La sorella di Carlo Levi Luisa, medico, si reca a far visita al fratello ad Aliano, dove si ferma quattro giorni. Prima di raggiungere Aliano si ferma un giorno a Matera per sbrigare le pratiche dei permessi. Carlo Levi racconta con felicità la visita della sorella e la sorella gli racconta razionalmente Matera. Sono stato a Matera. per la prima volta, a giugno del 1940, a pochi giorni dalla dichiarazione di guerra di Benito Mussolini alla Francia e all’Inghilterra, e dal compimento del mio decimo anno di vita. Erano passati cinque anni dalla visita di Luisa Levi.  Della mia Matera mi restano il profumo e il sapore  ineguagliabili del pane di Matera, che si vendeva in un panetteria nella piazza della Prefettura, con le pareti tappezzate di banali versi di Benito Mussolini.

 

« Vivevo, si può dire, in continue angoscie. Tanto più cara e preziosa mi riuscì perciò una breve visita di mia sorella, donna di grande intelligenza e operosa bontà, e, per di più, medico valentissimo, che mi portò dei libri, dei trattati sulla malaria, delle riviste, degli strumenti, delle medicine, e mi incoraggiò e consigliò nelle mie incertezze. Avevo saputo della sua venuta inaspettata da un telegramma, giunto appena in tempo perché mandassi l’automobile a prenderla alla fermata
dell’autobus, al bivio sul Sauro. Era, questa macchina, l’unica esistente a Gagliano, una vecchia 509 sgangherata. Apparteneva a un meccanico, un «americano» un uomo grande, grosso e biondo, con un berretto da ciclista, noto in paese per una sua gigantesca particolarità anatomica, simile a quella attribuita dalla leggenda, in Francia, al Presidente Herriot, che rendeva forse desiderabili, ma certamente pericolosi alle donne i contatti con lui.
Nonostante questo, o forse appunto per questo, gli si attribuivano molti successi nella sua lista di don Giovanni paesano: ed era difficile alle sue disgraziate amanti tener a lungo celati alla gelosia di sua moglie e alla curiosità divertita del paese i loro illeciti amori. La macchina l’aveva comprata con i suoi ultimi risparmi di NewYork, ripromettendosene grandi guadagni, perché rispondeva a una reale necessità pubblica. Ma non faceva che uno o due viaggi alla settimana, e quasi unicamente per accompagnare il podestà nelle sue corse alla prefettura di Matera, o per qualche servigio ai carabinieri o all’Ufficiale Esattoriale, e di rado andava a Stigliano per accompagnare qualche malato o per ritirare delle merci.
Un grande problema, che occupava in quel tempo l’animo dei reggitori del paese, era se non si dovesse adoperare l’automobile invece del mulo per andare ogni giorno a ritirare la posta: in questo modo si sarebbe avuto una specie di servizio regolare anche per i viaggiatori che venivano con l’autobus o che dovevano partire. Ma poiché il tempo e il lavoro in questi paesi non contano e non costano, tra il mulo e la macchina c’era una piccola differenza di spesa: e poi c’erano forse delle difficoltà dovute a parentele o a comparaggi: il problema era sempre rimandato a domani, e quando io partii non era ancora risolto. Soltanto, qualche volta, quando doveva aspettare qualcuno che arrivasse, il meccanico ritirava i sacchi della posta al passaggio, e la cerimonia della distribuzione avveniva qualche ora prima. Lo si sapeva in paese, e una piccola folla aspettava, ogni volta, il ritorno della macchina, davanti alla chiesa. Quando, dalla svolta, giungeva il suo rumore di ferraglia sconquassata, tutti le si facevano incontro, per godere lo spettacolo e sentire subito le novità.
Fu dunque in mezzo a questo pubblico ansioso che io vidi scendere dall’automobile la figura familiare di mia sorella, che non vedevo da molto tempo e che mi pareva venire da una remota lontananza. I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto ella sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben noti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine, e i giorni trascorsi a Grassano e a Gagliano, essi apparivano come la presenza improvvisa e reale di un mondo di memoria.
Quei gesti diritti allo scopo, quella facilità di movimenti appartenevano a un luogo separato da questo in cui vivevo, e in cui parevano impossibili, da un infinito intervallo. Di questa differenza fisica ed elementare non avevo fino allora potuto rendermi conto: il suo arrivo era quello di un’ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero, da questa parte dei monti.
Dopo che ci fummo abbracciati, che mi ebbe portati i saluti di mia madre, di mio padre e dei fratelli, e ci trovammo soli, fuori degli sguardi della gente, nella cucina della vedova, io cominciai a interrogarla con impazienza, e Luisa, mia sorella, mi raccontò i grandi e piccoli avvenimenti familiari e privati e pubblici occorsi durante la mia assenza, e quello che facevano i miei amici e le persone a me care, e quello che si diceva in Italia, mi parlò dei quadri e dei libri, e dei pensieri della gente.
Erano le cose che più mi stavano a cuore, a cui tornavo continuamente, ogni giorno, col sentimento, e che mi parevano vicinissime: ma ora, al sentirle presenti, mi apparivano ad un tratto appartenenti a un altro tempo, sembravano seguire un altro ritmo, obbedire ad altre leggi incomprensibili qui, e lontane più che l’India e lacinia. Capivo ad un tratto come questi due tempi fosse-ro, fra loro, incomunicabili; come queste due civiltà non potessero avere nessun rapporto se non miracoloso. Emi rendevo conto del perché i contadini guardino il fo-resterò del nord come qualcuno che viene da un al di là, come un dio straniero. Mia sorella veniva da Torino, poteva fermarsi soltanto quattro o cinque giorni. – Pur-troppo ho dovuto perdere un gran tempo in viaggio, –mi disse, – perché dovevo passare a Matera per far vistare il mio permesso di visitarti a quella questura. Perciò, invece che fare la strada più rapida, con cui sarei venuta in due giorni, per Napoli e Potenza, ho dovuto metter-cene tre, passando da Bari, e di qui a Matera. A Matera ho perso una giornata per aspettare l’autobus. Che paese, quello! Da quel poco che ho visto di Gagliano, arrivando, mi pare che non ci sia male: in tutti i modi non potrebbe essere peggio di Matera –. Era spaventata piena di orrore per quello che vi aveva visto. Io pensavo, e glielo dissi, che la vivezza della sua reazione fosse dovuta soltanto al fatto che non era mai stata da queste parti, e che proprio a Matera era avvenuto il suo primo incontro con questa natura e questa umanità desolata. –Non conoscevo questi paesi, ma in qualche modo me li immaginavo, – mi rispose. – Ma Matera, come l’ho vista, non potevo immaginarla.
– Arrivai a Matera, – mi raccontò, – verso le undici del mattino. Avevo letto nella guida che è una città pittoresca, che merita di essere visitata, che c’è un museo di arte antica e delle curiose abitazioni trogloditiche. Ma quando uscii dalla stazione, un edificio moderno e piuttosto lussuoso, e mi guardai attorno, cercai invano con gli occhi la città. La città non c’era. Ero su una specie di altopiano deserto, circondato da monticciuoli brulli, spelacchiati, di terra grigiastra seminata di pietrame. In questo deserto sorgevano, sparsi qua e là, otto o dieci grandi palazzi di marmo, come quelli che si costruiscono ora a Roma, l’architettura di Piacentini, con portali, architravi suntuosi, solenni scritte latine e colonne lucenti al sole. Alcuni di essi non erano finiti e parevano abbandonati, paradossali e mostruosi in quella natura disperata. Uno squallido quartiere di casette da impiegati, costruite in fretta e già in preda al decadimento e alla sporcizia, collegava i palazzi e chiudeva, da quel lato, l’orizzonte. Sembrava l’ambizioso progetto di una città coloniale, improvvisato a caso, e interrotto sul principio per qualche pestilenza, o piuttosto lo scenario di cattivo gusto di un teatro all’aperto per una tragedia
dannunziana. Questi enormi palazzi imperiali e novecenteschi erano la Questura, la Prefettura, le Poste, il Municipio, la Caserma dei Carabinieri, il Fascio, la Sede delle Corporazioni, l’Opera Balilla, e cosí via. Madov’era la città? Matera non si vedeva.
– Pensai di sbrigare subito le mie faccende. Andai alla
Questura, splendida di marmi di fuori, e dentro sporca e infetta, con delle stanzucce mal scopate, piene di polvere e di spazzature. Mi ricevette, per vistare il mio permesso di visitarti, il vicequestore, che è anche il capo della polizia politica. Io pensai di protestare perché ti avevano mandato in un paese malarico, e, preoccupata per la tua salute, chiesi se non fosse possibile trasferirti in una sede più salubre. Un commissario che era presente mi interruppe brusco: «La malaria? Non esiste. Sono tutte storie. Ce ne sarà un caso all’anno. Suo fratello starà benissimo dov’è». Ma quando seppe che ero medichessa, rimase zitto; e il vice-questore mi rispose in tutt’altro tono. «La malaria, – mi disse – c’è dappertutto. Potremmo trasferire suo fratello, se lo desidera, ma troverebbe le stesse condizioni che a Gagliano. Di tutti i paesi della nostra provincia, uno solo si può considerare non malarico: Stigliano, perché è a quasi mille metri sul mare: forse più tardi si potrà mandarlo lí, ma per ora, per molte ragioni, è impossibile. – (A Stigliano, ho capito, ci mandavano i fascisti dissidenti). – Suo fratello non si muova. Ci stiamo noi, qui a Matera, e non siamo dei confinati. E non creda che qua sia meglio, per la mala-ria, di lassù. Se ci possiamo star noi, ci può restare pure lui, signorina». A questo argomento non c’era davvero nulla da rispondere. Non insistetti oltre, e uscii. Volevo comprarti uno stetoscopio che avevo dimenticato diportare da Torino, e che sapevo ti occorreva per la tua pratica medica. Negozi speciali non ce n’erano, pensai di cercarlo in farmacia. Tra quei palazzi e quelle casette
economiche c’erano delle botteghe, e trovai due farmacie, le sole, mi dissero, della città. Non soltanto non tenevano, né l’una né l’altra, quello che cercavo; ma non ne avevano, i due farmacisti, nemmeno la piú pallida idea. «Stetoscopio? E cos’è?» Quando io ebbi ben spiegato che era un semplice strumento per ascoltare il cuore, fatto come un corno acustico, generalmente di legno, eccetera, mi dissero che forse una cosa simile avrei potuta trovarla a Bari, ma che lí a Matera non se n’era mai sentito parlare. Era mezzogiorno, mi feci indicare un ristorante, il migliore di tutti, mi dissero. Infatti, ad un tavolo stavano già melanconicamente seduti davanti a una tovaglia sporca, il vice-questore con altri funzionari di polizia, con l’aria annoiata e gli anelli per le salviette dei clienti abituali. Tu sai che io sono di poche pretese: ma ho dovuto alzarmi con la fame. E mi misi finalmente a cercare la città. Allontanatami ancora un poco dalla stazione, arrivai a una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall’altro costeggiava un
precipizio. In quel precipizio è Matera. Ma di lassù dov’ero io non se ne vedeva quasi nulla, per l’eccessiva ripidezza della costa, che scendeva quasi a picco. Vede-vo soltanto, affacciandomi, delle terrazze e dei sentieri, che coprivano all’occhio le case sottostanti. Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto colore grigiastro, senza segno di coltivazione, né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo scorreva un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca e
impaludata fra i sassi del greto. Il fiume e il monte ave-vano un’aria cupa e cattiva, che faceva stringere il cuore. La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca, Santa Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi: Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’inferno di Dante. E cominciai anch’io a scendere per una specie di mulattiera, di girone in girone, verso il fondo. La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se così quelle si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata; alcune sono anche belle, con qualche modesto ornato settecentesco. Queste facciate finte, per l’inclinazione della costiera, sorgono in basso a filo del monte, e in alto sporgono un poco: in quello stretto spazio tra le facciate e il declivio passano le strade, e sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelle di sotto. Le porte erano aperte per il caldo. Io guardavo passando, e vedevo l’interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Cosí vivono ventimila persone. Di bambini ce n’era un’infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l’avevo mai neppure immaginato. Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie; e le mosche gli si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili, e non le scacciavano neppure con le mani. Sí, le mosche gli passeggiavano sugli occhi, e quelli pareva non le sentissero. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era, quaggiù: ma vederlo così, nel sudiciume e nella miseria, è un’altra cosa. Altri bambini incontravo, coi visini grinzosi come dei vecchi, e scheletriti per la fame; i capelli pieni di pidocchi e di croste. Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria. Le donne, che mi vedevano guardare per le porte, m’in-vitavano a entrare: e ho visto, in quelle grotte scure e
puzzolenti, dei bambini sdraiati in terra, sotto delle coperte a brandelli, che battevano i denti dalla febbre. Altri si trascinavano a stento, ridotti pelle e ossa dalla dissenteria. Ne ho visti anche di quelli con le faccine di cera, che mi parevano malati di qualcosa di ancor peggio che la malaria, forse qualche malattia tropicale, forse il Kala Azar, la febbre nera. Le donne, magre, con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi, mi salutavano gentili e sconsolate: a me pareva, in quel sole accecante, di esser capitata in mezzo a una città colpita dalla peste. Continuavo a scendere verso il fondo del pozzo, verso la chiesa, e una gran folla di bambini mi seguiva, a pochi passi di distanza, e andava a mano a mano crescendo. Gridavano qualcosa, ma io non riuscivo a capire quello che dicessero in quel loro dialetto incomprensibile. Continuavo a scendere, e quelli mi inseguivano e non cessavano di chiamarmi. Pensai che volessero l’elemosina e mi fermai: e allora soltanto distinsi le paro-le che quelli gridavano ormai in coro: «Signorina, dammi ’u chiní! Signorina, dammi il chinino!» Distribuii quel po’ di spiccioli che avevo, perché si comprassero delle caramelle: ma non era questo che volevano, e continuavano, tristi e insistenti, a chiedere il chinino. Eravamo intanto arrivati al fondo della buca, a Santa Maria de Idris, che è una bella chiesetta barocca, e alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo ,tutta Matera. Di lí sembra quasi una città vera. Le facciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, coi buchi delle porte, come neri occhi. È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante. C’è anche un bel museo, con dei vasi greci figurati, e delle statuette e delle monete antiche, trovate nei dintorni. Mentre lo visitavo, i bambini erano ancora là fuori al sole, e aspettavano che io portassi il chinino.
Dove avrebbe alloggiato mia sorella? Lo zoppo ammazzacapre aveva ricevuto la risposta da Napoli, per il palazzo. Gli dicevano che non ci tenevano ad affittarlo, e tutt’al piú ne avrebbero dato soltanto una stanza o due, al prezzo, che ritenevano altissimo, e di cui si scusavano, di cinquanta lire al mese; che gli alloggi nell’interno erano in quel momento ricercatissimi, perché si aspettava la guerra e si temevano i bombardamenti della flotta inglese: che a Napoli tutti pensavano di scappare, ed essi stessi, i proprietari, o dei loro amici, sarebbero probabilmente venuti a rifugiarsi quassú. Ma intanto io avevo perduto tutti gli entusiasmi per quella dimora ro-mantica e diroccata, che, a rifletterci bene, mi pareva veramente inabitabile. Lo studente di Pisa, il confinato del pranzo sul muretto, mi aveva mandato a dire da un contadino che si sarebbe fatto libero, fra pochi giorni, un alloggio che egli aveva preso per sua madre e per sua sorella, le maestre, che erano venute a trovarlo, e che vivevano ritirate, senza mai uscire di casa. L’affitto per lui era troppo caro, e alla partenza delle due donne avrei potuto entrarci io. Lo zoppo e donna Caterina me lo
consigliarono: così, aspettando la nuova casa, mia sorella dovette adattarsi a spartire con me l’unica camera da letto della vedova, e a fare di lí la sua conoscenza con le cimici, le zanzare e le mosche di Lucania: ma mi disse che, dopo le grotte di Matera, quella stanza melanconica le pareva quasi una reggia. E per fortuna in quelle poche notti non venne né l’«U. E.» né alcun altro ospite. L’ar-rivo di mia sorella era stato un avvenimento: i signori del paese le fecero le migliori accoglienze: donna Caterina le confidò i suoi disturbi di fegato e le sue ricette di cucina,e le usò tutte le possibili gentilezze. Una signora del nord, cosí alla mano, e per di più una medichessa: non ne avevano mai viste. Non bisognava sfigurare con lei.Per i contadini, era una cosa diversa. Abituati alla vita americana, trovavano naturale che una donna facesse il medico: e naturalmente ne approfittarono. Ma quello che li toccava, nella sua presenza, era altro. Finora io ero stato, per loro, qualcuno piovuto dal cielo: ma mi mancava qualcosa: ero solo. L’aver scoperto che anch’io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro piú profondi sentimenti: quello della consanguineità, che, dove non c’è senso di Stato né di religione, tiene, con tanta maggiore intensità, il posto di quelli. Non è l’istituto familiare, vincolo sociale, giuridico e sentimentale; ma il senso sacro, arcano e magico di una comunanza. Il paese è tutto legato da queste complicate catene, che non sono soltanto quelle materiali delle parentele (il «fratel-cugino»è veramente come un fratello), ma quelle simboliche e acquistate dei comparaggi. Il compare di San Giovanni è quasi più di un fratello carnale: fa parte davvero, per scelta e iniziazione rituale, dello stesso gruppo consanguineo: e nell’interno di questo si è l’uno all’altro, sacri; non ci si può sposare. Questo, fraterno, è il più forte legame fra gli uomini.
Quando, verso sera, passeggiavamo per l’unica strada del paese, mia sorella ed io, tenendoci a braccetto, i contadini dalle soglie ci guardavano beati. Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: – Benedetto il ventre che vi ha portati! – ci dicevano dagli usci, al nostro passaggio. – Benedette le mammelle che vi hanno allattati! – Le vecchie sdentate sulle porte cessavano per un momento di filare la lana, per mormorarci le loro sentenze: – Una sposa è una bella cosa: ma una sorella è molto di piú! – Frate e sore, core e core –. Luisa, che aveva portata con sé la sua naturale atmosfera razionale e cittadina, non cessava di stupirsi di un così strano entusiasmo per il fatto, così semplice, che io avessi una sorella.
Ma quello che soprattutto la meravigliava e scandalizzava, era che nessuno facesse nulla per questo paese. Poiché è un temperamento costruttivo, di quelli che gli astrologhi direbbero solari, e la sua bontà attiva non ama gli indugi, passava il tempo a parlare con me di quello che si potesse fare, e mi esponeva dei progetti pratici per aiutare i contadini di Gagliano, i bambini di Matera. Ospedali, asili, lotta antimalarica, scuole, opere pubbliche, medici di Stato ed eventualmente volontari, campagna nazionale per il rinnovamento di questi paesi, e cosí via. Lei stessa avrebbe dato volentieri il suo tempo per una causa che le pareva cosí giusta. Bisognava fare, non dormire, né rimandare sempre a un nuovo domani. Aveva certamente ragione: e quello che proponeva era giusto e buono, e realizzabile: ma le cose, quaggiù, sono assai più complicate di quello che non appaiano alle chiare menti degli uomini giusti e buoni.
I quattro giorni della sua permanenza passarono presto. Quando la 509 del meccanico, che la portava, scomparve alla svolta dietro il cimitero, in una nuvola di polvere, anche quel mondo di attiva creazione, di valori e di cultura a cui ero legato e che, con lei, mi era riapparso presente, parve dileguarsi come risucchiato nel tempo, nella nuvola lontanissima del ricordo.»

(da Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli)

 

5 Responses to Matera capitale della cultura europea – Da dove eravamo partiti – La sorella di Carlo Levi racconta Matera al fratello

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Ciao, Antonio.
    Mi sembra più che mai opportuno che tu abbia voluto richiamare sul tuo blog le pagine di Cristo si è fermato a Eboli. Sono giorni in cui, nel frastuono generale e nelle passerelle spesso pittoresche, non mancano tentativi, anche surrettizi, di accreditarsi benemerenze più o meno credibili sul riscatto di Matera da parte di politici, intellettuali ed artisti. E’ bene sottolineare, perciò, (e qualcuno correttamente lo ha fatto) i meriti indiscussi di Carlo Levi. Che non solo con il suo libro denuncia, ma con la promozione di inziative di grande livello a livello politico, culturale ed artistico, attirò l’attenzione del mondo sul “caso” dei Sassi, di Matera, della Lucania e del Mezzogiorno. Basti citare, al riguardo, solo le ricerche dei sociologi italiani e stranieri, in cui furono coinvolti studiosi come Rocco Mazzarone e Gilberto Marselli.
    Un caro saluto,
    Angelo

  2. Antonio ha detto:

    Caro Angelo, Grazie sempre sella tua costante lettura di Rabatana. Quando uscì il Cristo avevo quindici anni e la fortuna di essere amico di Rocco Scotellaro, che mi fece leggere il libro. A Rocco Mazzarone (che allora non si poteva definire amico per ragioni di età) piaceva molto parlare del Cristo a noi giovani. Lo faceva con ironia, si divertiva a dire che era nipote di don Traiella e un medicaciucci. Credo che l’autista del 509, che accompagnò la sorella di Levi nel viaggio di ritorno fosse di Accettura e non di Aliano, devo averlo conosciuto e saputo della leggenda che l’assimilava al presidente francese Heriot. Morì assassinato. Un caro saluto, Antonio

  3. Rocco Albanese ha detto:

    Bellissimo, coinvolgente.
    Grazie Antonio della tua memoria storica

  4. gilbertomarselli ha detto:

    Un modo intelligente e commovente di far rivive momenti storici che, purtroppo, mancano e mancheranno sempre più ai giovani di oggi. E’ vero che questa fortuna la pagammo con i sacrifici che la guerra ed il fascismo ci fecero pagare salatamente; ma, per fortuna,ci aiutarono anche a maturare più sollecitamente. Hai fatto benissimo didarci questa preziosa chicca.

  5. Carlamicacchi ha detto:

    Stetoscopio sconosciuto a Matera e vittoria in Abissinia!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.