6 marzo 2019 Mercoledì delle Ceneri
Preparazione alla Pasqua
Digiuno, retaggio quasi universale, indipendentemente da specifiche confessioni religiose
Oggi, 6 marzo 2019, per la Chiesa cattolica di rito latino è mercoledì delle ceneri, il giorno che segna l’inizio della quaresima, tempo di preparazione alla Pasqua. La quaresima proseguirà nelle successive domeniche di quaresima fino al giovedì Santo 18 aprile.
Il rito ambrosiano, osservato nella maggior parte delle chiese dell’arcidiocesi di Milano e in alcune delle diocesi vicine, fa iniziare la quaresima con la prima domenica di quaresima; l’ultimo giorno di carnevale è pertanto il sabato, 4 giorni dopo rispetto al martedì in cui termina per chi osserva il rito romano.
Oggi ha quindi inizio un severo tempo liturgico di penitenza per la preparazione alla Pasqua e spiegherò questo severo periodo liturgico riferendo largamente una riflessione del biblista ed ebraista Piero Stefani.
Una seconda riflessione, dovuta al cardinale Ravasi, verterà sul digiuno, un aspetto che fa parte di un retaggio quasi universale, indipendentemente dalle specifiche confessioni religiose.
Quanto al primo aspetto, attualmente gli spiriti devoti si chiedono come si sia in grado di vivere quaranta giorni penitenziali quando nella società circostante il carnevale continua senza soste. (Mi riferiscono che a Tricarico il tripudio di carnevale esploderà la prossima domenica, prima domenica di quaresima, fermo restand, beninteso, che la scissione della quaresima dal carnevale è un aspetto generale). Di contro, gli spiriti arguti si domandano come sia possibile vivere intensamente il carnevale senza qualche interruzione che faccia sperimentare cosa significa un tempo non gaudente.
Fino alla riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II sulla testa dei fedeli si imponevano le ceneri e l’imposizione era accompagnata dalla formula: «memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris» «ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai». Si alludeva perciò alle antiche parole della Genesi (3,19) scagliate contro il primo uomo peccatore. La cupezza del tono ha indotto la Chiesa a mutar formulazione. Oggi si dice «Convertitevi e credete al vangelo» (Marco 1,5), frase consona allo spirito quaresimale ma poco evocativa di ceneri ricavate dai rami di ulivo benedetti nella Domenica delle palme dell’anno precedente.
Le persone sanno di essere destinate a morire anche quando il loro capo non è cosparso di cenere. La sfida della fede non sta nel riconoscersi mortali. La fragilità della condizione umana è un’evidenza. Quanto contraddistingue la speranza dei credenti non è la morte che tutti vedono; è la resurrezione che nessuno ha ancora mai visto. Fu così anche al tempo di Gesù: la morte in croce avvenne davanti a testimoni, la resurrezione ebbe luogo nel silenzio della notte. Il cammino quaresimale conduce verso la Pasqua; la formula più consona all’imposizione delle ceneri sarebbe perciò: «Tornerai in polvere, ma ricordati che risorgerai». Tuttavia è difficile accogliere i paradossi, forse anche quelli della fede, entro riti che, dopo essere stati costume collettivo, hanno ormai lasciato il posto a stili di vita improntati a un carnevale privo di quaresima.
Ma davvero tutto nell’Occidente è gaudente e in esso non vi è più nulla di ascetico? All’inizio del Novecento, per indicare l’atteggiamento di matrice protestante nei confronti del lavoro, Max Weber coniò l’espressione «ascetismo secolare». Oggi l’atteggiamento non è scomparso, ma, per lo più, ha cambiato obiettivo. L’esemplificazione più evidente di una prassi ascetica attualmente sta nel prendersi cura dell’estetica del proprio corpo, vale a dire dell’immagine di se stessi che ci si propone di fornire agli altri. Non si è mai disposti a soffrire con tanta facilità quanto per diventar o mantenersi belli e attraenti o per credersi tali (si pensi ai tatuaggi). Per divenire belli si è disposti a patire anche in un’epoca in cui, di norma, si cerca di fuggire il dolore. Il modello a cui si aspira è però irraggiungibile così come un tempo lo era la santità perfetta. Quanto è praticabile è appunto l’ascesi (da askeō, mi sforzo). Nella vita spirituale la perfezione andava ricercata e i progressi riconfermati giorno dopo giorno (se non si avanza in realtà si retrocede), allo stesso modo anche la lotta per la bellezza del proprio apparire necessita di cure quotidiane (la parola “dieta” è fedele al suo etimo). Le sconfitte e i successi nella loro antitesi hanno però qualcosa in comune: ricominciare o proseguire, in ogni caso non abbandonare il campo. Se poi gli insuccessi sono troppi e la guerra è perduta a dominare l’orizzonte è l’incapacità di far pace con se stessi. Nei casi più gravi la spinta nata dal potenziamento della propria immagine porta addirittura alla distruzione di se stessi.
Così nell’inquieto ma in fin dei conti opulento e pacifico Occidente (o nell’Oriente occidentalizzato); di contro, la condizione di altre parti del pianeta attesta come tutti questi discorsi, oltre che i loro contenuti, siano, in senso proprio, superflui.
Ecco ora la seconda riflessione. Riferisce il cardinale Ravasi che un vescovo francese gli avesse raccontato questo episodio. Invitato in una scuola francese durante una serie di presentazioni delle varie religioni, aveva aperto il suo intervento con una domanda rivolta ai ragazzi: «Che cos’è la Quaresima?» (era marzo e la domenica prima era iniziato appunto questo periodo liturgico che prepara alla Pasqua). Si leva un mormorio tra gli alunni in maggioranza francesi, ma con presenze di alcune etnie. Alla fine un ragazzo si fa coraggio e spiega: «È il Ramadan dei cristiani!».
L’episodio è emblematico di un’evoluzione socio-culturale: il paradigma di riferimento, in questa Europa snervata e smemorata, diventa esterno ed estrinseco, la comparazione che decifra la realtà non è più autoctona ma allogena. Proprio per questo, il cardinale Ravasi propone una libera considerazione non tanto sulla quaresima, su questo severo tempo liturgico prepasquale di quaranta giorni, ma su un aspetto che in passato ne era una componente significativa e, come si vedrà, fa parte di un retaggio quasi universale, indipendentemente dalle specifiche confessioni religiose.
Il cardinale intendeva riferirsi al digiuno, un vocabolo di matrice latina, jejunus, «affamato», dal quale deriva anche il suo antipodo «desinare» che è appunto disjejunare (si pensi al francese déjeuner, «far colazione»), cioè «rompere il digiuno». E passiamo ora al merito del tema.
«Abbà Eulogio diceva al suo discepolo: Figlio, poco alla volta, esercitati a restringere il tuo ventre, grazie al digiuno. Infatti, come un otre disteso diventa più sottile, così ugualmente il ventre quando riceve molto cibo. Ma se ne riceve poco, si riduce ed esige sempre poco». Questa parabola dei Padri del deserto egiziano illustra in modo pittoresco la genesi ascetica del digiuno. Da questa che, come dicevamo, è una prassi universale si è ramificata una scelta religiosa che ha i suoi vertici sia nel Kippur ebraico, la grande giornata penitenziale dell’Espiazione, comprendente una totale astensione alimentare, sessuale e lavorativa, sia nel Ramadan islamico, uno dei «cinque pilastri» della fede musulmana, sia nell’interrotta tradizione cristiana.
La secolarizzazione moderna ha ridotto questo atto spirituale (prima ancora che corporale) alla dieta o, purtroppo, al dramma dell’anoressia. In realtà, tutte le grandi religioni sono fermamente convinte che digiunare è un atto di sua natura simbolico, nel senso più genuino del termine. Pensiamo solo alla lapidaria e incisiva dichiarazione del profeta Isaia: «È questo il digiuno che il Signore vuole: sciogliere le catene inique, togliere i legami dal giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, i senza tetto, vestire uno che vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne» (58,6-7).
Oppure si pensi all’ironia di Gesù nei confronti di un’astinenza meramente ritualistica che ti fa «assumere un’aria malinconica, sfigurare la faccia». Ad essa egli oppone paradossalmente «il profumarsi la testa e il lavarsi il viso» (Matteo 6, 16-17), perché il digiuno non sia farsa, ma decisione intima che esprime autodisciplina, liberazione dal consumismo, dall’egoismo, dalla logica del possesso, dalle false necessità, ma anche purificazione dello spirito, controllo di sé, dominio dei sensi. Gli stessi Padri del deserto non esitavano a dichiarare che «è meglio bere vino con umiltà che bere acqua con orgoglio».
Anche l’Islam, con la voce di uno dei suoi grandi maestri mistici, al-Ghazali (1058- 1111), ammoniva che il vero digiuno è astenersi dai peccati della lingua e degli altri membri, anzi è liberarsi da «tutto ciò che non è Dio». Persino la tradizione indù con Gandhi – che aveva dimostrato anche l’efficacia “politica” del digiuno – si muoveva in questa linea: «Il digiuno non ha senso se non educa alla sobrietà e se non è accompagnato da un costante desiderio di autodisciplina. Colui che ha soggiogato i sensi è il primo e più importante tra gli uomini. Tutte le virtù risiedono in lui».
Come corollario, si dovrebbe rispolverare quella quarta virtù «cardinale» che è la temperanza: è interessante notare che nella tradizione cristiana (ma già nell’etica stoica si registrava un’analoga scelta) questa virtù era chiamata enkráteia, cioè «dominio di sé, autocontrollo», oppure sophrosýne, «saggezza, moderazione», esercizio corretto dei pensieri e delle passioni. La perversione del corretto uso del cibo è, comunque, la connotazione più popolare della temperanza.
Il pensiero corre a quel film potente e funereo che Marco Ferreri ha girato nel 1973, La grande abbuffata, riedizione più pesante della cena di Trimalcione del Satyricon di Petronio. Quattro amici si avviano verso un cupo suicidio attraverso un’orgia di cibo e di sesso, consumata in una sorta di “ritiro” (non certo spirituale) in una vecchia villa parigina. Moriranno affogati da carni, dolci e vini uno dopo l’altro (gli attori Tognazzi, Mastroianni, Piccoli, Noiret) in un macabro rituale officiato dalla “sacerdotessa” Andréa Ferréol.
Ebbene, la temperanza alimentare è, certo, sobrietà, controllo delle pulsioni, dominio dei sensi e dignità personale, ma deve diventare soprattutto espressione positiva della carità, come ammoniva nella sua Lettera san Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi! ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?» (2,15-16). L’appello alla moderazione è, dunque, necessario, come appare dalla consegna che san Paolo rivolge al discepolo Tito: «Esorta i più giovani a essere sobri, offrendo te stesso come esempio…» (2,6-7).
Ma non si tratta che di una prima tappa interiore, come aggiunge san Pietro: «Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pietro 4,7). All’ascesi personale della sobrietà si devono associare la carità fraterna e la spiritualità. Proprio per questa sua dimensione positiva implicita, la temperanza non è masochismo, né ascetismo acido e cupo.
Essa partecipa più dell’equilibrio generale della persona, è segno di sereno distacco e di dignità interiore e comportamentale ed è per questo che nel Talmud, la grande raccolta delle tradizioni giudaiche, si legge che «la gola ha ucciso più uomini che non la fame», nella consapevolezza di essere di fronte a una degenerazione morale più che a un fenomeno fisiologico quando si viola la temperanza.
Non per nulla il cristianesimo autentico – non quello fortemente influenzato da prospettive platoniche – ignora il disprezzo del corpo e del cibo, tant’è vero che Gesù è ritratto spesso dagli evangelisti mentre è a mensa, a tal punto da essere bollato dai suoi avversari come «un mangione e un beone» (Matteo 11,19). E san Paolo non esitava a suggerire al discepolo Timoteo di non rinunciare a «un po’ di vino a causa dello stomaco e delle frequenti indisposizioni» (1 Timoteo 5,23).
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Sempre puntuale e dettagliato nella sue considerazioni, il nostro mentore ed Assistente spirituale Tonino Martino: a lui tutta la nostra gratitudine per questa essenziale funzione svolta in una società i cui tempi tendono sempre più alla superficialità, al godere fine a sé stesso ed al prevalere della materia sullo spirito. Grazie, Tonino…..
Sempre puntuale e dettagliato nella sue considerazioni, il nostro mentore ed Assistente spirituale Tonino Martino: a lui tutta la nostra gratitudine per questa essenziale funzione svolta in una società i cui tempi tendono sempre più alla superficialità, al godere fine a sé stesso ed al prevalere della materia sullo spirito. Grazie, Tonino…..
Carissimo Gil, Ti ringrazio davvero di cuore per le belle considerazioni. A presto, Antonio