Fausto Coppi, i 100 anni del Campionissimo. È stato il più grande di tutti?

 

Fausto Coppi, il corridore che più ha affascinato gli sportivi italiani, celebra un Giro Speciale: quello dei suoi cento anni. Morto il 2 gennaio 1960 a Tortona, per una banale malaria non diagnostica dai medici, il Campionissimo era nato a metà settembre del 1919 a Castellania, un paesino del Basso Piemonte che pochi avrebbero sentito nominare se non avesse dato i natali a uno delle figure più leggendarie del ciclismo.

Dario Ceccarelli (Il Sole 24-Ore 15 sett. 2019)

Un secolo fa, il 15 settembre 1919, Fausto Coppi, il corridore che più ha affascinato gli sportivi italiani, nasceva a Castellania, un paesino del Basso Piemonte che pochi avrebbero sentito nominare se non avesse dato i natali a uno delle figure più leggendarie del ciclismo. Un campione indimenticabile, scomparso a soli 40 anni (il 2 gennaio 1960) per una banale malaria non diagnosticata dai medici superficiali e presuntuosi.

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Fausto fa quindi cento anni. Ricorrenza particolare e strana, soprattutto per un campione che ricordiamo sempre giovane, a differenza di Gino Bartali, il suo implacabile avversario che già sembravo vecchio da corridore ma gli è poi “sopravvissuto” per altri 40 anni (5 maggio 2000 la morte ) rendendocelo più familiare, come quei nonni che, quando ci si ritrova per un compleanno, raccontano le sue spericolate avventure giovanili. Ma Coppi no. Nessuno era preparato alla sua morte, Fu uno choc. Le sue straordinarie imprese erano ancora freschissime. Sembrava uno scherzo, l’assurda beffa di un destino capriccioso che si divertiva a infierire su campione fortissimo ma fragile allo stesso tempo…
Che ha vinto con distacchi clamorosi, entusiasmando l’Italia del dopoguerra, ma scivolando spesso sul rasoio della malasorte. Le numerose cadute, la morte del fratello Serse, la carriera interrotta dalla guerra dopo che, nel 1940, aveva vinto il suo primo giro di Italia, proprio in quel Giro in cui avrebbe dovuto fare da gregario a Gino Bartali.

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Difficile spiegare, nel mondo di oggi, dove il ciclismo non è più lo sport più popolare, dove tutto è cambiato e chiunque tramite uno smartphone può vedere in video gli highlights di una impresa sportiva, che cosa potesse rappresentare una figura come quella di Coppi, figlio di contadini e garzone di salumeria che faticando in bicicletta era salito sempre più in alto.
La stessa bicicletta con cui, dopo la guerra, milioni di italiani in cerca di lavoro si muovono dai sentieri di campagna verso le periferie delle città. E Coppi, di questa Italia lanciata verso un futuro migliore, è l’eroe più riconoscibile. Quando Coppi vince al Tour (nel 1949 e nel 1952), e tutta la Francia lo chiama Fostò e lo rispetta e lo ammira, per milioni di italiani è la fine di un incubo. La fine delle umiliazioni, degli stenti, di un purgatorio che sembrava non dovesse aver mai fine.
Un mito, quello di Coppi, mai esaurito. Che il tempo anzi ha dilatato portandolo forse oltre alla sua vera dimensione tecnica. Di solito infatti i grandi campioni devono fare i conti con l’inevitabile paragone con il campione successivo. Pensiamo a Pelè e Maradona, nel calcio. Oppure ai grandi tennisti degli anni ottanta (Borg e McEnroe) rispetto a Federer e Nadal. O quante volte nel pugilato abbiamo detto: ma Muammad Alì è stato il migliore? E se avesse incontrato….
Anche al ciclismo piace fare confronti: da Binda a Girardengo, da Anquetil ad Hinault, da Moser a Indurain, passando per Pantani e arrivando fino a Froome. Con un mito come Coppi viene quindi inevitabile porsi la stessa domanda: ma fu il più grande? Oppure come capita coi grandi miti abbaglia la scia dei ricordi?
Il terreno si fa scivoloso. Perché con i “se” non combina quasi nulla. E poi Coppi ha corso a cavallo tra le due guerre in un contesto completamento diverso. Erano diverse le strade, le biciclette, i guadagni, gli allenamenti. Pr dirne una: Coppi quando stabilì il record dell’ora al Vigorelli di Milano nel novembre 1942, record che durò 14 anni (km 45,798), arrivò alla prova quasi senza allenamenti specifici e con la minaccia dei bombardamenti per la guerra in corso. Una cosa inimmaginabile ai giorni nostri.
Anche il doping – c’era anche allora – era diverso. Ma ai quei tempi era un doping più artigianale. C’era la famosa “bomba”, un micidiale intruglio a base di caffeina e anfetamina, che si consumava nello spazio di una corsa. Roba da ridere rispetto all’attuale doping scientifico.
Detto tutto questo, e con tutti i distinguo del caso, c’è un corridore che può reclamare il trono di Coppi. Si chiama Eddy Merckx, ha quasi 74 anni, e nella sua straordinaria carriera di professionista (1965-1978) ha vinto 426 corse, tra le le quali 5 Giri d’Italia, 5 di Francia, sette Milano-Sanremo e tre campionati del Mondo.
Non a caso fu chiamato il “ Cannibale”. Perché a differenza di Coppi, che spesso lasciava vincere anche gli altri (magari per non crearsi nemici), il belga era un corridore insaziabile. Voleva vincere sempre. Su qualsiasi terreno: allo sprint, in montagna, a cronometro. Una belva in bicicletta che non faceva sconti a nessuno. Basta chiedere a Felice Gimondi, suo grande rivale, costretto a inserirsi negli spazi lasciati dal belga.
Il duello è pronto. Chi ha diritto al trono? Un bel rebus. In quantità, Merckx stravince. Coppi infatti di corse ne ha vinte solo 123. Certo, cinque giri d’Italia, due Tour, un Campionato del mondo, Cinque Giri di Lombardia, ma nel confronto numerico non regge. Il belga lo schiaccia. Però va detto che Coppi ha saltato gli anni della guerra. E che poi le vittorie dei due dovrebbero essere valutate tenendo conto anche dei rispettivi rivali, dei percorsi, dei materiali, per non parlare degli aiuti medici e del doping. Insomma, tutto si mischia.
Coppi ovviamente non possiamo interpellarlo. Ma Merckx, ancora combattivo, non si tira indietro. E dice: «Chiaramente voi italiani preferite Coppi. Però la storia non si fa con i sentimenti… E neppure con i numeri. Io ho vinto più di Fausto, ma questo dato aggiunge poco alla discussione. La differenza è un’altra: io ho gareggiato negli anni Sessanta e Settanta, anni molto diversi da quelli di Coppi. Penso alle strade, ma anche al modo di allenarsi, ai soldi che giravano…».
Ma Coppi guadagnava bene…
«Lui guadagnava benissimo. Ma era un’eccezione, come Bartali, Magni, Koblet e Kubler. Gli altri invece erano poveri gregari, che alternavano il ciclismo con un altro lavoro. Spesso erano muratori, facchini, scaricatori, prestati alle corse nella stagione più calda. Coppi si allenava come un ciclista moderno, preparava la Milano-Sanremo con due mesi di anticipo… E infatti vinceva con distacchi immensi, come fece nel 1946 scattando dopo pochi chilometri. Insomma, Coppi era bravissimo ma si misurava con un gruppo che aveva pochi professionisti nelle sua fila. Mettiamola così: nel suo ciclismo, Fausto è stato il migliore. Nel mio lo sono stato io….».
E nel modo di correre?
«Eravamo completamente diversi. Io correvo per vincere tutto. Sia le grandi corse, sia le piccole perché così guadagnavo altri soldi e altri ingaggi. Coppi invece calibrava di più i successi. Forse anche perché era più debole di salute. Ma quando tirava in salita non aveva rivali. Anche a cronometro era fortissimo».
Mario Fossati, grande cronista scomparso nel 2013, amico di Coppi ma anche ammiratore di Merckx, dà un giudizio di parità. «I due non sono poi così lontani…Merckx porta a completamento quello che Coppi ha inventato. È il ciclismo delle lunghe fughe, della corsa sempre in testa. Confrontandoli, in pianura si equivalgono, in salita è meglio Fausto, anche se poi è meno veloce in volata».
Fossati precisa: «Coppi è l’eleganza , Eddy la potenza. Fausto ha avuto avversari più forti, e ha dovuto combattere contro un lunga serie di guai, in corsa e fuori corsa, come la vicenda della Dama Bianca. Merckx vinceva da grande prepotente. Fausto mi dava più emozione. Fuori dagli affetti, messi oggi sulla bicicletta, uno contro l’altro, finirebbero alla pari».
«Il più forte è stato Merckx», ribadisce un altro famoso inviato di ciclismo e di sport come Gian Paolo Ormezzano. «Coppi ha segnato la memoria della gente, il belga è un simbolo atletico che non ha eguali. Per questo dico che Eddy è il più forti di tutti i tempi, anche se Coppi resterà il più grande…. ».
Insomma, difficile arrivare a un giudizio definitivo. Forse le differenze sono troppe. Forse i paragoni servono solo a farne altri. Di sicuro vedendo le imprese e i numeri di questi campioni, si rimane sbalorditi. Anche perchè, soprattutto per Eddy Merckx, non parliamo dell’epoca dei dinosauri. Eppure tutto è cambiato. Chi, tra i campioni di oggi, potrebbe vincere oltre 400 corse in carriera? Impossibile. E se ci fosse, forse sarebbe meglio chiamare i carabinieri.

 

One Response to I cento anni di Fausto COPPI, il Campionissimo (15 sett. 1919-15 sett. 2019)

  1. Antonio ha detto:

    Sì, per me Fausto Coppi è stato il più grande di tutti. Il più grande non vuol dire pure il più forte, ma è sentimento che richiama la supremazia sul piano delle emozioni.
    Io, come tifoso, sono stato un caso eccezionale, forse unico. Bartaliano in principio, per un paio d’anni, divenni poi coppiano. Più facile allora perdonare un comunista che passasse nelle file DC, o viceversa, piuttosto che uno passasse da Bartali a Coppi, o viceversa. Lo spirito toscanaccio di Bartali e l’emozione di Coppi, per me, divennero incomparabili.

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