Umberto Curi riflette in un testo, edito da Bollati Boringhieri, sugli scopi del diritto penale e sulla necessità di adottare un approccio innovativo.

Basta inferni carcerari, è tempo di «giustizia riparativa» di Eva Cantarella

 

Perché punire? Quali possono essere le ragioni per le quali uno Stato può infliggere ai cittadini un male, qual è ovviamente la pena, in tutte le sue possibili forme e gradazioni? Come sempre, a chiederselo per primi sono stati i Greci, ai quali dobbiamo le risposte iniziali a un problema che non cessa di riproporsi, e a cui Umberto Curi ha dedicato un importante e ricchissimo libro, Il colore dell’inferno (Bollati Boringhieri).

Perché punire, dunque? Protagora, nell’omonimo dialogo platonico, sostiene che la pena ha funzione riabilitativa: «Nessuno punisce chi commette ingiustizia perché la ha commessa, a meno che non si abbandoni a un’irrazionale vendetta, come una belva. Chi punisce secondo ragione lo fa in previsione del futuro, perché chi viene punito non commetta più ingiustizia, né la commettano altri, che vedono costui punito». A nostra conoscenza, Protagora è il primo critico delle teorie retributive e il più lontano precursore di quelle riabilitative, che a distanza di secoli torneranno in autori come Cesare Beccaria o Jeremy Bentham.
Ma il rapporto tra vendetta e pena non è che il primo dei temi affrontati da Curi, che al termine di una lunga analisi delle «immagini della giustizia» affronta il problema delle origini e della funzione della pena, a partire dal significato del termine greco poiné, che in Omero indicava una compensazione data all’offeso dall’offensore. E poiché la misura della poiné era commisurata alla gravità dell’offesa, ne consegue la coincidenza della pena originaria con un castigo (al quale, considerando che procurava sofferenza all’offensore senza alleviare il dolore della vittima, era affidata anche una funzione di purificazione e di riscatto). Ed eccoci a uno snodo importante: di fronte a problemi quali l’insoddisfazione per gli esiti della pena detentiva, la perdita di legittimazione delle funzioni rieducative del carcere e il disconoscimento da parte del sistema giudiziario dei diritti delle vittime, Curi volge la sua attenzione e le sue speranze alla recente «giustizia riparativa».

Diversa sia da quella «riabilitativa» sia da quella «retributiva», questa giustizia, che esclude che gli interessi dell’autore del crimine e delle vittime siano diametralmente opposti, ha chiesto e in molti casi ottenuto che alle vittime venisse dato il ruolo di attori nel processo, così che questo potesse finalmente riparare i diversi mali provocati a tutti coloro che erano stati coinvolti dal crimine.

Sarà in grado questa giustizia, che non pone più al centro dell’approccio alla pena la sua proporzione con la colpa, ma il rapporto tra le parti, di configurare una terza via, alternativa sia alla concezione retributiva che a quella rieducativa? Potrà umanizzare e razionalizzare il sistema penale in modo che, al di là dei progressi fatti nei secoli, la pena smetta di avere quello che Simone Weil definisce il «colore dell’inferno» che dà il titolo al libro? Lasciandoci con questa domanda Curi conferma la sua straordinaria capacità di percorrere con competenza e passione la lunga strada che dall’antichità conduce a noi. E una volta di più non possiamo che essergliene grati.

 

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