Dopo una lunga pausa sono tornato a leggere «Orazio si confessa » di Giuseppe Giannotta, uno studio sul poeta venosino, arricchito di molte foto, pubblicato in un volume edito dalla Libreria Internazionale, Potenza, 1992. Giannotta è stato un magistrato del pubblico ministero, che concluse la carriera con la qualifica di procuratore generale onorario della Corte di Cassazione, salva una parentesi come magistrato giudicante agli inizi della carriera, quale pretore di Acerenza. Di poco più grande di me e amico, sarò compreso se lo chiamerò Peppe come l’ho sempre chiamato quando era in vita.

Lo studio consiste in una non ampia scelta di Odi, Epodi e Satire oraziane, integrali o parziali, con traduzione dello stesso Giannotta. Ai testi così scelti e tradotti l’autore ha attribuito un titolo diverso da quello attribuito ai singoli componimenti nell’edizione integrale in latino e traduzione di Mario Ramous, che è stata riferimento di Giannotta, come egli dichiara nell’Introduzione. Qui non è spiegato il motivo della scelta del titolo dello studio, né il criterio che ha condotto l’autore a scegliere i brani tradotti e pubblicati. Il tono dell’Introduzione stessa, a prima lettura, appare enfatico e retorico. Ma se ho ben conosciuto Peppe Giannotta, il libretto consegnato alla stampa è il risultato dello studio di una vita di Orazio e della sua opera.

La dedica «A Quinto Orazio Flacco nel bimillenario della morte» apre il volume. Sulla copia che mi fu prestata si legge una dedica autografa «A Mimma Giannotta perché in Orazio trovi una guida – Tricarico, febbraio 1992». Non so se Mimma è la figlia o una nipote di Peppe.

Non mi spingerò a presentare il contesto del brano scelto e tradotto da Giannotta (consistente negli ultimi 8 versi della nona Ode del Libro primo) quanto basti per inquadrarlo e comprenderlo, ma scadrò in una divagazione, come il titolo di questo articolo annuncia. Tuttavia, non posso lasciar passare sotto silenzio i primi otto versi, che amo particolarmente per la loro straordinaria bellezza – ma tutta l’ode è poesia su poesia -.
Leggete lentamente l’accennato incipit dell’ode. Chi, come me, non ricorda più il latino, li legga dopo aver dato una rapida scorsa alla loro traduzione, appresso riportata prima del brano:

 Guarda la neve che imbianca tutto
il Soratte e gli alberi che gemono
al suo peso, i fiumi rappresi
nella morsa del gelo.
Sciogli questo freddo, Taliarco,
e legna, legna aggiungi al focolare;
poi senza calcolo versa vino vecchio
da un’anfora sabina. (Traduzione di Mario Ramous)

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes gelusque
flumina constinterint acuto.
dissolve frigus ligna super foco
large reponens atquae benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.

Il monte Soratte, posto a destra del Tevere a circa 50 chilometri da Roma, caratteristico per il suo isolamento e per i versanti ripidi e rocciosi, domina quella regione della valle del Tevere. Lì conosco due paesi: Civitella San Paolo e Torrita Tiberina.

A Civitella San Paolo, fuori del paese, isolato, sorge un Monastero – fondato dall’allora Abate della Basilica di San Paolo fuori le Mura Idelfonso Schuster, futuro cardinale di Milano – nel quale mia nipote Rosanna, figlia di mio fratello Michele, ha deciso di vivere la sua vita di clausura monastica col nome di suor Maria Gabriella, interrompendo gli studi di medicina quasi ultimati. Il nome Maria Gabriella ricorda il nome di mia cognata, madre di Rosanna (Annunziata, nome che Rosanna dichiarò di voler pendere nella vita consacrata). – Bel nome – disse la Madre Superiora – significa l’Angelo Gabriele recò l’annuncio a Maria: ti chiamerai Maria Gabriela). Sono suore benedettine (erano, molte cose sono cambiate) e il convento è dedicato a Santa Scolastica, sorella di San Benedetto. La regola di San Benedetto ha tra i suoi comandamenti l’obbligo dell’ospitalità, e perciò, esterna al monastero, c’è una foresteria. Per non pochi anni, fin quando le forze e la mia indolenza me l’hanno consentito, io e mia moglie Titina abbiamo partecipato due volte l’anno a incontri frequentati da oblati e da amici del Monastero. La Superiora, Madre Francesca, prima di prendere i voti, era stata Presidente nazionale della FUCI femminile, del cui ramo maschile erano stati presidenti, nell’ordine, Andreotti e Moro. Gli oblati e la oblate erano appartenuti a quel mondo, compresa la vedova Moro, signora Eleonora, che ha frequentato gli incontri per tutta la sua lunga vita. Nel monastero, sottratta al regime di clausura, c’è una bellissima biblioteca con oltre trentamila volumi. La sera, dopo cena, quando per le monache scattava il tempo del silenzio notturno, noi ospiti ci concedevamo una breve pausa per conversare. Erano conversazioni con testimoni della storia religiosa, ecclesiale e politica del mondo cattolico. Il tempo, come aveva cancellato e stava cancellando quella storia, ha man mano cancellato chi ne testimoniava la memoria. Nulla è più rimasto.

Senza alcuna particolare intenzione, lontana da me, voglio riferire un particolare che riguarda una figlia di De Gasperi, che poi prese i voti, se non ricordo male, col nome di suor Lucia. Giovanissima, partecipò a una Tre giorni di esercizi spirituali, alla quale partecipava anche una oblata più grande, che si chiamava Giovanna, che è stata partecipe costante delle riunioni del Monastero. La prima sera la figlia di De Gasperi le disse: – Giovanna, mia madre, la sera, prima di andare a dormire, mi da la benedizione. Queste sere la benedizione dammela tu -.
Nel cimitero di Torrita Tiberina è sepolto Moro. La sua tomba è posta nella parte opposta all’ingresso del cimitero, che si protende come un promontorio su un’ansa del Tevere, che scorre girando attorno al monte. Si ammirava ( e si ammira) un bel panorama – un monte e un’ansa del Tevere – dal posto dove Moro è sepolto, che andavamo a visitare tutte le volte che andavamo a Civitella. Una volta trovammo costruito, nello stretto spazio tra la tomba e il muro di contenimento, un loculario stretto e largo, una brutta fabbrica che toglieva la vista dell’ansa del Tevere. Ora è stato eretto anche la tomba della moglie, quando io e Titina già da alcuni anni non frequentavamo più le riunioni del Monastero.

Si sa che le tombe sono fatte assai più per i vivi che per i morti. Il carme foscoliano s’apre con l’affermazione dell’inutilità delle tombe per i morti, basata sulla negazione di ogni trascendenza, ma afferma l’utilità per i vivi.

A egregie cose il forte animo accendono
l’urne dei forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta

Più che l’ansa del Tevere, oramai tolta allo sguardo, il panorama che ho sempre preferito è stato il monte Soratte, che domina in quel paesaggio. Carlo Emilio Gadda diceva che certe poesie di Orazio sono più belle del modernissimo Bateau ivre di Rimbaud. (Una stupenda traduzione di Rocco Scotellaro, sia pure parziale, del Bateau ivre è pubblicata sul blog Rabatana (per comodità di chi intenda leggerla, questo è il link https://www.rabatana.it/?p=4182975).

Diceva Gadda «Come la misura dell’arco è perfetta (Gadda era ingegnere), così perfetta e impeccabile è la tecnica di Orazio. Si voglia rileggere, se non la si sa a memoria, la nona ode del libro primo: “Vides ut alta stet nive candidum / Soracte”».
Federico Nietzsche ha scritto pagine mirabili sulla “quantità” e musicalità del latino e ha detto: «Non ho mai provato finora per nessun poeta un entusiasmo paragonabile a quello che provai alla prima lettura di un’ode oraziana».

Una fantasiosa lettura di Beniamino Placido, da cui ho tratto le precedenti citazioni, («Tre divertimenti – Variazioni sul tema dei Promessi Sposi, di Pinocchio e di Orazio», Il Mulino, 1990) infine, fa del Soratte il simbolo di una “presenza lucana” che, mi piace immaginare, domina e veglia sulla tomba di Moro.

B. Placido immagina di essere stato incaricato di condurre un servizio televisivo. Il servizio si svolge a bordo di un Intercity partito da Roma Termini per le Calabrie. B.P., accompagnato da un figlio immaginario, Michele, nella finzione letteraria si reca a Potenza e a Venosa in occasione del “Grande Convegno internazionale per il bimillenario della morte di Orazio”.

Il viaggio è un divertimento, accade di tutto, e in questo spasso si dice, e si impara tutto di Orazio. A un certo punto si discute se Orazio fosse lucano o pugliese. Il punto di contesa sono i versi 34 e 35 della prima satira del libro II («Lucanus an apulus anceps / nam Venusinus arat finem sub utrumque colonus».

La discussione è costruita come uno sketch dell’indimenticabile programma televisivo Quelli della notte ideato e condotto nella primavera del 1985 da Renzo Arbore. In un clima scherzoso, Arbore condusse la trasmissione, che iniziava verso le 23, e alternava brani musicali con scherzi e sketch di comici oltre che musicisti e fantasisti. L’intento di Arbore era chiaramente satirico nei confronti di un certo tipo di televisione, prendendo di mira principalmente la moda del salotto televisivo, spesso vacuo raccoglitore di chiacchiere senza costrutto, in un maldestro assortimento dei più svariati personaggi che dicono la loro a ruota libera su qualunque argomento. Celebri sono rimaste la sigla di apertura e quella che accompagnava i titoli di coda: rispettivamente, Ma la notte no e Il materasso.

Sono tentato di riferire tutta la discussione, ma est modus in rebus (Satire, I, 1,106) frena Orazio – ‘Mba Orazio, compare Orazio come lo chiamava Lichinchi, storico professore di latino e greco al liceo Quinto Orazio Flacco di Potenza, nato a Palazzo San Gervasio, paese prossimo a Venosa e, come ‘Mba Orazio “lucanus an apulus anceps”. Pure come me, d’altronde, se è vero come sostiene Giannotta che il carattere si forma nel primo anno di vita e io a Palazzo San Gervasio ho vissuto i primi nove anni della mia vita.

Dirò ora quali personaggi del suddetto programma televisivo presero parte alla discussione e dirò come Renzo Arbore e Beniamino Placido la conclusero. A parte “il grande attore Michele Placido” che alla discussione dette l’avvio, ad essa parteciparono: Riccardo Pazzaglia, il filosofo che a notte fonda si interroga sul senso della vita, sul chi siamo e da dove veniamo tentando di confutare con caparbietà la teoria del “brodo primordiale”, Roberto D’Agostino, “lookologo”, un critico di costume ed esperto di look, e Massimo Catalano, dispensatore di “perle di saggezza” nel salotto di Arbore & co., tipo “è meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente che una donna brutta, povera e stupida”.

E’ doveroso ricordare, a questo punto, che Giannotta sostiene nell’Introduzione al suo studio, con ferma determinazione, che Orazio giovinetto apprende gli umori, le speranze, le attese, il pensiero dei lucani e, nei primi anni di vita, non può sperimentare per vie diverse da quelle che gli offre la comunità, in mezzo a cui vive. E conclude: Egli è un lucano, uno dei più autentici.

Beniamino Placido, dal canto suo, dà la “dimostrazione geometrica” della nascita e indole lucana di Orazio. Egli osserva che il momento, il punto più alto della poesia oraziana si trova naturalmente in cima ad un’alta montagna. Dove c’è la neve: «Vides ut alta stet nive candidum». Arbore ribatte che, se si va al verso successivo, si trova «Soracte». E’ il monte Soratte – precisa – che si trova vicino a Roma, mica il monte Vulture, alla cui sacra ombra il suo contraddittore è nato. B.P. risponde: «Ma poteva benissimo essere anche il «Vultur», caro ad Orazio. perché il Vulture è una montagna e la neve ce l’ha. Nella vostra Apulia la neve l’avete vista mai? «In nive lucana dormis (terza Satira del libro II, v. 234») – dice Orazio: tu dormi nella neve lucana. Avrebbe mai potuto dire: «In apula nive dormis? No. Quindi: Orazio era lucano. C.V.D.»

Andiamo ora alla conclusione del viaggio, da Battipaglia a Potenza, non sull’Intercity ma su un pullman targato FF.SS., perché da due anni la linea ferroviaria era interrotta per lavori. Tra Beniamino Placido (il padre) e il figlio immaginario si svolge il seguente dialogo.
Il figlio: Papà il Vulture! Guarda il Vulture!
Il padre: E che ci fa il Vulture fra Battipaglia e Potenza?
Il figlio: E’ tutto ammantato di neve.
Il padre: La neve a giugno, ma se non la fa più nemmeno d’inverno. Scherzi?
Il figlio: Ma no, è vero. E’ proprio il Vulture, è pure bello.
Il padre: E’ Vero, Che stranezza. «Vides ut alta stet nive candidum». Forse è vero che c’è un po’ di Vulture oraziano anche fuori della Lucania: «Me fabulosae Volture in Apulo».

 

7 Responses to Divagazioni giannottiane

  1. Mery Carol ha detto:

    Sei grande, Antonio! Il mio pomeriggio è stato pieno di paturnie; le tue divagazioni mi hanno riportato alla mente molte cose e mi hanno fatto sorridere. Grazie, amico mio!
    Mery Carol

  2. Antonio ha detto:

    Grazie a te, carissima Mery. Sapessi che carezza al cuore quell’amico mio!
    Tonino

  3. Angelo Colangelo ha detto:

    Ciao, Antonio.
    La superba immagine del Soratte imbiancato, che si staglia nel cielo azzurro fra il verde intenso dei boschi laziali, mi richiama sempre alla mente le imponenti cime dell’Appennino lucano, della cui vista godo dal privilegiato osservatorio della mia Stigliano, ogni volta che ci torno. Purtroppo, semmpre più raramente.
    Certo, l’immagine di Orazio è di una purezza cristallina, assolutamente inimitabile.
    Ho apprezzato molto anche le tue divagazioni, che mi hanno risvegliato vecchi ricordi.
    Della tua nipote suora sentii a suo tempo parlare da cari amici, cugini della moglie del compianto Michele.
    Un caro saluto,
    Angelo

  4. Antonio ha detto:

    Ciao, Angelo.
    Hai ragione: Stigliano è davvero un osservatorio panoramico privilegiato dell’Appennino lucano. Penso invece che le mie divagazioni sveglino solo ricordi di cose viste: altra cosa sono i racconti dei propri luoghi e persone. Grazie, comunque.
    Sono tantissimi gli anni che non andiamo a Collalbo, né ci andremo. Rosanna (o Maria Gabriella), della quale sono il padrino è il legame che mi è rimasto con Michele attraverso frequenti telefonate.
    Un caro saluto, Antonio

    • Antonio ha detto:

      Caro Angelo,
      Mi scuso. Ho scritto che sono alcuni anni he non vado a Collalbo (Klobenstein, delisioso sito dell’Alto Adige)invece che a Civitella. Avrei potuto semplicemente sostituire Collalbo con Civitella, ma ho preferito evidenziare l’errore e la correzione.
      Buona giornata,
      Antonio

  5. gilbertomarselli ha detto:

    Come sempre, preziosi suggerimenti da parte tua per tenere sempre vivo il nostro legame alla Basilicata……….

  6. gilbertomarselli ha detto:

    Come sempre, preziosi suggerimenti da parte tua per tenere sempre vivo il nostro legame alla Basilicata……….

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