chirico hanno tuttora il coraggio di portare un paio di barili di vino, li piazzano sull’erba con i litri e i quarti di latta, certo che vendono, ma non vale la pena del trasporto e le spese del dazio, vendono a qualche pazzo isolato, perché tutti gli altri arrivano forniti di maccheroni e carne e vino e dopo la visita alla chiesetta accendono i fuochi per il pranzo. Nella chiesetta, finita la messa, le fedeli gridano i loro canti e vanno a far colazione vicino al pulpito e nella sagrestia. “Ointanì, ointanà” così cantano e le funi dell’altalena si stirano. C’è la gente di almeno dieci paesi, i compari si salutano, si mettono insieme, si vedranno l’anno venturo, ma gli altri che non si conoscono si guardano con curiosità e gelosia; se portano il mulo o la fisarmonica, se li confrontano e può scoppiare per niente una lite, specie trai giovani. Nicola, daziere giovane, è stato mandato da Tricarico a fare il servizio. Ha preso la bicicletta, porta la coppola con la pezza, da dove spiccano le maiuscole ricamate in oro delle Imposte e Consumo. Egli se la sente in cielo la coppola, sa che il suo piccolo corpo è potente nella bandoliera che lo cinge. Guarda dalla sua aria alta e mossa le donne a piedi e i cavalieri sui muli e spinge lo sguardo dal suo seggiolino al parabrezza delle macchine per scoprire: nessuno può portare più di due litri di vino a persona, deve essere per proprio consumo, se no si contravviene e sono pronti il blocchetto e la matita. Nicola vuole fare un buon lavoro, non si salverebbe neanche la Madonna in persona. E gira e capita dai venditori e da quelli di San Chirico, che devono mostrare il permesso perché il bosco è agro di sua competenza. Gli piace sentirsi sulla bocca il lungo bacio dei venditori che gli fanno complimenti ed inviti alla merce, perché ora egli è passato a controllare tutti i posteggi. A mezzogiorno sparano i fuochi, è la vera festa, le bestie si impauriscono, le tende delle baracche si piegano, il vocio dei paesi si perde negli scoppi, allora Nicola si accorge che deve cercarsi la compagnia perché coppola e bandoliera lo hanno abbandonato. Ma ecco che si rincorrono, sotto le quercie, verso la fontana, una decina di giovani, spiccano le loro giubbe di velluto e le camicie celesti, la lite è scoppiata, un bruno di Tolve è stato accoltellato al braccio da un sammaurese proprio quando sparavano i fuochi. “Addivozione dei Sammauresi” è scritto sulle panche della Chiesa, fatte fare da loro che si sentono i meno forestieri dell’ambiente. Quelli di San Mauro fanno trenta chilometri di scorciatoie per venire fin qui. Portano il distintivo del partito comunista e lasciano cantare per tutti la loro paesana, una vecchia che arriva a Fonti, vestita di nero, va in sagrestia, si spoglia per mettersi in bianco, in solennità come un prete e comincia a cantare la catena alla Madonna. “Alla una colonna – quant’è bella la Madonna – Tu sei la Madre – Tu sei la Regina”. Alle due, alle tre, alle undici colonne, canterà fino alle 13 la sua interminata catena che riprende poi da uno. Il tolvese si è trovato isolato, altrimenti succedeva una carneficina, corrono dai gruppi, dalle coperte sull’erba dove si consumano i pranzi. Non c’è una festa senza incidenti – ha detto il capoguardia – sono forestieri, è stato per una ragazza.
È tornata la pace, nel piano i potentini ballano con la fisarmonica, le loro donne cittadine portano le vesti di lusso. I paesani dapprima si avvicinano, ma notando i balli di un’altra maniera e sempre le stesse coppie e certe mosse fastidiose, si devono allontanare. Allora vogliono ballare anche i paesani, basta con l’altalena: chitarra e mandolino, fisarmonica pastorale, polka e tarantella, mazurka. Gli albanesi, i campomaggioresi, Grassano, Anzi, tutti, meno i potentini, i preti e le autorità e Nicola, che è ripartito senza bandoliera e la coppola sotto il braccio, perché sudava, e il fazzoletto pieno di nocellini per la mamma.
“Tricarico e San Chirico – è un sol paese – fateli ballare – sti tricanesi”. Diflicile, ma -infine – si sono trovati dalla stessa parte, partiranno gli ultimi, indietreggeranno dal muro dov’è pittata la Madonna: “Noi mò ce ne andiamo – ci vediamo l’anno che viene – e se non ci vediamo più – Madonna aiutaci tu”. Riprende il cammino, molti si fermeranno nelle terre a lavorare. I salariati del posto rialzano le verghe, menano i buoi al bosco, al loro casone i fontaiuoli accendono il lume e lo Straziuso, che tiene un po’ di animali, pecore, capre, porci e due bovini, abita accanto a loro in un pagliaro con la famiglia, rimette al suo cane il collare di ferro contro il lupo.

 

One Response to Rocco SCOTELLARO: 10. Nicola daziere va alla festa

  1. Maria Teresa Langerano ha detto:

    Le testimonianze sullo sterminio agito dai tedeschi sono tutte rilevanti e vanno conservate nella nostra memoria personale e collettiva. Mi è assai gradito il ricordo di Ceija Stojka, donna di coraggio e grande determinazione, che con la sua arte, la Stojka è scrittrice, cantante, poetessa e pittrice, riesce a superare i ricordi delle terribili esperienze vissute in tre campi di concentramento, ricordi che altrimenti l’ avrebbero schiacciata e soppressa. Infatti tali ricordi lei li scrive in un libro dal titolo alquanto significativo “Forse sogno di vivere”. Ceija Stojka è una zingara che ha subito l’altro importante sterminio operato dai nazisti, quello appunto contro gli zingari. Voglio concludere con una sermone del pastore Martin Niemoller : Prima di tutto vennero a prendere gli zingari/ e fui contento perché rubacchiavani./ Poi vennero a prendere gli ebrei/ e stetti zitto perché mi stavano antipatici./ Poi vennero a prendere gli omossessuali e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi./ Poi vennero a prendere i comunisti/ e io non dissi niente, perché non ero comunista./ Un giorno vennero a prendere me/ e non c’era rimasto nessuno. Questa poesia vuole essere un monito a non girare lo sguardo dall’ altra parte di fronte ad ogni forma di violenza, ingiustizia, sopruso compiuto nei confronti di qualsiasi individuo che appartenga a etnia, gruppo diverso dal nostro.

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