La rivoluzione della luna
Scienza e poesia
In attesa di sfogliare il Domenicale del Sole 24 Ore di Domani 26 ottobre 2019, ho letto, e riporto, la prima pagina del Domenciale di qualche anno fa, 26 ottobre 2014, che dedico soprattutto ai miei amici di infanzia, qanto per noi la luna con Marcoffio suo solitario abitatore non aveva nulla a che fare con la scienza, ma esclusivamente con la fantasia, e quindi con la poesia:
In un articolo uscito su «La Stampa» il 21 luglio 1969, in concomitanza con il primo sbarco dell’uomo sulla Luna, Primo Levi si chiedeva se una tale impresa saprà ancora farci meravigliare, saprà ancora farci stupire. Ovvero – uso le sue parole – se saremo ancora capaci di «distillare» poesia «dai favolosi eventi che si svolgono al di sopra del nostro capo».
Sono trascorsi esattamente quarantacinque anni da allora e possiamo dire che questi dubbi e queste perplessità – nonostante le riflessioni di filosofi e scrittori che precedettero e seguirono il lancio della navicella Apollo 11 – escono più che mai confermati. In effetti, «il poeta dello spazio» deve ancora arrivare. E ovviamente non è detto che arrivi. Così come, ricordava Levi, l’aviazione non è mai riuscita a produrre grande poesia – con la sola eccezione di Saint-Exupéry (e oggi aggiungerei di Daniele Del Giudice) –, per non parlare della poesia ferroviaria che non è mai nata o quella di mare che è scomparsa una volta morta la navigazione a vela, il rischio è che la conquista dello spazio non produca nessuna riflessione sullo spazio e sull’universo in cui abitiamo. E quindi finisca per servire a poco o a niente.
Cambiamo scenario. Andiamo indietro nel tempo e sbarchiamo ai primi del Seicento. Anzi, siamo più precisi, atterriamo esattamente 360 anni prima di quel luglio del 1969, quando il primo navigatore telescopico iniziò il suo viaggio verso gli spazi celesti. Ebbene, ciò che si può dire con assoluta certezza è che allora le cose andarono diversamente. E fin da subito. La Luna non solo si trasformò in oggetto scientifico osservabile, ma diventò oggetto d’indagine del pensiero e tema letterario di prima grandezza. Allora la scienza non uccise la poesia, né quest’ultima fu indifferente ai progressi conseguiti dalla prima.
Di questo ci parla il libro curato da Chantal Grell, La Lune aux XVIIe et XVIIIe siècles. La Luna come oggetto di studio da Galileo a Laplace. Questi, in sintesi, i confini entro cui il volume si colloca, nel tentativo di mettere in risalto le ricerche, le sfide, i dibattiti che per oltre due secoli ci furono tra filosofi, astronomi, letterati di tutta Europa sul corpo celeste a noi più vicino, sulle sue caratteristiche, sulla sua somiglianza alla Terra, sulla sua abitabilità, sul suo improvvisamente essere diventato paradigma di un Nuovo Mondo astronomico.
Ma è un libro utile anche per altri motivi. Perché ci aiuta a riflettere su una cosa che spesso preferiamo dimenticare: e cioè sulle forme di resistenza e di difesa che attiviamo tutte le volte che le nostre idee di ordine, di simmetria e di spazio vengono attaccate e messe in dubbio. Ogni qualvolta – ieri come oggi – siamo di fronte a dei cambiamenti inattesi e radicali, facciamo di tutto pur di non turbare abitudini ed equilibri consolidati che ci aiutano a vivere. In questo caso a minacciare la nostra tranquillità è il pensiero della Luna, è lei che viene a turbare i nostri sonni all’indomani della nascita dell’astronomia telescopica. A partire cioè dall’anno 1609, da quando l’esplorazione e la conoscenza lunare subiscono un’accelerazione improvvisa, rimettendo in circolazione idee e concezioni – come quelle contenute nel De Facie in orbe Lunae di Plutarco – alternative ai paradigmi aristotelici allora dominanti.
Sarebbe dunque sbagliato credere che quelle esplorazioni celesti si risolsero in una marcia trionfale. Le resistenze furono fortissime e non tenerne conto rischia di non farci capire quello che accadde. Ricostruire quei fatti e quelle vicende a partire dal presente di oggi, spesso cancellando o ignorando o modificando profondamente il presente di allora, è il peggior servizio che potremmo fare alla nostra intelligenza.
Così l’immagine di una Luna tenebrosa, rugosa e densa fu ben lontana dall’essere subito accettata e considerata incontrovertibile. A essa si rispose con altre immagini che negavano la natura terrestre della Luna, e di conseguenza rifiutavano la rivoluzione cosmologica e intellettuale che il Sidereus Nuncius portava con sé. Ecco allora di contro alla Luna-Terra, a una Luna fatta di montagne e valli come il nostro pianeta, comparire una Luna-Nuvola. Che era un modo molto moderno di difendere la tradizione, la quintessenza della Luna, la sua incorruttibilità e inalterabilità: un modo per non rinunciare al paradigma millenario della separazione del cosmo in due parti ontologicamente distinte. Furono aristotelici come l’italiano Giulio Cesare Lagalla, professore di filosofia alla Sapienza di Roma, o matematici gesuiti studiosi di ottica come il belga François d’Aguillon a farsi sostenitori di questa suggestiva immagine.
E le conclusioni a cui giungono sono chiarissime: le montagne lunari dipinte da Galileo non esistono nella realtà. La mescolanza di luci e ombre che produce quelle irregolarità lungo il terminatore (la linea che separa la zona lunare illuminata dal sole da quella in ombra) non è causata dalla presenza di avvallamenti e catene montuose. E la ragione di questo fenomeno va ricercato altrove, vale a dire nel fatto che la Luna è una mescolanza di parti lucide e opache. La Luna è un corpo celeste non sottoposto a generazione e corruzione, che restituisce più luce là dove è opaca (ma che a noi appare più luminosa), mentre le sue parti più trasparenti sono quelle che “bevono” e assorbono più luce (e quindi il loro aspetto è alla nostra vista più oscuro e macchiato).
Come adesso si parlò di conquista, di viaggi, di navicelle che salpavano per raggiungere i mari della Luna. Anche allora ci fu chi si pose il problema della Terra vista dalla Luna. Quei primi viaggiatori si chiamavano Galileo, Kepler, Harriot, Peiresc, Gassendi, Hevelius, Gian Domenico Cassini, Huygens, Newton. E mescolati a loro c’erano anche altri viaggiatori, poeti e scrittori come Cyrano de Bergerac, Francis Godwin, Bernard Fontenelle, John Wilkins, che si misurarono con le grandi novità telescopiche e con tutte le conseguenze che ne derivarono sia in termini scientifici sia in termini antropologici. A cominciare da uno degli interrogativi più affascinanti che la rivoluzione telescopica portò inevitabilmente con sé: se la Luna è come la Terra, se è un mondo simile al nostro, perché non pensarla abitata? Perché non pensarla, come fa Kepler nel Somnium, costellata di città sotterranee e di fortificazioni abitate da esseri giganteschi e molto resistenti al freddo e al caldo? Perché, come scrive il canonico di Digne, lo scienziato e filosofo Pierre Gassendi, dal momento che i corpi celesti non sono stati creati per caso, non immaginare un universo unificato e a sua volta differenziato, dove le leggi che lo regolano sono comuni ma le specie di vita infinitamente variabili? E quindi la Luna necessariamente popolata da altre specie? O come ipotizza Hevelius da animali e piante completamente differenti sia in grandezza che in qualità da quelle esistenti sulla Terra?
Non c’è dubbio che il cannocchiale sia stato anche un formidabile strumento poetico. Con la nascita dell’astronomia telescopica l’immaginazione del cielo non scompare, cambia registro, accetta la sfida di un nuovo mondo, così come a partire dal 1492 l’immaginazione umana aveva accettato la sfida dell’abbattimento delle colonne d’Ercole. Come l’antico spazio mitico prese forma e contorni e venne cartografato e raccontato, così anche la nuova astronomia ha messo in discussione gli spazi da millenni considerati immaginari, trasformandoli in spazi sottoposti a indagine fisica e teorica.
«Come i cosmografi del Rinascimento, anche gli astronomi preparano le loro carte, costruiscono globi, tentano di afferrare la misura del cielo».
Chissà forse oggi qualcosa è cambiato, quella continuità si è spezzata. Forse ha proprio ragione Levi quando scrive che «Il volo di Collins, Armstrong e Aldrin è troppo sicuro, troppo programmato, troppo poco “folle”, perché un poeta vi trovi alimento».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Chantal Grell (a cura di), La Lune aux XVIIe et XVIIIe siècles, Brepols, Turnhout, pagg. 266, € 62
Il Sole 24 Ore
26 ottobre 2014
POST SCRIPTUM.
Si sostiene che l’aviazione non è mai riuscita a produrre grande poesia – con la sola eccezione di Saint-Exupéry (e oggi si aggiungerebbe di Daniele Del Giudice) -. Non abbiamo difficoltà a comprendere il rifermento al Piccolo Principe di Saint-Exupéry. Ma Daniele Del Giudice? Chi è costui? Scrittore poco celebrato, prima schivo poi reso invisibile da una malattia che si fa fatica a nominare. La sua bibliografia è composta da pochissimi libri, esigeva tanto da se stesso, era severo. Daniele Del Giudice è però uno degli esponenti più originali della narrativa contemporanea. Il volo aereo costituisce una presenza pressoché costante nei suoi racconti. In Staccando l’ombra da terra, Daniele Del Giudice racconta il volo attraverso una manciata di microstorie che vanno a definire i contorni di un mondo perduto. Il risultato è un piccolo romanzo epico contemporaneo, preciso e affascinante, in cui uomini e aerei si sfidano e si amano come eroi antichi, e in cui ogni parola è necessaria e irrinunciabile, parte di un ingranaggio enorme e affascinante. (a.m.)
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