Nel n. 63 della «Rassegna Storica Lucana», Anno XXXVI – XXXVII, dell’Associazione per la Storia Sociale del Mezzogiorno dell’Area Mediterranea, è pubblicato – con altri sei Studi e Ricerche, una nota e tre recensioni – la Ricerca di Carmela Biscaglia intitolata «Il generale Vincenzo Monaco e il carteggio col Vescovo Raffaello Delle Nocche».

La ricerca della prof. Biscaglia si può leggere facendo clic sul seguente link: C. BISCAGLIA, Il generale Monaco, RSL, n. 63-66, 2016-2017

Mons. delle Nocche inviò al generale la sua prima lettera il 3 aprile 1928, a due mesi dalla morte del fratello, il magistrato Emilio Monaco, avvenuta il 14 febbraio, proponendogli un incontro con un «coltissimo e zelante predicatore, venuto da Firenze», che potesse guidarlo in un «proposito meditato e serio» che lo riportasse a Dio e fosse di buon esempio per i suoi fratelli e i tanti suoi amici e ammiratori. Infatti, aggiungeva il vescovo, richiamandolo alle sue responsabilità, il posto altissimo da lui raggiunto per la «proverbiale onestà, le doti preclare dell’ingegno e delle virtù civili», rendevano questa sua lontananza dai doveri religiosi dannosa non solo a lui, ma anche a molti altri.
La risposta del generale fu immediata e chiarificatrice del travaglio dell’animo suo sul tema della fede. Fino ai venti anni egli era stato, infatti, un convinto cattolico e abbastanza edotto e consapevole dei principi della dottrina e della fede cristiana, ma i successivi studi richiesti per la sua carriera e fondati su una logica rigidamente razionale, lo avevano poi allontanato dalla fede cristiana, mantenendolo però nella convinzione che si potesse essere buoni cristiani anche solo «uniformandosi ai canoni della legge morale, che è il cardine inconcusso intorno al quale si aggirano e si mantengono eternamente belli ed avvincenti i precetti della vera Religione di Cristo». Il raziocinio lo aveva convinto, infatti, che all’anima umana fatta «ad immagine e somiglianza dell’Ente Supremo, che è anche supremo Vero, questo può bensì presentarsi talvolta incomprensibile alle di lei limitate facoltà e rimanere avvolte in ciò che dicesi mistero», ma giammai assumere «forme contraddicenti con altre verità intuitive, evidenti e del pari eterne». Il generale, confidando poi al vescovo che di frequente si presentava in lui quel pensiero dell’aldilà, in cui il suo spirito «disgraziatamente si smarri[va] e quasi resta[va] annullato in un buio profondo ed inesplorabile», gli manifestava la speranza che in quello scorcio della sua vita, un «benefico raggio di luce [potesse venire] a rompere questa profonda tenebra».
Il vescovo lo incalzò, asserendo che «la vera scienza non è stata mai in contrasto con la Fede», ma che questa va alimentata, secondo le facoltà che Dio ci ha dato e, avendo egli ricevuto da Dio «ingegno eletto e mezzi per coltivarla», non doveva limitarsi alle nozioni apprese nella fanciullezza, ma dedicare ai problemi fondamentali dell’esistenza uno studio proporzionato, condotto senza preconcetti e con umiltà di cuore. Solo così avrebbe ritrovato con la fede anche la gioia serena dello spirito. Al termine della lettera, il vescovo non solo si offrì di fornirgli qualche libro che avesse potuto essergli di aiuto, ma addirittura di andare a visitarlo di persona.
Il generale gli rispose nuovamente, evitando l’incontro diretto col presule e spiegandogli come, diventato libero da «obblighi ed impegni», aveva iniziato ad approfondire i temi della fede, ma non era riuscito ad accettare razionalmente il principio della «Rivelazione e della necessaria indiscutibile credenza in essa, la quale è il cardine che sostiene i più ardui enunciati teologici». In tempi più recenti, spinto dal desiderio o dal bisogno di convincersi se veramente il suo modo di vedere talune cose nascesse da semplice ignoranza, aveva iniziato a meditare sugli scritti di Geremia Bonomelli, uomo dotto e pio ma anche di spirito moderno, che però non gli erano stati di aiuto. Dopo articolate disquisizioni sulle verità trascendentali della dottrina cattolica e su taluni comportamenti riprovevoli tenuti dalla Chiesa nei tempi passati, nella parte finale della lunga lettera il generale confidò al vescovo i tentativi spesso condotti da quel suo fratello (il canonico Giuseppe), che «legge come in un libro aperto nell’animo mio», per ricondurlo alla fede cristiana, augurandosi che questo potesse accadere quanto prima.
La corrispondenza tra il vescovo delle Nocche e il generale Monaco termina così. Non sapremo mai se questi contatti epistolari ebbero un seguito e quale fu la decisione finale dell’anziano generale, che sarebbe morto di lì a quattro anni. L’oggetto del disquisire tra queste due figure di alto livello intellettuale e dalle esperienze di vita profondamente diverse, riconduceva al rapporto tra fede e scienza. Era un tema affermatosi negli ultimi decenni del XIX secolo e ancora molto avvertito in quel primo Novecento, quando l’esaltazione del progresso scientifico e la fiducia illimitata nella ragione e nel sapere avevano aperto la strada al positivismo che, imponendo i diritti della ragione e della scienza, e attribuendo a quest’ultima una portata assoluta e di tipo religioso, aveva affermato una visione tendenzialmente laica e immanentistica della vita. (Passi tratti dalla citata Ricerca della prof. Carmela Biscaglia).

Modena, 1874. Vincenzo Monaco, tenente nello Stato Maggiore del Genio
(Archivio Monaco, Tricarico) 155

 

 

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