Giungemmo a Tricarico il pomeriggio del 2 aprile 1941 portati dalla Balilla di Barbarito, insaccati come sardine in scatola: mamma incinta, con Franchino di quasi due anni in braccio e Anna nella pancia, papà, Maria, io e Michele. Mancavano due mesi al compimento dei miei undici anni e questo era il secondo trasferimento. Da Palazzo San Gervasio ad Accettura e ora da Accettura a Tricarico. Cambiare paese è una bella scossa nella vita. Il nuovo paese è straniero e sconosciuto, per adattarti devi sopportare la cattiveria dei ragazzi della tua età, dei tuoi compagni di scuola, i loro sfottò, devi imparare una serie di regole e come farti accettare.

Non erano ancora passati due anni da quando avevo vissuta l’esperienza del primo trasferimento. I ragazzi, che nelle prime settimane di Accettura mi avevano dato il tormento, divennero poi compagni carissimi. Amavo il nuovo paese e la nostalgia di Palazzo San Gervasio e dei compagni di Palazzo che avevo persi si era placata, ma non spenta nel mio cuore.
Giunsi a Tricarico col cuore gonfio di due amori e il tremore di una nuova esperienza inimmaginabile. Sapevo inoltre che, all’inizio del nuovo anno scolastico, sarei andato a Napoli, ospite di una mia zia, sorella di papà, per frequentare la prima media. Immaginavo che quest’altra esperienza – nostalgia di casa e del paese – sarebbe diventata una malinconia irresistibile, che avrebbe influenzate tutte le mie giornate.
A giugno dell’anno prima, quando Mussolini dichiarò guerra alla Francia e all’Inghilterra, avevo superato l’esame d’ammissione, saltando la quinta elementare, ma i miei non mi avevano mandato da una qualche parte a frequentare la scuola media (non ci eravamo abituati alla riforma Bottai che l’aveva istituita e dicevamo ginnasio), facendomi perdere l’anno che avevo … saltato. Non ho mai capito perché. Una volta sentii dire a papà: aspettiamo che finisca la guerra. Ma la guerra non finiva e si prese la decisione di mandarmi da mia zia a Napoli. Io avrei preferito andare in un convitto. Meglio o peggio che fossi stato trattato da mia zia rispetto ai suoi figli (e in effetti da lei ebbi privilegi sfacciati), avrei sofferto l’inevitabile condizione di estraneità che l’una o l’altra situazione avrebbe determinata. In convitto saremmo stati tutti uguali. Ai miei era stato proposto di mandarmi in seminario: essi non erano convinti e io fui contento della loro decisione, anzi avevo decisamente dichiarata la mia contrarietà, perché trovavo intollerabile il solo pensiero non tanto di diventare prete (anche se la vocazione non l’ho mai avuta), quanto piuttosto di indossare la zimarra a undici anni.
A Tricarico fummo ricevuti dalla famiglia Carbone, più numerosa della mia. Eravamo in troppi. Avevo bisogno di chiudermi in un silenzio assoluto con i miei tristi pensieri. Cerimonie, complimenti e chiacchiere accrescevano la mia confusione.
Mio fratello Michele, che aveva compiuto da un paio di mesi nove anni, dal carattere estroverso opposto al mio, mise subito le cose in chiaro. Ai figli dei nostri ospiti, serrando le mascelle, mostrò il pugno: Uagliù, qua caminan i s’kuzzun. Pure qua, risposero quelli.
La casa dove avremmo abitato era vicina, a pochi passi. Quando finalmente ci andammo era già sera e, per l’oscuramento, non si vedeva niente.
La prima notte non dormii. Il continuo scorrere dell’acqua dalla fontana che c’era sotto i ferri della piazza e i rintocchi, ogni quarto d’ora, dell’orologio di San Francesco e i miei nostalgici pensieri, sempre più tristi, mi tennero sveglio. Io non ho mai avuto un buon rapporto col sonno. Dormivo in un letto a una piazza e mezzo con Michele. Michele si addormentava nel mentre ancora stava ancora abbassando la testa per poggiarla sul cuscino, io non prendevo sonno, mi dimenavo e ridimenavo, vedevo Michele dormire profondamente, che neppure dava a vedere che respirasse, invidiavo il suo riposo e mi innervosivo, avrei voluto prenderlo a pugni. A s’kuzzun, come diceva lui .
L’indomani, andai a comperare i giornali a mio padre. Era il 3 aprile 1941. Vidi la nostra casa affacciata su una piazza spaziosa (non avevo mai visto una piazza così spaziosa e piana), che dominava un vasto panorama fino alla collina di Montepeloso. La casa e la piazza mi piacquero. Ma non era di quello che avevo bisogno.
– Il giornalaio è lì di fronte – mi disse papà – vedi se ci sono «La Gazzetta del Mezzogiorno» e «Il Giornale d’Italia» e prendili tutt’e due. C’era una vetrina e la porta a vetri era aperta. Il giornalaio mi parve avesse l’età di mio padre, quarant’anni (un’età canonica, secondo il mio canone di valutazione di circa ottant’anni fa), alto, ossuto, i tratti del viso marcati, in maniche di camicia e gilè. Entrando, dissi – Buon giorno -; il giornalaio non rispose. Chiesi i due giornali, il giornalaio con un gesto della mano mi indicò la distesa di giornali e riviste su un lungo tavolo e disse: – Prendili. (Non avevo mai visto tanti giornali ad Accettura, da dove venivamo. Lì c’era un giornalaio senza negozio; aveva i suoi clienti, riceveva per posta i giornali giusti e li recapitava a domicilio).
Pagai, dissi grazie e buongiorno e portai i giornali a mio padre, che era andato al suo ufficio nel corso; io non c’ero ancora stato, papà mi aveva spiegato dov’era e lo raggiunsi senza difficoltà.
Non avevo fatto caso che il giornalaio non avesse risposto ai miei saluti e al mio grazie – allora i grandi non davano confidenza ai bambini. Ma rimasi deluso che non si fosse informato, in fondo doveva aver capito che appartenevo a una nuova famiglia appena giunta a Tricarico, forse dalla vetrata dell’ingresso del negozio ci aveva visti scendere dalla breve scalinata di casa, proprio di fronte al negozio, papà e io,. Lì prima c’era stato un albergo.
La fontana sotto i ferri della piazza che non c’è più, il vecchio orologio di San Francesco finito chissà dove, e sostituito da un anonimo e freddo orologio moderno, azionato da un silenzioso congegno elettronico, e quel negozio del giornalaio sono tre punti dolorosi della mia nostalgia per Tricarico. Titina si oppone decisamente anche a una breve visita: la capisco, abbiamo perso tutto, case, amici e semplici conoscenti, e tutto è cambiato, e ha paura di profanare il passato; la capisco e rispetto il suo sentimento. Mi dice: Se vuoi vai, ti accompagna Rosalba. Ma senza di lei io non torno.
A settembre partii per Napoli, in anticipo sull’apertura delle scuole. A Napoli giungemmo di sera. Il tempo di una rapida cena e a letto. Non erano le nove. Nel letto mi abbandonai a un pianto silenzioso, interrotto dall’urlo delle sirene che squarciava l’aria. Il primo bombardamento. Era appena passata la mezzanotte.

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Colgo l’occasione per augurare Buona Pasqua nella luce della Risurrezione

 

6 Responses to Tricarico: toccata e fuga

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Caro Antonio,
    ho letto con interesse il dettagliato racconto del tuo trasferimento a Tricarico, che sarebbe diventato il tuo paese d’adozione.
    Toglimi una curiosità: la famiglia Carbone, che vi accolse, ha a che fare con la famiglia del direttore del dazio di Stigliano negli anni Cinquanta? Io ricordo ancora bene i suoi figli Vittorio e Alfredo (ottimi giocatori della squadra di calcio del mio paese) e, soprattutto, Enzo,la cui moglie apparteneva a una famiglia molto amica della mia.
    Ti saluto e ricambio di cuore gli auguri di una santa Pasqua,
    Angelo

    • Antonio ha detto:

      Precisamente! Hai dimenticato tre figli: il secondo, dopo Enzo, Rocco; la terza, Linda e l’ultimo, Aldo. Linda era Una bella ragazza. Il suo nome era Ermelinda: a Tricarico si chiamava Lina e a Stigliano, con un pizzico di ragione, si fece chiamare Linda. Enzo a Tricarico si chiamava Cenzino. Anche lui era un bravo calciatore, le sue rovesciate erano di gran classe.Io sono stato un portiere kamikaze. Lui e la moglie sono venuti alcune volte a Ferrara. Li ho visti l’ultima volta quando morì mia madre nel 1994; poi non ho saputo più nulla.
      Rinnovo gli auguri du Buona Pasqua, Antonio

  2. rocco albanese ha detto:

    Ciao Antonio,
    Ammalianti le tue rimembranze!
    Sono altamente interessanti e davvero fotografano la vita
    di quei tempi, quello che a me piace tantissimo.
    Auguri di buona Pasqua a tutti voi!
    Rocco Albanese

  3. Michele Marotta ha detto:

    Caro Antonio, permettimi di rivolgermi a te in questo modo, pur non conoscendoci.Da quando (pur sporadicamente) seguo questo tuo blog(tempo fa per la tua riflessione sul Fons Bandusiae, e recentemente per preparare una lezione su Scotellaro che devo tenere alla Unitre di Genzano di Lucania)mi sembra di conoscerti da sempre.Vorrei però conoscerti meglio, perché condivido le tue stesse visioni e il tuo grande amore per la Lucania.Sono un ex dirigente scolastico del Liceo Scientifico di Genzano di Lucania dove vivo, ma sono sono nato nella oraziana Banzi. Ho 67 anni.E tu? Ti saluto cordialmente.

    • Antonio ha detto:

      Caro Michele,
      Ho piacere di conoscerti. Io di anni ne ho molti più di te: il 18 giugno (il 20 per l’anagrafe, a causa di una tardiva denuncia della nascita) compirò 89 anni; sono nato a Palazzo San Gervasio nel 1930; a Palazzo sono vissuto 9 anni, poi 2 anni ad Accettura; poi ci trasferimmo a Tricarico l’anno in cui iniziai gli studi post-elermentari, frequenati a Napoli, Potenza ed Amalfi; quindi l’Università a Napoli (laurea in giurisprudenza) e infine lavoro. Visitai Palazzo l’ultima volta nel 1961, negli anni precedenti, anche dopo il trasferimento da Palazzo, sono stato alcune volte a Banzi e a Genzano. Quando ero bambino credevo che Orazio fosse un grande amico di mio padre. Sul mio blog puoi leggere, se vuoi, “Omaggio a Giuseppe Giannotta. Orazio si confessa”. Ho fatto alcune cose, quelle più durature sono state di funzionario statale e regionale tra Modena, Ferrara (dove vivo) e Bologna. Conclusi come capo dell’ufficio legislativo della regione Emilia-Romagna. Da pensionato ho avuto diversi incarichi, che mi hanno tenuto impegnato fino a una dozzina di anni fa. Ora passo il tempo leggendo e scrivendo. Ricordo con amore e nostalgia Palazzo, Accettura e Tricarico. Ricambio cordialmente i tuoi graditi saluti.

      • Michele Marotta ha detto:

        Caro antonio, sono veramente felice di aver ricevuto informazioni su di te. Pensavo che tu abitassi a Tricarico e invece scopro che, pur lontano dalla regione, hai realizzato e continui a tenere vivo questo straordinario blog.Ho anche conosciuto personalmente Giannotta, che mi fece dono di alcuni suoi libri di poesie e che incontrai nella sua casa di Potenza.Fin dalla mia adolescenza sono stato un amante ed un cultore della storia locale. I miei tre figli gemelli(2 femmine ed un maschio: hanno 30 anni e vivono a Milano)sono nati nell’ospedale di Tricarico.Continuerò, con immenso piacere, a seguire questo tuo blog e lo farò conoscere a tutti coloro che condividono con noi l’amore per i paesi della nostra Lucania.Tanti cari saluti.

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