Michele Degrazia, che con i suoi eccezionali servizi fotografici da dilettante sta offrendo ai posteri materiali che avranno gande rilevanza storica, ha pubblicato la fotografia dell’ultimo asino di Tricarico. È una fotografia triste, l’asino è vecchio ed avvilito. Ai miei tempi c’erano più ciucci, muli e cavalli che cristiani. Guardando la fotografia di Michele mi sono tornati alla mente alcuni asini del mio tempo lontano, individualmente, proprio come potrei ricordarmi di un essere umano, che non ho più rivisto, o ricordato o di cui non ho più sentito parlare nel lungo corso della mia vita.
Innanzi tutto Piccolino, l’asinino dell’avv. De Maria.
All’avvocato, alla giovane età di 33 anni, furono amputate tutte due le gambe all’altezza del tronco. Per i suoi movimenti rifiutò decisamente la sedia a rotelle e non dava segni del suo handicap. Per i movimenti si serviva di un calessino, che si era fatto costruire basso per poter salire e sedersi più facilmente. Piccolino trainava il calessino per le passeggiate dell’avvocato sulla via Appia, o per portarlo a vedere una partita di calcio a Santa Maria o al suo casino di campagna sulla Tempa di Santa Maria. Piccolino era un asinino pazientissimo, molto piccolo, ubbidiente, dotato di buone capacità di apprendimento. Così che gli rimase appiccicato il nome di Piccolino. Quando eravamo piccoli, con Giovanni, figlio dell’avvocato, salivamo anche noi suoi amici sul calessino (io, Benito Lauria, Mario Trufelli, Mimmo Molinari …). Ce ne stavamo stipati, Piccolino non dava segni di non farcela, di essere stanco. In egual misura era paziente ed educato. Poteva resistere ore e ore, senza soddisfare i suoi bisogni, per tutto il tempo di attesa in un posto dove intuiva (come faceva?) che non doveva farli. Per esempio, se era al casino di campagna, resisteva anche un giorno intero, e dava sfogo ai suoi bisogni non appena varcava il cancello; se era in attesa in piazza, al caffè di Scardillo o di Famiglietti, aspettava di essere condotto nella stalla, dove quasi sempre lo conduceva Peppe Castagnaro, compagno carissimo della giovane età, che ho rivisto con grandissimo piacere dopo una vita, l’ultima volta che sono stato a Tricarico, circa due anni, molto invecchiato, sdentato. Ho purtroppo saputo di recente che Peppe è morto. Mi è molto dispiaciuto. Lo so che abbiamo un’età che uno per volta ci sta portando, o presto ci porterà, oltre la cancellata, ma la morte dispiace, porta dolore e maliconia.
Gli volevano tutti bene a Piccolino, lo salutavano – Ciao Piccolino -, gli accarezzano il muso. Piccolino visse più a lungo dell’avvocato, non tirava più il calesse e visse una tranquilla vecchiaia da pensionato. Anche la sua morte portò dolore e malinconia.
Da Piccolino al ciuccio Cardillo, asino stallone di Martina Franca, doveva far girare la testa ad asine e cavalle tanto era alto, bello. Era lo stallone della stazione di monta di Tricarico, allestita sulla via Appia, nel tratto prima della Serra. Un tricolore svettante sul tetto annunciava che la stazione era in attività e Cardillo era impegnato in coerenza col nome stallone di cui Giuseppe Parini ironicamente scrive nel Giorno (Il Mattino) Stallone ignobil de la razza umana.
Non era propriamente un amico il ciuccio Cardillo, né mi sono sognato di andare a vederlo in azione, lo si ricorda. Ogni tanto lo si incontrava mentre lo portavano alla stazione e non si poteva non ammirare l’imponenza e la bellezza di quell’asino, così diverso da tutti gli altri.
Non potrò dimenticare il ciuccio del maresciallo Guarino, sottoufficiale non ricordo di quale arma specializzata, che aveva accumulato un notevole patrimonio bovino, con capi sparsi in tutte le aziende della regione, secondo vecchie tipologie di contratti zootecnici.
Il maresciallo tornava a piedi da una sua campagna in compagnia dell’asino. Là dove, sulla via Appia, si diparte il viottolo della Tempa di Santa Maria, c’è un ponte. Il maresciallo, evidentemente stanco e non in grado di montare l’asino, si aiutò salendo sul muretto del ponte. Allungò la gamba destra e, avendo ancora il piede sinistro sul muretto, scavalcò il dorso dell’asino. La gamba era ancora a mezz’aria quando il maresciallo espresse la sua soddisfazione con un sonoro aaahhh…, che, nel linguaggio equino, vale comando ad avviarsi. L’asino ubbidì, il maresciallo emise un urlo disperato coincidente anche questa volta col linguaggio equino: iiihhh …, un comando di alt. L’asino ubbidì, il maresciallo cadde sulla groppa dell’asino tra i lombi e la coda, alla quale si aggrappò scivolando a terra, ma evitando una rovinosa caduta. All’asino demmo il nome del suo proprietario, lo chiamavamo maresciallo Guarino.
L’asino di Rocco Scotellaro non è emerso alla memoria come Piccolino e il ciuccio Guarino. Questo è sempre presente e lo si vede in tante fotografie o sulle copertine di libri. Come nasce questa immagine di Rocco con l’asino. La fotografia fu scattata sulla piazzetta del Vescovado nell’autunno che prececette la sua morte. Fu fermato da una ragazza, che era con altre amiche, che volle chiedergli qualcosa. Una delle amiche si infastidì e disse di smetterla, di andar via: Che stai a perdere tempo con questo ciuccio? Stavano passando in quel momento un uomo col suo asino e Armando Milite, fotografo. (Ho appuntato da qualche parte il nome del proprietario dell’asino, ma per quanto abbia cercato, non l’ho trovato; prima o poi salterà fuori). Rocco disse: Bene, Armando fammi una fotografia col ciuccio. Armando lo fotografo e stampò la fotografia, che ebbe subito una ovviamente limitata diffusione. Dopo la morte le richieste cominciarono a piovergli addosso. Diceva che aveva vendute 5.000 fotografie: approfittando della legge economica della domanda e dell’offerto fece un sacco di soldi.
Ho scritto prima che ai miei tempi c’erano più ciucci che cristiani. Non solo ciucci, naturalmente, ma anche muli e cavalli. E non solo. I nostri paesi erano popolati da una molteplicità di animali, con cui ognuno veniva a contatto e qualcuno maturava una coscienza antropologica e poetica.

So che ho trascurato Il canto del cafone, titolo di una poesia di Michele Parrella, dedicata a Ignazio Silone, che in alcune strofe traduce il vero canto nato nelle cantine, dove scolando generosi mezzi quinti di vino, si soffocava il dolore fraterno per la morte del ciuccio. Ne avevo parlato nell’articolo La requisizione dei quadrupedi e avrei avute altra cose da aggiungere. Sarebbe venuta troppo lunga e chissà che prima o poi non ci torni.

L’ultimo libro di Carlo Levi è intitolato «Le ragioni dei topi». Il libro si compone di due parti. La prima parte è un inedito, che costituiva probabilmente l’inizio di un romanzo, che uscì in sedici articoli su “La Stampa” fra il 1957 e il 1962. La seconda parte è un «Bestiario leviano», a cura di Guido Sacerdoti, un elenco in ordine alfabetico di citazioni riferite alla presenza di animali nei libri di Levi. Le nove maggiori opere di Levi sono percorse trasversalmente, come fossero un unico libro, riportando le presenze animali in citazioni più o meno lunghe, tratte dai suddetti nove libri, secondo il criterio del dizionario. Molti dei frammenti conservano una loro forza poetica autonoma, indipendentemente dal contesto, quasi fossero brevi poesie; altri posseggono al loro interno tutte le coordinate spazio-temporali necessarie per una piena individuazione; per molti ancora il contesto ultimo non è né la pagina, né il libro dal quale sono stati tratti, ma una tematica generale, che passa attraverso i vari testi.
Nonostante la scomposizione, il libro presenta una sua unità di fondo. E’ un libro che racconta storie di animali, come più esattamente recita il sottotitolo: «Le ragioni dei topi – Storie di animali». Il titolo, che nulla dice del contenuto del libro, forse è stato scelto perché, più d’ogni altro animale, il topo è simbolo di angoscia, disgusto e degrado. Ma non si può escludere che abbia concorso a suggerirlo il fatto che l’ultima voce poetica di Rocco fu rivolta alla madre e ai topi (Le ultime due poesie di Rocco, entrambe datate 13 dicembre 1953, sono I topi e Tu sola sei vera).
La fiducia nelle favole, nelle leggende, la percezione sempre più profonda e ripetuta della contiguità e identità tra mondo umano e animale – ha scritto Alfredo Giuliani a proposito dell’opera più importante e più nota di Carlo Levi – costituisce la verità poetica del Cristo si è fermato a Eboli: da principio sotto forma di metafora e di contiguità per passare ben presto al piano dell’identità e della doppia natura, il tema animalesco domina con «insistenza sempre più catturante» il racconto. «L’originarietà» del comportamento animale – prosegue la quarta di copertina -, quel legame con il mondo della natura che la razionalità umana e il progresso sembrano aver perduto, riducendo la molteplicità a unità, sono infatti al centro della riflessione e dell’opera di Carlo.
L’opera letteraria di Carlo Levi, segnata dal fascino del primitivo – ecco il significato del “Bestiario leviano” qui inteso come unità dell’opera di cui si parla -, affianca alla mitizzazione della civiltà contadina una componente simbolica che determina la conoscenza degli archetipi antropologici del mondo rurale. Lo sguardo di Levi si sofferma, così, con attenzione, sul mondo degli animali come sul mito della civiltà contadina. In Levi infatti questo legame tra uomini e animali diventa, a partire dall’esilio lucano, idea centrale mitica che accompagnerà tutta la sua riflessione. L’originalità profonda dello sguardo di Levi deriva proprio dalla sua capacità di cogliere il sentimento fortissimo di quella continuità, molto più visibile al Sud e nella cultura contadina, nella convinzione che la sua scoperta abbia qualcosa di decisivo da insegnarci.
Nell’universo dei valori etici e figurativi di Levi – osserva Guido Sacerdoti nella Postfazione – gli animali non appartengono ai gradini inferiori di una gerarchia, per la semplice ragione che questo universo non è ordinato gerarchicamente, e lo sguardo abbraccia una realtà costituita da un intreccio inestricabile di minerali, vegetali, animali ed esseri umani.
Rocco Scotellaro ironizzava sui topi. Mi è caro ricordarlo quando era in vita. Talvolta, venuto a Napoli da Portici, si fermava a dormire nella pensione che dividevo con Antonio Albanese. Era una ospitalità clandestina, di modo che la padrona non se ne accorgesse; e scomoda per me e Antonio, che gli cedevamo un nostro letto e tutt’e due dormivamo nello stesso lettino. Spenta la luce, gli scarafaggi si muovevano nel cestino alla ricerca di cibo e, smuovendo le carte, producevano rumore di croste frante. Rocco, fingendo che fosse impaurito dalla presenza di topi, cominciava a miagolare per scacciarli. Poi diceva: «Non saranno gli scarafaggi che turberanno il mio sonno. Buona notte» e si addormentava.

 

13 Responses to L’ultimo ciuccio di Tricarico

  1. Mery Carol ha detto:

    I nostri animali! Io ricordo una bellissima asina grigia che abitava (abitava,sì!) alla Saracena con la sua proprietaria, di nome Carmela e un soprannome che non ricordo. Tutte le sere io e/o uno dei miei fratelli andavamo a prendere il latte dell’asina, l’unico tollerato dalla piccola di casa.
    Mi pare un secolo fa!
    Mery Carol

  2. antonio-martino ha detto:

    Umani e animali coabitavano quasi dappertutto e costituivano una sorta di famiglia allargata.E non te lo ricordi il canto: Foss murt tatt e no lu ciuccio /U ciucc scia a lèune e tatta none / U ciucc guaragnava li quattrini / e Tatta se le li fregava nella cantina / Poh Poh Poh so fatt vecchio / e nu mal cchiu / La peddecchia arrippilata e la pistola nu spara cchiù. Michele Parrella l’ha tradotto e titolato Il canto del cafone. L’ha dedicato a Ignazio Silone. Buona giornata Mery anche da parte di Titina

    • Mery Carol ha detto:

      Ricordo, ricordo!
      Buona giornata a voi, ai figli e alle bellissime nipotine.

      • antonio-martino ha detto:

        Grazie, grazie di cuore, commosso per il saluto alle bellissime nipotine. Ricambamo io e Titina a te e alla tua discendenza.Ho espresso un giudizio sbagliato sul Canto del cafone di Michele Parrella. forse ci tornerò, ora ho inserito un paio di righi nel post.

  3. Angelo Colangelo ha detto:

    Grazie, Antonio, per questa bella rievocazione di animali della tua Tricarico, ma non solo. La tua scrittura, intrisa di memoria e dottrina, è risultata davvero affascinante. Il tuo brano è servito anche a trasportarmi idealmente in un mondo non dissimile, che ho avuto modo di conoscere nella “mitica” età dell’infanzia. E mi sono rivisto ragazzino in un “cofano” sul dorso dell’asino, accanto a mio nonno, che di tanto in tanto amava portarmi con sè in campagna. Alla fine della lettura del tuo brano mi è venuto naturale concludere, grazie alla vivezza della tua fine descrizione, che, sì, non si può non riconoscere che anche “gli asini hanno un’anima”.
    Un caro saluto,
    Angelo
    P. S. Interessante anche il richiamo dell’opera leviana “Le ragioni dei topi”, di cui ebbi modo di parlare alcuni anni fa con il compianto Guido Sacerdoti, quando, se ben ricordo, al Premio Letterario “Carlo Levi” fu presentata una tesi di laurea sull’argomento.

    • antonio-martino ha detto:

      Come ringraziarti, caro Angelo? Sono molto contento di questa rievocazione perché il ricordo di Piccolino ha commosso mia moglie, figlia dell’avvocato. Ancora grazie e cari affettuosi saluti. Antonio

  4. Michele Degrazia ha detto:

    Detto; fatto.
    Efficienza, grande memoria ed elevata capacità di raccontare.
    I tuoi racconti evocano situazioni, fatti e personaggi finiti nel dimenticatoio ma, soprattutto, sono fonte di informazione arretrata;sono il quotidiano del paese scritto e letto dopo 70 anni.
    Grazie.
    Con tanta stima, un carissimo saluto.

    • antonio-martino ha detto:

      E tu, caro Michele, con la tua macchina fotografica stai scrivendo il quotidiano che si leggerà fra cent’anni e oltre i cent’anni. Un caro saluto, Antonio

  5. Antonio Carbone (Tonino ,figlio di Giovanni e Giuditta) ha detto:

    Grazie Antonio, per questi sublimi quadri dipinti con l’eleganza e la raffinatezza di un sapere sempre più raro .Mi permetto di chiederti un ulteriore sforzo di memoria , perché solo tu puoi farlo, “dei cammei e bagattelle” legati alla nostra mitica Piazza Garibaldi .Per quelli che erano i suoi abitanti, gli esercizi commerciali, artigiani e professionali che si sono l’eterna ti nel tempo.La sua vita e vitalità. Ed a proposito del rapporto uomini abitanti ho un vivo ricordo di un suono, un ritmo, come i rintocchi dell’orologio:il suono degli zoccoli dei cavalli e degli asini che ,prima dell’alba, attraversavano la piazza per andare in compagna. Un suono , un andamento che spesso dolcemente mi svegliava ,soprattutto d’estate , quando si dormiva con finestre e balconi aperti.Ancora grazie, in attesa del prossimo numero. Tonino.

    • antonio-martino ha detto:

      Grazie, caro Tonino. Ti invito a rileggere la poesia di Rocco Scotellaro “Suonano mattutino”. Ciao, Tonino

  6. Rachele Ubaldo ha detto:

    Finalmente la spiegazione della fotografia di Rocco Scotellaro con il ciuccio! Mi incuriosiva.
    Grazie per i suoi piacevoli scritti, e mi permetta sempre un saluto affettuoso.

    • antonio-martino ha detto:

      Ma dove si è ficcato l’appunto col nome del padrone del ciuccio di Rocco? Salterà fuori e glielo comunicherò. Grazie della lettura. Ricambio l’affettuoso saluto

  7. gilbertomarselli ha detto:

    v Come è bello imbattersi nel ricordo di un animale più umano dei cosiddetti umani e tale da farci rimpiangere una certa epoca, certe situazioni e, soprattutto, chi, in vita, ne seppe cogliere il profondo signiicato che dovrà restare eterno in noi. Memento !

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