Storie di topi: tra favola e realtà
DOMENICA13 GENNAIO 2019Il Sole 24 Ore domenica
In anteprima un racconto di Camilleri. Il misterioso furto delle banconote dalla scrivania del nonno, i malumori in famiglia, l’indagine e, alla fine, ecco i veri colpevoli…
Insoliti ignoti nella casina di campagna di Andrea Camilleri
Con APPENDICE: Il topino di Giulio Dente
Nonno aveva portato in campagna la scrivania che un tempo teneva nel suo «scagno» in paese. Era stato un grosso commerciante di zolfi e quella maestosa scrivania aveva rappresentato il simbolo della sua ricchezza.
Aveva un rialzo che, partendosi dal piano di scrittura, si sollevava per un metro e mezzo ed era composto da diecine di cassettini pieni, allora per me, di meraviglie: ceralacca, timbri, spille, francobolli, marche da bollo.
A destra e a sinistra del vano dove s’infilavano le gambe, c’erano tre grossi cassetti per parte sempre chiusi a chiave. Ma un altro cassetto, il più importante, era quello di centro, proprio sotto al piano di scrittura. Anche questo era sempre chiuso a chiave.
Là dentro nonno conservava conti, ricevute, libri mastri e soprattutto il denaro che gli occorreva per i lavori di campagna.
Era un uomo ordinato e preciso e perciò il denaro lo suddivideva dentro tante scatolette di cartone senza coperchio: le monete in cinque o sei scatoline a seconda del loro valore; una sola, più grande delle altre, conteneva le banconote.
Un’estate il nonno, che era solitamente assai gentile con tutti, cominciò a mostrarsi un pochino nervoso. Parlava poco, rispondeva di malavoglia. Ce ne accorgemmo e pensammo che non stesse tanto bene in salute.
Un giorno, a tavola, nonna gli domandò: «Ma si può sapere che hai? Stai male? Vuoi che faccia venire Gino?». Gino era lo zio medico.
«Qua non c’è bisogno di un dottore, ma di un carabiniere» rispose nonno. Naturalmente, restammo tutti perplessi. Che voleva dire? Lo seppi qualche giorno dopo, quando mi chiamò nel suo studio.
«Entra, chiudi la porta e siediti». Aveva un tono di voce severo.
«Parliamo da uomo a uomo. Tu» mi disse «sei sempre stato un picciotto leale. E perciò da te voglio una risposta sincera. D’accordo?».
«Sì, nonno».
«Sei tu che l’apri?» mi domandò indicandomi il cassetto centrale.
«Io? E perché dovrei aprirlo?» risposi veramente sorpreso dalla domanda.
«Se mi dici che non sei stato tu, ti credo» fece guardandomi negli occhi.
«Ti giuro, nonno, che…».
«Non giurare, puoi andare».
Corsi da nonna, con la quale avevo molta confidenza. «Perché mi ha domandato se avevo aperto il cassetto?». «Perché gli spariscono i soldi di carta». «E pensa che possa essere stato io?!». Mi sentii profondamente offeso, mi venne da piangere. Mia nonna mi consolò come meglio poté, ma io mi portai a lungo dentro una specie di risentimento verso di lui. Per una settimana non volli accompagnarlo nella passeggiata che ogni giorno si faceva al tramonto.
Zio Massimo cambiò la serratura del cassetto e consegnò solennemente le nuove chiavi a nonno. Il problema sembrò risolto.
Ma tre giorni appresso, a tavola, nonno era nuovamente d’umore nero. Appena le cameriere, la gnà Filippa e sua figlia Grazia, portarono il primo piatto, alzò una mano e disse: «Sentitemi bene. Avevo cinque fogli da cento lire nel cassetto. Stamattina, aprendolo, non ne ho trovato manco uno». Fece una pausa e aggiunse: «Non voglio dare la colpa a nessuno. Ma il fatto è questo: qualcuno di voi mi ruba i soldi. Oggi dopo pranzo tu, Massimo, vai a chiamare i carabinieri. Continuate a mangiare. Io non ne ho voglia».
Si alzò e se ne andò nella sua camera da letto. Ci sentimmo tutti colpevoli. Calammo la testa sui piatti, ma nessuno osò cominciare a mangiare.
«Ma come?!» fece stupito e irritato zio Massimo rompendo il pesante silenzio. «Anche con la nuova serratura?». Si alzò di scatto, dicendo alle cameriere: «Venite a darmi una mano». Naturalmente gli andammo tutti dietro. Con l’aiuto delle due donne, lo zio spostò la pesantissima scrivania che praticamente copriva tutta una parete dello studio.
Già mentre la spostavano, cadde a terra, svolazzando, una banconota da cento ch’era rimasta incastrata nel retro. E subito dopo ne scorgemmo un’altra, accartocciata, infilata per metà dentro a un buco nel pavimento, fino ad allora rimasto del tutto coperto dall’imponente scrivania.
Allora non avemmo più dubbi: erano topi, i ladri. Entravano da dietro, approfittando di un piccolo spazio tra il cassetto e il piano del tavolo, rubavano le belle banconote profumate (per loro) di grasso e sudore, e se ne scappavano per la stessa strada.
Ma che se ne facevano?
Senza dire una parola, lo zio uscì dallo studio, scese le scale di corsa, aprì la porticina della cantina, sempre seguito da tutti noi, entrò, si fermò, guardò in alto come per orientarsi e poi si diresse verso le botti che stavano poggiate in fila sopra due lunghissime travi parallele, a loro volta sorrette da colonnine di cemento.
S’infilò in mezzo alle due travi e si chinò a guardare sotto all’ultima botte. Lo sentimmo cominciare a ridere, sempre più forte.
Poi si rialzò, scavalcò la trave e ci disse: «Andate a vedere. Io vado a dirlo a papà». Non resistetti alla curiosità. Precedendo tutti, m’infilai in mezzo alle travi e guardai sotto alla botte.
C’erano tre nidi di topi, tutti fatti usando le banconote di nonno.
Ogni nido poggiava su alcuni fogli intatti, che, disposti l’uno sull’altro, ne costituivano la base. Sopra di essa, i resti di altre banconote, appena riconoscibili perché tutte finemente triturate, formavano un soffice lettino per i neonati.
© ANDREA CAMILLERI E HENRY BEYLE EDIZIONI
Erano topi, i ladri. Ma che se ne facevano dei soldi? C’erano tre nidi fatti con le banconote…
Dalla favola alla realtà: IL TOPINO DI GIULIO DENTE
Andiamo dallo scagno del nonno alle nostra scuola delle elementari. A fianco del banco di Giulio Dente, sul pavimento, c’era la tana di un topolino. Giulio, come tutti i ragazzi, aveva la tasche piene di molliche di pane. Per i nostri giochi ci riempivamo le tasche di pane e mettevamo larghe fette nella pettorina e dal pane delle tasche si sbriciolavano grandi quantità di molliche: avevamo le tasche piene. Con le sue briciole, Giulio si fece amico il topino. Questo sbucava col capo dalla tana e Giulio Giulio lo nutriva con le sue briciole. Gli altri alunni non avevano tane di topi nelle vicinanze dei loro banchi ed erano gelosi di Giulio.
Una volta si fece una questua in classe, per non ricordo quale fascistica manifestazione. Il ricavato fu cambiato in una banconota e questa fu rosicchiata da un topo. – Signor maestro – accusò un compagno – i soldi li ha mangiati il topo di Dente, che è suo amico. – Il topo di Dente ha mangiato i soldi – disse il maestro – e Dente deve essere punito -. E Giulio si prese le sacramentali spalmate, bacchettate sui palmi delle mani ben spalancate, senza capire l’ingiustizia della punizione.
Bisognerebbe ricordarla l’ingiustizia delle spalmate o bacchettate, che erano considerate sacrosante, ma erano terribilmente ingiuste e ancora di più stupide. Enrico Buono, in uno dei suoi racconti, evoca la bacchetta, simbolo dell’autorità magistrale, poggiata sulla cattedra alla destra del maestro. La sua e la nostra generazione consideravano sacrosante le bacchettate per la nostra educazione e non ci passava per la testa che la bacchetta fosse uno strumento malefico e diseducativo. Chissà …
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Ringrazio nuovamente RABATANA e nostro amico Antonio Martino per i bellissimi articoli pubblicati ultimamente. Un nuovo anno 2019 iniziato nella tradizione inaugurata tanti anni fa.
Con stima e affetto
D. Jankovichg
Finalmente si rivede,caro Dusko. E’ un piacere. Rinnovo il più affettuoso augurio di buon anno. Antonio
Ritorna Enrico Buono e il Maestro con la bacchetta simbolo di autorità . tempi austeri che non ritorneranno più.
grazie Antonio
Mio padre era persona molto austera e autorevole, ma non ha mai dato neppure uno schiaffetto a nessuno dei cinque figli. Tornino i tempi austeri, ma la bacchetta no
la di mamma di giulio dente,mia maestra usava…eccome la bacchetta per le tabelline.non le ho mai imparate,titina ha tentato invano di insegnarmi la matematica!!
Credo che Titina non abbia mai saputo la tabellina pitagorica a memoria e, se deve fare un conto, si aiuta con le dita. Grande rispetto per l’aritmetica, ma la matematica per lei è altra cosa: è filosofia, è divinità. Buona giornata!