L’intervento Enrico Malato, studioso della «Commedia», ragiona sulla proposta del «Corriere» di dedicare una data al poeta

Noi, moderni come Dante

Ci ha insegnato a costruire il presente. Sì alla giornata mondiale in suo onore
di Enrico Malato

Dante Alighieri

Il settecentenario della morte di Dante, che cade il 14 settembre 2021, non è un centenario come altri, ricorrenti ogni cento anni dalla nascita o dalla morte di personaggi più o meno insigni che abbiano lasciato durevole memoria di sé: e non solo per la statura del poeta, incomparabile a qualsiasi altra (come scrisse Ernst R. Curtius, «la personalità di Dante sovrasta con la sua statura i secoli»), ma per il rilievo nodale, di «svolta epocale», che la figura e l’opera sua mantengono nella tradizione letteraria dell’Occidente.
La Divina Commedia è infatti non soltanto una delle più alte opere di poesia che siano mai state prodotte, ma la prima grande opera letteraria scritta in una lingua europea moderna. Mentre il Medioevo in Europa volge al termine e si vanno costituendo le varie identità nazionali, fondate su nuovi elementi connotativi linguistici e culturali, Dante abbandona il latino, da sempre lingua della scrittura «alta» per tutti, e adotta l’italiano: una lingua che alla fine del Duecento ancora quasi non esiste come lingua letteraria, è un idioma volgare dell’uso parlato, povero nel lessico, privo di codificate regole grammaticali e sintattiche, e ne fa lo strumento linguistico cui affida la più grande opera di letteratura che sia mai stata pensata. Nel momento in cui il Medioevo sta per esaurirsi nell’Età moderna che faticosamente si va schiudendo (ma Dante non lo sa, e non può saperlo), il Poeta riesce a condensare nella sua opera una sintesi straordinaria della realtà storica e della cultura medievale: quella che nell’arco di quasi un millennio ha assimilato e adattato la cultura classica, greca e romana, trasformandola — con l’apporto delle nuove culture affacciatesi in Europa nel corso dei secoli — nella «forma» della nuova cultura moderna dell’Occidente. Al di là del suo statuto di mirabile opera di poesia, la Commedia risulta così un eccezionale documento storico e un fondamentale elemento di collegamento del Medioevo con la Modernità, che in quello trova le sue inderogabili radici.
Celebrare Dante nella ricorrenza settecentenaria della morte, mentre perdura tenace e sempre più coinvolgente la sua fama e la sua popolarità presso un pubblico internazionale in continua espansione, vuol dire riaffermare con forza quel collegamento storico, come valore profondamente sentito dagli uomini del XXI secolo e premessa comunque irrinunciabile della costruzione di un «nuovo» che sia (e voglia essere) non disancorato dalle radici del presente.
Di qui la somma delle iniziative che si vanno preparando nel mondo per dare degno rilievo all’evento. Nell’impossibilità di una rassegna completa, basterà accennare ad alcune che appaiono più significative perché mirate a risultati durevoli. Al di là di pubblicazioni, convegni scientifici, conferenze, mostre, spettacoli spesso importanti in preparazione (o in corso di attuazione) nei maggiori centri danteschi, Ravenna, Verona, Bologna, Firenze, Pisa e altrove, sembrano notevoli imprese proiettate sul progresso della conoscenza della personalità e dell’opera del poeta. Tra queste, l’iniziativa del Centro Pio Rajna definita «Censimento» e «Edizione (nazionale) dei Commenti danteschi», recupero dei testi del «secolare commento» alla Divina Commedia, che ad oggi esibisce 52 tomi pubblicati di «Commenti letterari» e «figurati». Con questa, l’altra iniziativa dello stesso Centro, in stretta sinergia con la Casa di Dante in Roma, della «Nuova Edizione commentata delle opere di Dante (Necod)», che offre una nuova edizione riveduta nei testi e con ampio commento di tutte le Opere dantesche, molto avanzata: entro l’anno saranno disponibili 9 tomi dei 15 previsti ed entro il 2020-’21 usciranno il penultimo volume (Convivio, I tomo) e il tomo I dell’ultimo (La Divina Commedia, prevista in 5 tomi: ma ne sono già state anticipate parti importanti: il nuovo testo con la relativa giustificazione, un commento essenziale e un Dizionario della «Divina Commedia»). Oltre a 6 tomi di Cento canti per cento anni, con le migliori Lecturae Dantis tenute nella sede della Casa di Dante in Roma (tutti, Roma, Salerno Editrice).
Ma la proposta più suggestiva e foriera forse di risultati anche mediatici più interessanti è quella avanzata di recente da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera»: istituire un Dantedì (o magari un Dante-dì), cioè fissare una giornata dedicata per legge alla celebrazione del nostro maggior poeta, che non è poi soltanto nostro («Dante è il poeta più universale che abbia scritto in una lingua moderna», scrisse Thomas Stearns Eliot nel 1929). Esiste dal 2006 uno ShakespeareDay, celebrato ogni anno in tutto il Regno Unito e nel mondo il 23 aprile, presunta data di nascita (nel 1564) del poeta di Hamlet e di Romeo and Juliet; e prima di questo, un Bloomsday, che dal 1950 si celebra ogni anno a Dublino e altrove il 16 giugno, giorno natale (nel 1904) dello scrittore irlandese James Joyce, commemorativo del suo capolavoro, Ulysses, attraverso la figura del protagonista, Leopold Bloom. Sembra dunque legittimo proporre un Dante-dì, una «giornata per Dante», da celebrare non soltanto in Italia e che non si esaurisca in atti di omaggio più o meno formali, ma sia realmente occasione, in un orizzonte ampio di partecipazione popolare, per riletture e approfondimenti dell’opera dantesca e la sua messa a fuoco nel contesto della cultura contemporanea. Si può immaginare che in tutte le scuole, di ogni ordine e grado, le università, le accademie, i centri di ricerca aperti alla cultura italiana, si dedichi una giornata a parlare di Dante, definirne l’identità storica e culturale, recuperarne il ruolo di «padre della lingua italiana» e di primo assertore di una identità nazionale italiana intuita e affermata in un tempo in cui ancora il concetto stesso di nazione non era definito. La data non pare difficile da stabilire: non quella di nascita, ignota; non quella di morte, che a metà settembre interferirebbe con l’inizio degli anni scolastici e di studio. Ragionevole sarebbe collegarla al viaggio oltremondano narrato nella Commedia: il 14 aprile, che nella rigorosa ricostruzione di Edward Moore segna il compimento, nel 1300, della peregrinazione dantesca con la folgorante visione di Dio.
Ma perché non manchi anche un atto d’omaggio di alto valore simbolico a segnare questo Settecentenario, il sottoscritto ha lanciato una proposta, aggiuntiva a quelle appena viste, che può dare un tono di particolare solennità all’evento: l’incoronazione poetica in memoriam. La corona di alloro era stata in Grecia e poi a Roma il premio onorifico conferito per straordinari successi sportivi o militari, o in severe prove musicali o poetiche. Nel Medioevo, mentre la metaforica laurea divenne il titolo che sanciva il compimento degli studi universitari, l’usanza venne ripresa nel 1315, quando a Padova fu concessa la corona di alloro per meriti poetici ad Albertino Mussato, fra l’altro per una tragedia latina, Ecerinis, in cui narrava i misfatti di Ecerino (Ezzelino) da Romano. Dante certo ne ebbe notizia e concepì l’ambizione di avere analogo riconoscimento, che gli fu negato; ma vent’anni dopo la sua morte venne concesso a Petrarca, solennemente incoronato in Campidoglio nell’aprile del 1341. È stato possibile ricostruire analiticamente tutto il processo formativo di questo disegno, di cui affiorano tracce già nella Vita nuova, in ripetute allusioni nella Commedia, dove Dante delinea il proprio profilo di poeta, prima invocando l’aiuto delle Muse, quindi anche di Apollo, metafora della grazia di Dio, perché lo sostengano nella scrittura del poema: che sia il «sacrato poema», il «poema sacro» che egli ha concepito, tale, chiederà ad Apollo, all’inizio del canto I del Paradiso, «come dimandi a dar l’amato alloro», di tale altezza quale si richiedeva per la concessione della laurea poetica. Intanto, nell’incontro con i grandi poeti classici, nel limbo (canto IV dell’Inferno), si era fatto riconoscere «sesto fra cotanto senno», pari a quelli nel merito poetico.
Ma l’aspirazione di Dante, esplicitata nel commovente esordio del canto XXV del Paradiso, riaffiorante ancora nelle tarde Ecloghe, non ebbe séguito tra i contemporanei. Gli concederanno il lauro poetico i pittori e i miniatori che ne rappresenteranno il volto a partire dalla metà del Quattrocento, diventato poi un connotato costante nell’iconografia successiva. Ma sarebbe un degno omaggio, nel Settecentenario della morte, concedergli in memoriam quel riconoscimento che, com’egli scrisse, «la crudeltà» dei contemporanei aveva reso per lui impossibile: per altro anticipato dal miniatore di uno dei più antichi e preziosi codici miniati della Commedia conservati, il Trivulziano 1080, datato 1337, in cui il miniatore, in margine alla pagina incipitaria del Paradiso, sotto l’invocazione ad Apollo raffigura Beatrice nell’atto di porgere al poeta una corona di alloro che egli guarda ma non riesce a cingere (su tutta la questione si veda L’«amato alloro» di Dante, in «Rivista di studi danteschi», volume XIX.1, giugno 2019, pp. 3-20, con tavole fuor testo). Si salderebbe così un debito rimasto troppo a lungo insoluto e ormai non più rinviabile.

 

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