Omaggio alla cucina lucana e alla salsiccia di Tricarico
DAL DOMENICALE IL SOLE 24 ORE DEL 10 APRILE 2010
Tra i Sassi c’è fantasia per la cuoca
A me mi piace
di Davide Paolini
Succede sempre meno di provare le emozioni descritte da Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro, ovverosia «mangiare il territorio» per avere il senso di un luogo. Ebbene questa percezione l’ho sentita in modo profondo a Matera, in quel posto, unico al mondo, che sono i Sassi, silenti, magici, deserti, dove il tempo scorre lentamente, quasi come nel Deserto dei tartari di Dino Buzzati, in attesa che succeda qualcosa.
Proprio qui, tra i Sassi, da poche settimana (è ancora in via di ultimazione) ha aperto i battenti l’Hotel Sant’Angelo (piazza San Pietro Caveoso, tel. 0835/314010), 22 camere una diversa dall’altra, ma tutte create in locali scavati nella roccia calcarea, così come il bar e parte del ristorante Regia Corte. E sono appunto le pietanze che escono da questa cucina a far capire il significato di «mangiare il territorio» di quel luogo.
La cuoca Anna, moglie del patron Ruscigno, con la madre abile nella preparazione della pasta, sciorina un menu dove trovano posto tutti i giacimenti lucani, quasi a voler testimoniare il territorio: i fagioli di Sarconi, il peperone di Senise, le verdure, la carne di razza Podolica, l’agnello, i funghi cardoncelli, i formaggi. Un posto di primo piano è per l’eccellente pane di Matera, che gioca un ruolo importante nella cucina locale ma è sempre più apprezzato anche fuori città, grazie all’uso della semola dura rimacinata, al lievito naturale e al forno a legna, che consentono una lunga durata. E guarda caso, alla Regia Corte due piatti gustosi sono le polpette di pane al profumo di basilico – davvero difficile smettere di mangiarle! – e la cialledda, piatto in cui viene utilizzato pane raffermo.
Molte pietanze sono “bocconi vegetariani”: purea di fave bianche con verdure selvatiche, crapiata di legumi, parmigiana di melanzane, timballo di cardoncelli, caponata di melanzane con mandorle e pinoli fritti misti di verdure, squisite polpette di lampascioni, cicorielle campestri alla materana. Non si resiste alla tentazione di fare un misto! Anche gli accostamenti di pasta «prediligono verdure o legumi»: le orecchiette con le cime di rapa, i cavatelli con fagioli di Sarconi, le strascinate con cavoli e pancetta. Ma le carni ci sono eccome: la scelta è tra salsiccia di Tricarico, agnello alla brace e tagliata di Podolica, ma vale un assaggio l’appetitoso crostone di pane con braciolette di Podolica al lardo con rape stufate. Per chiudere, il consiglio è di lasciare la delicata ricotta di capra come dessert con aggiunta di miele d’acacia. Oppure assaggiare i diversi eccellenti pecorini lucani (di Moliterno e di Filiano). Si può cenare con un vigoroso Aglianico del Vulture di Terre degli Svevi (Re Manfredi) o di Elena Fucci (Titolo) o di Paternoster (Don Anselmo). Sine qua non.
4 Responses to Omaggio alla cucina lucana e alla salsiccia di Tricarico
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Non vi sembra una spudorata, spero non prezzolata, reclame? Quanto ai “sassi silenti magici e deserti’, soprattutto in questo periodo, beh, lasciamo perdere: pura fantasia! Evviva il consumismo eno-alimentare-gidereccio! Ciao Antonio, non abboccare, il territorio sono anche le aree interne e, a parte i prodotti di nicchia (fino a un certo punto) citati nell’articolo, il Sud, per le politiche attuate all’unità di Italia in poi, é ‘vocato’ a consumare, non a produrre!
Mimmo, Ti ringrazio del tuo commento. Ma io ero e sono in un altro mondo, su un altro pianeta. Ho saputo stamattina che è stato chiuso un ristorante lucano, aperto da gente di Banzi, il paese di Orazio lontano un tiro di schioppo dal mio paese natale, per dirla con una espressione in disuso. C’era un negozio di prodotti gastronomici lucani e ha dovuto chiudere perché aveva una scarsa clientela; il macellaio che faceva la salsiccia lucana (la faceva solo per me, perché ai ferraresi non piaceva; gliela aveva insegnata a fare mia madre) ha chiuso da quel dì. Mi sono ricordato di questo articolo pubblicato sul Domenicale del Sole 24 ore di 8 anni fa e l’ho pubblicato su Rabatana. Non so quali fossero state le intenzioni dell’autore e non mi interessa (ma che uno che si qualifica giornalista gastronauta, e cioè di mestiere va in giro a raccontare i prodotti gastronomici dei vari luoghi, mi pare che facesse semplicemente il suo mestiere e lo facesse bene o male, ma non spudoratamente). “Mangiare il territorio” ha un significato profondo e realistico,è una necessità. Non lo dico e non lo penso solo io, l’ha spiegato da par suo Calvino. Su Matera, specificamente come capitale della cultura, ho recentemente pubblicato su Rabatana un altro articolo del Domenicale per lo meno scettico. Mi sarebbe piaciuto conoscere qualche opinione, ma il piacere non l’ho avuto.
Ripeto: “mangiare il territorio” è una necessità. Qui non si trovava un fico neanche a pagarlo a peso d’oro. Poi sono cominciati a comparire in qualche supermercato, ma è meglio non mangiarli. E a me i fichi di Tricarico piacevano. I fichi (del suo territorio, naturalmente) piacevano anche a un mio amico di origini abruzzesi, che non c’è più, e aveva nostalgia della sua terra. Non accettava che in questa provincia non si coltivassero fichi e se la perlustrò palmo palmo. Trovò un solo albero in un piccolo comune chiamato Masi Torello. Forse perché questa terra non produce fichi c’è una favola romagnola (la riporta Calvino, che in un altro scritto, ripeto, descrive le emozioni di “mangiare il territorio”) intitolata “La figlia del Re che non si stufa di mangiare fichi”. E’ tutto. Caro Mimmo, non abbocco. Anche se sono ubbriaco per mancanza di sonno, qui la questione meridionale non c’entra. Hai fatto bene a evocarla, perché non c’è più nessuno che la ricordi e i vecchi comunisti – lo dice il mio amico Bersani – votano in massa lega. Un abbraccio.
Italo Calvino – Sapore-Sapere (Sotto il sole giaguaro)
Gustare, in genere esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere. o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio ai Latini valeva in traslato sentir rettamente: e quindi il senso dell’italiano sapere, che da sé vale dottrina retta. e il prevalere della sapienza sopra la scienza.
Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi.
Ciao, Antonio. rieccomi.
Cercherò di recuparare il tempo perduto, leggendo i tuoi sempre saporosi scritti. Per ora permettimi d’integrare il tuo “inno” al salame di Tricarico con una doverosa citazione del salame e soprattutto della “sopressata” di Stigliano. Che, anche per il clima legato all’altitudine, penso che non abbia uguali. Lo dico senza alcuna forzatura di ordine campanilistico.
Un caro saluto.
Angelo