U puzënèttë
La «pietanziera» è la settima di venti novelle di Italo Calvino raccolte nel volume «»Marcovaldo ovvero Le stagioni in città». Alcune novelle erano già uscite ad episodi sulle pagine dell’«Unità», organo editoriale del Partito Comunista Italiano all’epoca in cui ancora Calvino ne era un militante. Il sottotitolo «Le stagioni in città» si rifà alla struttura dei racconti, associati ognuno ad una delle quattro stagioni dell’anno. La pietanziera è associata all’autunno. Protagonista di tutti i racconti è Marcovaldo, un manovale con problemi economici, ingenuo, sensibile, inventivo, interessato al suo ambiente e un po’ buffo e malinconico.
L’associazione pietanziera-autunno richiama il puzënèttë, contenitore di colazioni così chiamato a Tricarico e certamente noto in altre zone della Basilicata e del meridione; e rinvia al rito di una cena di saluto all’autunno, che offrivamo ai nostri amici nei primi giorni autunnali.
Il vocabolario della lingua tricaricese di Domenico Langerano definisce puzënèttë recipiente di latta in cui si porta la colazione. I puzenètte di latta, rarissimi se non del tutto ignoti, arrivarono dopo quelli di legno – contenitori bombati, di forma ovoidale, con coperchio avvitato. Serviva ai contadini per portare la colazione nelle giornate di lavori in campagna e coronava i momenti di festa per la campagna nei giorni di vendemmia, quando si pigiava l’uva a piedi nudi. La colazione consisteva generalmente in pezzi di patate lesse saltate con peperoni fritti, ma naturalmente nel contenitore si metteva tutto quanto si aveva a disposizione, dagli avanzi alla salsiccia. Patate e peperoni, chiusi ore nel puzënèttë, si scambiavano profumi e sapori e assorbivano i profumi del legno e dei diversi cibi e degli odori della campagna assorbiti dal puzënèttë negli anni di servizio, che era anche il nome per antonomasia della colazione in esso contenuta e specificamente delle patate con i peperoni fritti. Mangiato tiepido, all’ora del muzzk, si pregustavano le gioie del recipiente, che avevano inizio, dice Calvino, nell’essere svitabile: già il movimento di svitare il coperchio richiamava l’acquolina in bocca. Ma quante altre gioie, date dall’abbraccio di odori e sapori che solo i puzënèttë di legno potevano dare, si erano perse!
Il vocabolario di Domenico Langerano riporta un altro significato del termine puzënèttë, che allude, elogiativamente, al momento terminale del processo digestivo. Da ragazzi spesso ne facevamo un rito celebrato sotto i ponti o in aperta campagna e lo concludevamo con grida di giubilo.
Carlo Levi, nel «Cristo si è fermato a Eboli», descrivendo la casa che aveva trovata e affittata ad Aliano, fatta costruire dal gaudente prete, padre di numerosa prole, predecessore di don Traiella, riferisce il ricordo di analogo rito celebrato da emigrati grassanesi in America. Ne riporto il brano: «E soprattutto, a compenso di qualunque difetto, lo spirito epicureo del defunto prete aveva dotato la mia casa di un bene inestimabile. C’era un gabinetto, senz’acqua naturalmente, ma un vero gabinetto, col sedile di porcellana. Era il solo esistente a Gagliano, e probabilmente non se ne sarebbe trovato un altro a più di cento chilometri tutt’attorno. Nelle case dei signori ci sono ancora delle antiche seggette monumentali di legno intarsiato, dei piccoli troni pieni di autorità: e mi hanno detto, ma io non ne ho viste, che se ne trovano anche di quelle matrimoniali, a due posti, per quei coniugi affettuosi che non possono tollerare la più breve separazione. Nelle case dei poveri, naturalmente, non c’è nulla. Questo fatto dà luogo a delle curiose costumanze. A Grassano, in certe ore quasi fisse, il mattino presto e verso sera, si aprivano furtivamente le finestrelle delle case, e dallo spiraglio apparivano le mani rugose delle vecchie, che lasciavano piovere, in mezzo alla strada, il contenuto dei vasi. Erano le ore della «jettatura». A Gagliano questa cerimonia non era così generale né così regolata: non si sprecava così prodigalmente il concime per gli orti.
La mancanza di quel semplice apparecchio, assoluta in tutta la regione, crea naturalmente delle consuetudini che non si sradicano facilmente, che richiamano mille altre cose della vita, e si accompagnano a sentimenti considerati nobilissimi e poetici. Il falegname Lasala, un «americano» intelligente, che era stato, molti anni prima, sindaco di Grassano, e che conservava gelosamente, nel suo monumentale apparecchio radio portato di laggiù, con i dischi di Caruso e dell’arrivo di De Pinedo, quelli di discorsi commemorativi di Matteotti, mi raccontava che, dopo la settimana di lavoro a New York, usava incontrare un gruppo di compaesani, ogni domenica, per una scampagnata. – Eravamo sempre otto o dieci: c’era un dottore, un farmacista, dei commercianti, un cameriere d’albergo, e qualche artigiano. Tutti del nostro paese, ci si conosceva fin da bambini. La vita è triste, tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, e gli ascensori, le porte girevoli, la metropolitana, e sempre case e palazzi e strade, e mai un po’ di terra. Viene la malinconia. La domenica mattina si saliva in treno, ma bisognava fare dei chilometri, per trovare la campagna! Quando eravamo arrivati in qualche posto solitario, diventavamo tutti allegri come ci si fosse tolto un peso di dosso. E allora, sotto un albero, tutti insieme, ci si calava i pantaloni. Che delizia! Si sentiva l’aria fresca, la natura. Non come in quei gabinetti americani, lucidi e tutti eguali. Ci pareva di essere ragazzi, d’essere tornati a Grassano, si era felici, si rideva, si sentiva l’aria della Patria. E, quando avevamo finito, gridavamo tutti insieme: «Viva l’Italia!» Ci veniva proprio dal cuore.
Ferrara è bella. L’architetto Carlo Bassi, una tra le menti più brillanti, acute, eclettiche della capitale estense, ha spiegato perché Ferrara è bella nell’ultimo suo libro prima della scomparsa a 94 anni, intitolato «Ferrara rara» (Fer-rara), nel quale cerca di cogliere la poesia della città e il suono che le architetture e gli spazi rimandano. Ma Ferrara paga lo scotto della sua bellezza con un clima invivibile, tranne che nei primi giorni di autunno quando l’afa irrespirabile dell’estate, impregnata delle esalazioni degli antichi maceri su cui è costruita tutta la città, si è appena quietata e non ancora sono calate le fitte nebbie dell’inverno che penetrano nelle ossa per rimanervi. In quel breve periodo Titina, golosa di patate della vendemmia e nostalgica della vendemmia della loro vigna sulla tempa di Santa Maria, aveva inaugurato una cena di saluto all’autunno. Invitavamo i nostri più cari amici, dotati della sensibilità giusta per comprendere il senso di quel convito (alcuni hanno voluto visitare e hanno visitato Tricarico). Le patate della vendemmia erano il piatto pregiato della serata, degnamente onorato, generosamente innaffiato con qualche bicchiere di ottimo vino, e chiacchiere e racconti e ricordi e appassionate discussioni politiche, e innocenti pettegolezzi che non si finiva più.
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Meravigliosa questa descrizione e tutti gli accostamenti.
Quando frequentavo il Liceo Scientifico nell’ex seminario,anni 80, tutte le mattine in piazza,prima delle lezioni, passava questo signore anziano in bici o a piedi,vestito che sembrava andare in guerra, con il puzenette sempre presente, non sono mai riuscito a sapere chi fosse, forse ultimo baluardo delle abitudini contadine….
Ricordo di aver letto un passo della relazione dell’ambasciatore del duca di Modena, dove si riferiva dell’ottimo stato delle relazioni con la Francia confidando che il Re Luigi XIV gli aveva concesso l’alto onore di riceverlo in seggetta. All’epoca di Luigi XIV, il Re Sole, essere ammessi alla sua presenza mentre era intento ad espletare i propri bisogni corporali, era infatti un onore e un privilegio. Per carità, si può capire. Anche a considerare le sfarzose seggette di Gagliano descritte da Levi, non è facile immaginare quale allure dovesse regalare la seggetta del Re Sole.