Dopo le due giornate FAI di Primavera 2019
Ho visitato più volte sull’apposito sito, nelle due giornate del FAI di Primavera 2019, i cinque luoghi aperti di Tricarico. Sono luoghi che si proiettano verso il futuro e cancellano il passato che contrassegnano varie esperienze personali. I miei ricordi raccontano un romanzo di ciascuno dei luoghi. Non li riconosco più, il distacco della storia vissuta, a differenza di quella letta sui libri, accresce la pena del nostos. Le didascalie, che riassumono brevemente le storie dei luoghi, hanno suscitato qualche perplessità. Del tutto nuova mi è risultata la notizia che il Seminario (ora Caserma dei Carabinieri) nel secolo XVI fosse stato sede di un ospedale dedicato a San Giovanni. Noi non sapevamo nulla di antichi ospedali, se non, superficialmente, che ce ne fosse stato uno nel Palazzo dei Cavalieri di Malta in via Cavalieri. Certamente l’ospedale era dedicato a un santo, ma non ci occupammo di sapere qualcosa di più. E’ un nostro limite, anche se penso che non meritiamo giudizi troppo severi, perché avevamo altri interessi, imposti dalle esigenze di quel tempo.
La collocazione di un ospedale (più avanti Carmela Biscaglia spiegherà il doppio significato in cui è da intendere questa parola) nel Palazzo dei Cavalieri di Malta aveva senso, data la missione di quell’Ordine e la notizia a cui ho accennato mi ha sorpreso e l’ho accolta con scetticismo. Ho fatto numerose furiose e frettolose ricerche e non ho trovato conferma. Carmela Biscaglia, a mia richiesta, mi ha cortesemente inviato un suo saggio pubblicato nella Rassegna storica lucana: “La Confraternita di S. Maria del Lettorio e l’ospedale di San Giovanni della Croce a Tricarico”. La “Concessio pro hospitale sancti Joannis de Cruce cum instrumentum dicti hospitalis ad favorem canonicorum sub anno 1373” attesterebbe l’esistenza a Tricarico fin dal Medio Evo di uno di quegli hospitia o xenodochia al servizio di pellegrini e crociati, poi anche di ammalati documentati pure in altre zone lucane, disposti lungo la via di transito verso l’Oriente e la Terra Santa per lo più gestiti da quegli ordini cavallereschi he furono presenti pure nel nostro centro tramite le grance della SS. Trinità e di Santa Maria Maddalena”.
Ho anche letto sul sito della regione Basilicata – a prescindere da numerosi lacerti lasciati perdere – uno studio di Antonella Pellettieri, “Storia e diffusione del Sovrano Militare Ordine di Malta un Basilicata”, che l’autrice chiarisce essere solo la nota riassuntiva di una monografia in corso di pubblicazione sugli itinerari gerosolomitani della Basilicata. L’ho salvato e archiviato con il saggio di Carmela Biscaglia. Li rileggero con più calma e attenzione, prossimamente, quando sarà subentrata un po’ di quiete ora di più turbata dall’esito delle elezioni. Mi rituona nell’orecchio la voce di Emilio Colombo, che suona: Mai, mai con la Destra! Non sono stato un doroteo, ma di Colombo sono stato veramente amico e penso che lui e Nitti sono due grandi statisti che la Lucania deve vantarsi di aver donato all’Italia.
Una nota più chiara ed esplicita ho trovato in un racconto dell’avv. De Maria sul circolo dei galantuomini (già dei nobili), detto Casina. Lo so. Si tratta di un racconto, scritto per passatempo senza alcuna finalità, tutt’al più da leggere ad amici convenuti nelle lunghe sera senza Tv e l’elettricità intermittente.
L’avvocato riferisce l’opinione di Padre Celestino, monaco secolarizzato, che non aveva molta tenerezza per i galantuomini e per il loro circolo ed esprimeva il suo disprezzo con parole urticanti. – Il più pulito di tutti, diceva padre Celestino, – tiene la rogna ed il più galantuomo dei galantuomini sta al Cupolicchio. Al Cupolicchio dove si appostavano i briganti per spogliare i viandanti.
Padre Celestino, giustifica l’avvocato, era un troppo severo giudice dei galantuomini del circolo. Forse avevano influito a inasprire il suo temperamento le facili fortune di alcuni di loro che avevano costruito dei patrimoni doviziosi a spese dei beni spogliati nei tempi lontani al suo convento. Dopo di che racconta un po’ di storia dei galantuomini e, con questa, della storia d’Italia e della questione meridionale.
« Una volta galantuomo era sinonimo di signore, ma del signore dignitoso, cordiale e munifico, mentre il signore, che non avesse queste qualità, era semplicemente il “padrone”. La qualità di galantuomo imponeva rispetto e devozione e costituiva un titolo di orgoglio per chi se ne poteva qualificare. I signori un tempo coltivavano attentamente la devozione del popolino proprio per non demeritare la qualifica di galantuomo. Il galantuomo, dal principe al cavaliere, era il nucleo della vita sociale ed improntava di sé le attività di tutto il popolo, che si agitava intorno a lui. La sua clientela viveva delle sue risorse, dei suoi interessi, delle sue virtù e dei suoi difetti. Nelle sue mani era la vita economica di tutto il popolo. Tutte le terre, tutte le case erano o del principe, o del Demanio, o degli enti religiosi, o dei conventi, o dei cavalieri castellani dell’ordine ospedaliero di san Giovanni o di Malta, ovvero dei nobili, dei quali era a Tricarico un grande numero. (NOTA: L’evidenziazione in grassetto è di Rabatana).
Il popolo, fatto di artigiani e di contadini, non aveva terre, non aveva case. Le arti vivevano dei capitali dei galantuomini. I contadini si dividevano in coloni liberi e in dipendenti, e questi ultimi avevano il nome spagnolo di “criati”.
I coloni liberi toglievano dal principe o dagli enti case da abitare e terre da coltivare direttamente e pagavano al concedente un censo o livello annuo. I criati erano pastori, porcari, gualani, massari, vignaioli, mulattieri e guardiani, che prestavano le opere per i padroni ad anno o a mese, e ricevevano in compenso case per abitare, prestazioni in natura (“manicature”), quali grano olio sale calzature e vestiario, un po’ di danaro e regalie. I diritti e i doveri dei dipendenti non erano sempre ben definiti, ma variavano secondo le fortune del padrone e il grado di devozione del dipendente. I criati non erano, per vero, come si potrebbe pensare, dei mercenari asserviti e sfruttati; essi entravano quasi a far parte della famiglia del padrone, ne erano un po’ come i membri minori, e si sentivano legati e solidali con le fortune o le sfortune dei signori. Il signore più in auge aveva i criati meglio trattati. Al padrone era legato non solo il criato, ma tutta la sua famiglia; la moglie, i figli, che per lo più abitavano nelle pertinenze del palazzo o in case vicine appartenenti al padrone o di cui il padrone pagava il fitto, vivevano in intima relazione con la casa del signore, la frequentavano quotidianamente, vi prestavano i servizi di casa, di cucina, di bucato, di magazzino, di stalla e di cantina e ne ricevevano nutrimento e regali. I signori erano molto sensibili alla devozione dei loro dipendenti ed assicuravano agli stessi protezione e assistenza in ogni congiuntura. Se costoro erano ammalati, era gentile degnazione della stessa signora del palazzo assisterli; essa scendeva nel tugurio vicino e portava, con le parole di conforto, il cibo adatto e le cure più affettuose. Se invalidi, i criati ricevevano una pensione vitalizia, continuando a godere della casa per abitarvi e delle stesse prestazioni di grano sale e olio, che ricevevano prima, e, appena i figli giungevano all’età adatta, prendevano il posto del padre. I “maritaggi” delle ragazze del popolo erano per lo più doni del signore. In tal modo il signore, che amava il suoi agi e i suoi lussi, irradiava sul popolo il benessere. Queste pratiche erano così generali, che ben a ragione la parola galantuomo, attribuita ai signori, si imponeva nella opinione del popolino come una dignità morale e richiamava rispetto e devozione. Il signore dirigeva la sua azienda da vicino e le sue rendite erano spese in palazzi, in sviluppi armentizi, in miglioramenti agrari: impianti di vigneti, di oliveti, costruzione di strade campestri, di palazzi, di fontane, di stabbi, di masserie e di ville. Anche la vita collettiva era nelle mani dei galantuomini, i quali, oltre ad alimentare le industrie artigiane, sostenevano le istituzioni sociali, che un tempo erano numerose e davano un aspetto civile a questa città.
Nel 1580 a Tricarico esisteva un ospizio e un ospedale per i poveri e per gli infermi, e le spese erano fatte dai signori e dai cavalieri di Malta. (NOTA: Idem). Circa venti chiese, cinque conventi, quattro o cinque confraternite, il seminario, scuole di filosofia e di teologia, bottega di pittura, porte e bastioni della città, due “concerie de corami”, due fontane, due “fornaci de vasari”, torri, piazze, monumenti stavano a dimostrare quanto alto fosse il grado di sviluppo economico e sociale di questa città, ed il tutto grazie alle iniziative, che allora non mancavano, dei signori e del clero.
In una stampa di quell’epoca si legge di Tricarico: ” Hinc amoena fructiferorum montium juga urbi imminent; illinc laetissimi campi per spaciosam planitiem porriguntur. Tam montuosa quam plana fontibus passim scatent, ac multis rivulis irrigantur. Tellus optimum frumentum ac vinum laudatissimum, frugesque omnis generis, quidquid denique ad vitae tam voluptatem quam necessitatem spectat, copiose producit……Nec religiosi modo ed Catholicae fidei servantissimi sunt incolae, sed insigni etiam morum urbanitate praediti, Nobiles presertim, quorum hic est magnus numerus”. E in una veduta della città, com’era a quell’epoca, una leggenda ci indica, là dove oggi non troviamo che mucchi di tuguri cadenti e casupole affumicate e mura sbrindellate, tutta una fioritura di opere e di monumenti, che rivelavano per davvero una “insigne civiltà di costumi”, che oggi non è più: Seggio della nobiltà, hospitale; porta le Monte, porta la Fontana, porta la Rabata, porta la Saracena, porta Vecchia, porta le Beccarie; castello del principe, torre principale, viscovado; palaggi del cavalier Castellano et altri castellani; palaggi de Corsuti, de Veronica, de Ronca, de Monaco, de Ferro, del barone Campolongo, de Cetani, de Zotta, de Abate, de Imperatrice, de Ipolito, de Russo, de Marchese, de Capaccia, ecc; palaggi del spetiale Maiorino, del pittore Ferro, del philosopho Campilongo, del philosopho Durante del philosopho Amati, del cantante Froggione, ecc. Di tutto questo restano soltanto i vestigi guastati dall’abbandono e dalla povertà. Nel cuore del popolo è ancora vivo il ricordo nostalgico di un mondo che è cambiato in peggio, di una vita una volta felice, di una fiorente economia distrutta.
Quali le cause di queste rovine? Il popolino, con il suo acuto senso di osservazione e di giudizio, ha fermato una data: 1860, “quando i piemontesi e i bersaglieri ci vennero a fare la guerra”. Ahimè! questa data, che segna nella storia nostra la più bella conquista ideale, la unità di una patria comune, di una religione, di una lingua, di una tradizione comune, purtroppo è anche la data che segna le maggiori sventure toccate a un popolo una volta economicamente felice. È un’amarezza, che il nostro popolo sente vivamente, e per essa patisce un po’ anche il nostro sentimento di devozione all’ideale di una patria comune. È una crudele verità questa, che dovrebbe far meditare i nostri fratelli del nord. La sostituzione dei rigidi sistemi fiscali del Piemonte a quelli borbonici più flessibili e temperati hanno pesato sulla economia rurale del meridione, deprimendola. Il sistema economico settentrionale, eminentemente industriale e commerciale, doveva necessariamente comprimere e soffocare la economia meridionale, quali esclusivamente rurale, domestica e artigiana. Il signore non ebbe mai il coraggio di affrontare la situazione creatasi con il contatto fra i due differenti sistemi fiscali ed economici; non ha saputo trasformarsi da signore a mercante, non ha saputo prendere l’iniziativa di industrializzare la sua azienda, di meccanizzare l’artigianato; ha continuato ancora per un po’ nel vecchio metodo patriarcale, fino a quando le industrie del nord gli hanno portato via a vil prezzo le lane e gli altri prodotti, per ritornarvi manufatti e trasformati, ed ha visto sfuggirgli a poco a poco il suo prestigio di signore, di padrone. Allora il signore si è inurbato: ha abbandonato il suo palazzo al vuoto e alla muffa, ha affidato la sua terra al contadino, senza sostenerlo, aiutarlo, guidarlo, ed il contadino ha dovuto far da solo senza mezzi e senza consiglio. Il signore incaricava della sorveglianza e dell’esazione delle rendite l’esoso guardiano; e spendeva le sue rendite lontano dal paese, senza che ne potessero in alcun modo beneficiare e la terra e i criati, che gliele avevano prodotte. Il signore continuò a godere i suoi agi, ma essi non consistevano più nella bellezza dei suoi palazzi, nella prosperità delle sue terre, nel numero dei suoi armenti e dei suoi criati; ora consistevano soltanto nel lusso del suo quartino di città, del salotto abbellito di damaschi e di specchi, delle carrozze che lo portavano al teatro o ai ricevimenti. Il contadino o il criato non aveva più relazione col signore, ma solo con il guardiano; aveva perduto i benefici della sua vita ai margini del palazzo. Fra padrone e criato rimaneva ora nulla più che il freddo rapporto di lavoro e l’interesse dell’uno contrapposto a quello dell’altro, che portava a diffidenza reciproca, a contrasti, a malvolere, a odio. Il contadino, lasciato a sé stesso con il solo sussidio delle sue braccia, stremava i suoi sforzi sulla terra. La terra respingeva il contadino che la svenava a colpi di zappa, e reagiva con il dispetto della sterilità, perché si sentiva offesa per la bellezza, che non gli si dava più, dei suoi vigneti, dei suoi ulivi, delle sue sorgive, delle sue strade, delle sue ville. Il cafone zappatore, sfiduciato, rinnegando la terra insterilita, finiva per abbandonarla e partiva lontano verso una speranza di vita e di ricchezza: l’America. Allo stesso modo l’ingegno e l’arte non trovavano più nel paese nativo il modo di vivere e di svilupparsi ed emigravano anch’essi verso il nord o all’estero, al servizio e a decoro di una terra che non li aveva partoriti e nutriti, di una gente che non li aveva allevati. Dei signori disertori tornarono poi al paese di origine i nepoti falliti per raccogliere e vivacchiare delle superstiti terre impoverite. Riaprivano il lato meno cadente dell’antico palazzo e vi stipavano gli avanzi tarlati dei vecchi armadi di noce e dei cassettoni listati di oro zecchino. Gli eredi dell’antico signore riportavano con sé dell’antica grandezza e dignità solo l’orgoglio, la pretesa di un rispetto e di una devozione, che non meritavano più, il bieco rammarico della decadenza e dell’avvilimento, l’apatia torbida degli sconfitti, che si avvelenavano di rancore e di odio contro quel mondo che essi non avevano saputo conservarsi. E così il galantuomo divenne semplicemente il renditiero gretto e spilorcio, che viveva della miseria del popolo. E la parola galantuomo perdette il suo antico significato di dignità, di munificenza, di generosità, e acquistò nella opinione del popolo un significato spregiativo e odioso. “Stare a fare il galantuomo” oggi per il popolino vale a dire “non far niente, vivere alle spalle degli altri”. Galantuomo spesso fa pariglia con “palazzuolo”, che è detto di chi, come il galantuomo, abita in palazzo. Le due parole sono usate ugualmente come sinonimi di fannullone, di ozioso e simili. – Non ho terra da lavorare – ironizza il disoccupato – e mi tocca fare il palazzuolo. Il popolino, che ha conosciuto, un tempo, il circolo quale “casina dei galantuomini”, nel senso buono della parola, quando la parola aveva solo quel senso buono, oggi continua a chiamarlo alla stesso modo, ma con il senso spregevole, che alla parola galantuomo viene oggi comunemente attribuito. [ ….. ] »
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Sempre puntuale e preziosamente documentato; te ne dobbiamo essere grati tutti, caro Tonino. Un abbraccio GIL
Sei ogni volta più sorprendente e non ti nascondo che ti invidio per questa tua tenace abilità nel documentarti anche per aiutare tutti noi a comprendere meglio il passato. Le persone da te citate (Carmela Biscaglia, Emilio Colombo e l’Avv. De Maria)furono incontrate ed apprezzate anche da me così da poterne apprezzare il loro valore. Ma la punta assoluta di questa ‘montagna’ (che rappresenta la saggezza vissuta) è costituita da tale Antonio Martino detto Tonino, che mi è molto caro ed abbraccio affettuosamente. GILBERTO
Che Tonino ti sia molto caro e il tuo abbraccio sia affettuosissimo sono cose indubbie, di cui ti sono infinitamente grato, ricambiandole. Ma ugualmente indubbia e la tua ironia, profusa nella nota a cui sto rispondendo. Ti abbraccio, Tonino
Per favore, Tonino, non essere “malopensante”: nel mio commento non vi era nemmeno la più pallida ombra di una tenue ironia. Solo mia ammirazione per la tua preziosa opera di osservatore storico della nostra realtà. Semmai -e questa è vera- vi era una grande mole di invidia costruttiva: la mia incapacità a fare una sia pur minima parte di ciò che ci doni generosamente. NON si può ironici con te, ma solo ammiratori sinceri. Ti abbraccio GIL
Carissimo Gilberto, L’ironia ha tantissimi significati, derivati dall’originaria ironia socratica. Significa anche dissimulazione del proprio pensiero con parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con tono tuttavia che lasciano intendere il vero sentimento. Io non sono stato malpensante, ma, eziandio, ironico, per dirti che i tuoi complimenti mi imbarazzano.
Un abbraccio, Tonino