BULLISMO VERBALE TIPICO DI CINICI E DEBOLI
ABITARE LE PAROLE / SARCASMO
«Abitare le parole» è una rubrica di parole «prese sul serio», a partire dal marzo 2016, sulla pagina del Domenicale del Sole 24 Ore di mons. Nunzio Galantino, vescovo dal 2011 con Papa Benedetto XVI, da quattro anni Segretario generale della Conferenza episcopale italiana e dal 26 giugno chiamato anche alla presidenza dell’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede (Apsa). Ora sono centoundici parole raccolte nel volume «Vivere le parole» con una provocatoria prefazione di Papa Francesco.
«Le parole non sono neutre, né lasciano mai le cose come stanno. Vivere le parole significa superare sospetti, paure e chiusure per assumere il coraggio liberante dell’incontro». Aggiungendo: «La loro fecondità è legata a una condivisione della vita; è proporzionata alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalle storie delle persone».
Il minuzioso e appassionato lavoro di monsignor Galantino è sorretto da una convinzione che nasce dalla sua esperienza di uomo e di pastore: «Lasciamoci abitare dalle parole e abitiamole. La parola esce dall’uomo e lo penetra, lo dilata e ne spalanca gli orizzonti se egli non la tratta come un semplice bene di consumo, ma la ascolta e la usa con rispetto». Solo così diventa possibile scoprire e incominciare a usare nella quotidianità il «vocabolario dell’esistenza».
Ogni termine è accompagnato dall’etimologia, dove il latino si integra con il greco, il sanscrito, l’ebraico e il provenzale, mostrando quanto profonde siano le radici delle parole che scendono nel tempo della storia, delle tradizioni, dei vissuti. La descrizione di ciascuna voce entra poi nella concretezza quotidiana e interagisce con i sentimenti, le passioni, i limiti, le speranze, i desideri. «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi», scriveva Kafka nel 1903 al compagno di ginnasio Oskar Pollak. «Vivere le parole» ha questa forza.
La parola «abitata» o «vissuta» nella voce, pubblicata nel Domenicale del 6 ottobre 2019 col titolo di questo post è «sarcasmo». Segue il testo della voce di mons. Galantino:
Qualora non bastasse la constatazione diretta, si può contare anche sull’autorevole parere di un linguista del McAllister College per riconoscere che il sarcasmo è divenuta la principale figura retorica adottata dalla società moderna. Secondo attenti analisti del costume e della comunicazione ci stiamo decisamente infilando in una sorta di dittatura del sarcasmo, quasi una istituzionalizzazione di esso. Probabilmente per la sua efficacia comunicativa, sia nelle relazioni private sia nei dibattiti pubblici. Parliamo comunque di una efficacia a esclusivo vantaggio di chi sceglie di marcare la propria supremazia su qualcuno, tendendo in tutti i modi alla sua delegittimazione. All’origine del termine tardo latino sarcasmus vi è la parola greca sarx (carne) dalla quale derivano il sostantivo sarkasmòs ed il verbo sarkàzein , col significato di lacerare le carni, dilaniare, tagliare un pezzo di carne dal corpo vivo di una persona. L’etimo conferma quindi il carattere non positivo ancorché volontariamente beffardo e violento del sarcasmo, definito la «forma più bassa di arguzia». E, proprio per questo, è improvvido ritenere che il sarcasmo possa essere frutto di un’intelligenza sottile. Il sarcasmo non è segno di intelligenza. È piuttosto, come ha scritto Sartre, «il rifugio dei deboli». Vi ricorre chi, sicuro e soddisfatto di sé, mette in campo una forte carica aggressiva per vedersi riconosciuta una presunta superiorità. Per tutte queste ragioni, il sarcasmo non va confuso con l’ironia. L’ironia – e soprattutto l’autoironia – è una sorta di sistema immunitario della mente, che consiste benevolmente in una dissimulazione (dal greco eirnèia ) e che finisce per essere anche divertente. Ben dosata, crea leggerezza, sdrammatizza, accorcia le distanze; tanto da far dire a V. Hugo: «La libertà inizia dall’ironia». Il sarcasmo invece, strumento tipico del cinico, non ha niente di divertente. È divertente solo nella misura in cui è divertente l’umiliazione, la delegittimazione dell’altro e il trionfo della volgarità violenta. Per tutto questo, il sarcastico non costruisce. Soprattutto non ama il dialogo perché, mancando di ragioni vere, crede che bisogna sopraffare gli altri, non convincerli. In questo modo logora i rapporti come li logora qualsiasi forma di bullismo. Non è un caso che qualcuno definisca il sarcasmo «bullismo verbale», il cui scopo non è il confronto o il costruttivo scambio di opinioni, bensì quello di umiliare il soggetto cui è rivolto il sarcasmo. Esercizio tipico di personalità segnate da individualismo esasperato e da prepotenza, dotate del peculiare talento di disprezzare chi non consente alle proprie mire. Ciò fa del sarcasmo una risorsa non solo pericolosa, ma addirittura letale. Soprattutto quando è usata da chi detiene una qualsiasi forma di potere, esercitato attraverso un eccesso di parole e la pretesa di avere consapevolezza di tutto. Non certo del limite della propria corta intelligenza.
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Il libro è da comprare.
A costo di dimostrare una mia mancanza di intelligenza, devo dire che il sarcasmo mi piace, ma se usato da chi “non ha potere” nei confronti di “un potente”.
Sempre con stima.
Mi segnali un caso di uno che non ha potere sarcastico nei confronti di un potente.
Consapevole della mia corta intelligenza, devo ammettere che é il mio caso. D’altronde non so come potremmo contrastare i potenti prepotenti. Il sarcasmo é preferibile alla clava.
Ma i poveri cristi contro i potenti non hanno in mano l’arma del sarcasmo! Come costoro possono “lacerare le carni”, umiliare e offendere un potente? Tutto al più gli fanno un baffo. Mi scusi, ma secondo me lei confonde sarcasmo con ironia. Anche il sarcasmo è una forma di ironia, ma la differenza è enorme e rischia di far scivolare il povero cristo su una china pericolosa. Mi stia a sentire: si accontenti di essere ironica, che non è cosa semplice.
Appunto, essere ironici é più difficile dell’essere sarcastici.
Finiamola quì