Storia tragicomica di una nazione allo sbando, dal Parlamento agli stadi, dalle alleanze internazionali all’economia reale, con un finale che al momento promette malissimo

Tiziana FABI / AFP

Lasciamo chiudere la più grande acciaieria d’Europa, siamo pronti a serrare i negozi la domenica, aumentiamo le tasse su uno dei nostri settori industriali d’eccellenza, quello del packaging, firmiamo accordi di resa alla Cina che aumentano l’import dall’Asia, siamo pronti a cedere a Pechino le nostre infrastrutture strategiche, ostacoliamo gli investimenti stranieri per preservare posizioni di sottogoverno, cancelliamo gli incentivi alle assunzioni, irrigidiamo il mercato del lavoro, smobilitiamo la struttura del ministero dello sviluppo economico perché troppo sviluppista, puntiamo sul reddito di pigranza, impegniamo miliardi di euro per mandare 150 mila persone in pensione anticipata a spese delle giovani generazioni, tentenniamo sui treni ad alta velocità, blocchiamo l’espansione dell’aeroporto di Fiumicino, tassiamo le automobili, crediamo alle bufale sui vaccini, non curiamo gli ulivi della Puglia, mandiamo in malora la Capitale, eleggiamo dei ciarlatani alla presidenza di importanti commissioni istituzionali, ce ne freghiamo dello spread, lanciamo campagne xenofobe nei confronti dei nostri vicini, ci accodiamo al volere del Cremlino, amiamo Trump e Erdogan, sigliamo accordi per finanziare i lager libici, flirtiamo con i neonazi di mezza Europa, ospitiamo con tutti gli onori sia i leader nazibolscevichi cacciati da Putin sia gli screditati leader nazionalisti presi a pedate da Trump, mettiamo la nostra intelligence a disposizione dei complottisti della Casa Bianca, affidiamo la Rai a personaggi inquietanti, smantelliamo le istituzioni repubblicane, consentiamo a una srl privata di raccogliere la decima dai deputati trasformati in dipendenti, frequentiamo ambigue università maltesi con sospetti rapporti moscoviti, facciamo atterrare gli aerei iraniani, ci battiamo per togliere le sanzioni ai russi, ospitiamo imbarazzanti congressi sulla famiglia promossi dall’ex Kgb, insultiamo in Parlamento un’eroina sopravvissuta dell’Olocausto, giustifichiamo da Cagliari a Verona gli ululati nazisti, diciamo apertamente che Balotelli e Gad Lerner non sono italiani perché uno è nero e l’altro ebreo, ammoniamo Balotelli perché non si doveva permettere, intervistiamo capi ultrà secondo cui inneggiare a Hitler è solo goliardia e il nazismo ha fatto meno danni della democrazia, celebriamo la marcia su Roma, commentiamo come se niente fosse l’invocazione dei pieni poteri, affidiamo il cuore immacolato di Maria a un pagano già devoto al Dio Po, candidiamo nelle liste elettorali futuri stragisti di immigrati, invitiamo i teppisti delle curve al Senato, proviamo a chiudere Radio Radicale, facciamo sondaggi online dal titolo «cosa faresti in auto con Laura Boldrini?», invitiamo in prima serata tv Casa Pound e qualunque sbronzo, nel senso di avvinazzato ma a pensarci bene anche di stronzo con la t, ce ne infischiamo del sovraffollamento delle carceri e della lunghezza dei processi, ci entusiasmiamo per i verbali spiattellati sui giornali senza possibilità di difesa per l’accusato, assegniamo collane editoriali a Di Battista, crediamo a Dagospia più che al New York Times, scateniamo la gogna contro gli immigrati e, a un certo punto, abbiamo pure chiuso i porti. Ma parte questo, in Italia stiamo molto bene.

 

2 Responses to Dall’Ilva a Balotelli, la catastrofe civile dell’Italia 2019 (5 nov. 2019 da LINKIESTA)

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    L’Italia, il Paese che non si riesce più ad amare. Anzi, si è imbarazzati a farne parte. Anche perchè alla lunga interminabile lista delle … benemerenze … elencate nell’articolo si aggiunge una pervicace e insulsa retorica, per cui si continua a considerare un Paese allo sfascio come il BELPAESE!

    • Antonio ha detto:

      Ti capisco, figurati se non ti capisco, caro Angelo; ma non sono d’accordo. Il quadro tracciato nell’articolo mi fa capire che questo mio (nostro?) Paese ha bisogno di essere amato, curato. Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia patria è dove l’erba trema/. Qui, dove il filo d’erba che io sono spuntò, qui l’erba trema per debolezza e malattia, non per il dolce zefiro. Non sono imbarazzato a farne parte, ho pietà. Malato, inoltre, non è solo il mio (nostro) paese.

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