I giorni del Mose
In una mail appena ricevuta, Laura, una nostra cara amica di Venezia, ci confida: «In questi giorni alla mia tristezza e dolore personale si aggiunge il dispiacere di vedere Venezia in questa condizione catastrofica. Il nostro cortile è molto basso, come San Marco; sono prigioniera dell’ acqua alta per molte ore e a volte per tutta la giornata. Penso alle pagine di Ennio su l’ acqua alta e sul Mose del libro «Venezia l’anno del mare felice» e mi pare che abbia anticipato tante cose. Mi é stato proposto da un giovane di una neonata casa editrice di ripubblicare “Giornale dei lavori” che é fuori catalogo , in questi giorni devo decidere, ma non so bene se accetterò».
Ennio – Ennio Gallo – è il marito di Laura, venuto a mancare cinque anni fa, la notte tra il 27 e il 28 giugno 2014. Ingegnere idraulico impegnato in grandi opere idrauliche, in costruzione di dighe in tutto il mondo, particolarmente in Sud Africa, e scrittore con lo pseudonimo Paolo Barbaro. Guardo nella libreria alla mia destra: i libri di Ennio/Paolo Barbaro sono allineati – forse tutti, sono quattordici, forse c’è qualche altro sperso, da due o tre anni non rileggo un libro di Ennio -. Sono editi da Einaudi, Marsilio, Mondadori, Sugarco, La Stampa, Bollati Boringhieri, Il Mulino. Il primo libro della fila è proprio quello citato da Laura, «Venezia l’anno del mare felice», edito nel 1995 da Il Mulino di Bologna. Lo prendo, l’apro e scorro qualche parola della prima pagina: Che gioia cominciare dal mare pulito, finalmente. In questi giorni è vivo r «leggero» come non lo vedevamo da anni…
Anno reale e immaginario, quello del mare felice: a partire dal ’93 Venezia, la laguna, le coste dell’Adriatico – si legge in quarta pagina di copertina – stanno sperimentando il miracolo d’un mare improvvisamente diverso rispetto agli anni precedenti. Barbaro svela il fenomeno in ogni risvolto, in un preciso sopralluogo tecnico che è anche un testo intensamente poetico. Ne esce una «composizione» articolata su dodici mesi, che dà voce ai mutamenti del mare, alle diverse risposte umane e ambientali, alle variazioni degli spazi, rapporti e sfumature delle architetture, ai nuovi problemi delle isole, tra incognite del sottosuolo e influssi degli astri, variabili amori e umori di abitanti e «foresti»
Sul mese di ottobre sono articolati due capitoli: «I giorni del Mose» e «Marea d’ottobre». Penso che a queste pagine, in particolare ai giorni del Mose fosse e sia rivolto il pensiero di Laura e che la loro lettura possa ancora interessare molto. Pertanto posterò i due articoli a qualche giorno di distanza l’uno dall’altro.
I giorni del Mose
Ha fatto marcia indietro, è tornato agli ormeggi, l’ormai celebre «Mose»›, dal nome quasi biblico: il grandioso modello dei sistemi di sbarramento, che dovrebbero difendere Venezia dal mare, da ieri è in disarmo. In attesa, per quanto sappiamo, di demolizione.
Quattro anni fa, appena sfornato dal cantiere, lucido sotto il sole, il Mose aveva attraversato la laguna con le bandiere al vento: un castello d’acciaio alto oltre venti metri, francamente bellissimo. Da Porto Marghera era transitato tra San Marco e San Giorgio: salutato dalle sirene delle navi coi gran pavesi alzati, accompagnato dalle speranze o dalle perplessità di Venezia e di mezzo mondo. Contrari, forse, poeti e uomini di mare: il bestione finirà per bloccare a comando il flusso mare-laguna, interromperà l’abbraccio continuo, il respiro millenario… Sto anch’io coi poeti, o almeno coi <<marinanti›>; ma è sempre più difficile starci coi piedi a mollo, la città disastrata.
Una lunga virata attorno alle rive estreme di Venezia verso est, ed eccolo, il Mose, regolarmente approdato alla Punta dei Sabbioni, dal nome-presagio. Accanto a una delle grandi bocche di comunicazione tra mare e laguna, nel punto esatto d’uno dei futuri sbarramenti. Cominciavano i giorni del Mose, l’eccezionale esperimento in scala reale: il castello d’acciaio regge e manovra nell’acqua una potente <, a spinta di galleggiamento. La paratoia è come una lingua metallica lunga diciassette metri, larga venti, di oltre duecento tonnellate: capace di bloccare ogni furia marina.
Quattro anni, da allora, di serrate sperimentazioni, verifiche e modifiche: trenta miliardi di spesa tra costruzione e gestione. Passando per andare al Lido o per uscire in mare ci eravamo abituati a vedere il bel castello al lavoro, alto sulla pianura liquida, come parte del paesaggio e come segno di un’epoca, la nostra; mentre si moltiplicavano gli echi dei suoi esperimenti in Italia e fuori, come dimostrazione di un passo concreto nei problemi della nostra città più difficile, nel nostro difficile Paese. Dal Mose, come per gemmazione, sarebbero nate le dighe mobili di sbarramento tra mare e laguna, fra «contrasti» di antichi fiumi e di nuovi litorali, sempre in erosione e formazione. Ogni sbarramento mobile, composto di decine di mostri come questo; in totale almeno sessanta. Le ricorrenti inondazioni di Venezia sarebbero cessate; la vita d’ogni giorno liberata da un incubo; la possibilità del ritorno di industrie, del riuso di immobili di- sastrati, assicurata. I danni alle opere d’arte, alle abitazioni, al turismo, nella nostra «miniera nazionale», finalmente di- minuiti o bloccati.
Nei giorni scorsi, senza una sirena di addio, senza dirlo a nessuno _ il 20 ottobre se non ci sbagliamo -, il Mose è salpato definitivamente da Punta Sabbioni: trainato all’Arsenale, a riposo. Tolti gli ormeggi nel pomeriggio, il colosso è giunto a destinazione col buio, senza gran pavesi né feste. L’abbiamo scoperto oggi immobile nel Canale delle Navi: usciti in laguna per un’occhiata nel quarto anno di prove, non siamo riusciti a trovarlo né ai Sabbioni né in mare. Al ritorno, l’abbiamo intravisto oltre la Porta d’acqua dell’Arsenale: proprio dove venivano alberate un tempo le navi della Repubblica prima di prendere il largo. In questi giorni ricorre l’anniversario della tremenda marea che nel ‘66 sommerse Venezia per quaranta ore, causò danni incalcolabili, accelerò esodo e degrado: il Mose era il primo passo per fermare i futuri disastri. Forse per sempre.
Oggi gli specchi d’acqua, gli scali, i magazzini, i depositi dell’Arsenale sono quasi tutti deserti; alcuni in rovina, come apparizioni. Da ogni parte, lo spettacolo è muto e grandioso. Qui sono stati costruiti per secoli squadroni di galee, in tempi recenti navi famose; oggi possiamo solo immaginarle. Il Mose è fermo in un’atmosfera spettrale, coi giorni contati.
Giriamo intorno alle travature metalliche, agli argani, all’enorme lingua che chiamano paratoia… Pare molto più vecchio, il Mose, sulla soglia d’un’inesorabile demolizione; le strutture, rimaste quattro anni sott’acqua, tutte incrostate di nere conchiglie, cozze grandi e piccole, grovigli di alghe marce. (Qualcuno ha già tentato l’asporto e la vendita, dati i prezzi sul mercato.) Solo il mare è vivo, e come in attesa per conto suo; dolce, mutevole, trasparente anche nelle darsene interne. Il tramonto stasera non voleva finire, come per continuare a porci domande: dopo una giornata grigia, è sceso nell’acqua un globo rosso a strisce, la laguna insiste a vibrare di trèmiti interrogativi viola e verdi. Il grande Mose sta già arrugginendo, odori, alghe, conchiglie di ogni genere si moltiplicano di ora in ora, aggiungono l’ultimo tocco, lo scherno si potrebbe di- re, della natura: l’esplosione della vita in mille forme, e in breve della morte, dovunque l’uomo si ritira.
Ora tutti ci chiediamo che cosa succederà, se quanto è stato, provato, inventato, sofferto e speso, nel tentativo di mettere d’accordo finalmente mare e laguna, fiumi e spiagge, <<bocche›> e litorali, servirà o no per la definitiva messa a punto dell+opera e per la sua costruzione. O per l’abbandono.
Secondo il Consorzio Venezia Nuova, che ha la direzione del progetto come concessionario dello Stato, si è «conclusa una fase», non un’epoca. Si tratta semplicemente della fine della sperimentazione <› presso il Magistrato alle Acque di Venezia.
Una lunga trafila, che continuerà a Roma al Ministero dei Lavori Pubblici e alla Corte dei Conti. Se ci saranno le approvazioni e se continueranno i finanziamenti, la previsione è che tra il ’95 e il ’96, con un ritardo d’un paio d’anni rispetto a quanto sperato in principio, si potrà iniziare la costruzione delle chiuse.
Tutto questo viene ribadito da parte dei progettisti al lavoro. Eppure c’è l’impressione, a Venezia, della fine d’un’epoca; e non è solo qualcosa di impalpabile o di indefinito. Negli ultimi tempi sono aumentate le perplessità e ridotti gli entusiasmi sul grandioso progetto, anche al di fuori delle aree ambientalistiche che l’avevano sempre combattuto. Dal punto di vista economico, la realizzazione delle opere ha un costo di cinquemila miliardi, oltre ai costi della manutenzione e gestione: troppo per difendere Venezia dal mare? Troppo per salvare la nostra città-so- gno, per tenere in piedi la nostra maggiore miniera di valuta buona? Comunque una spesa «da non sottovalutare», come dicono, nei momenti che stiamo attraversando. Dal punto di vista tecnico e ambientale, sessanta paratoie come quelle del Mose, con nuove centrali elettriche, sono previste in una delle zone più belle e complesse del litorale: costruzione e gestione incontreranno difficoltà, l’impatto rischia lo scontro. E poi c’è sempre quel flusso millenario di acque interrotto a comando… (Sto coi poeti.)
C’e dell’altro: tra i punti critici del quadro ambientale, abbiamo anche noi segnalato, per averlo constatato di persona e forse per primi, che i rischi maggiori per Venezia, durante le ultime alte maree con piogge prolungate, sono apparsi provenire dagli allagamenti nell’entroterra.
In sostanza: da est l’acqua irrompeva in laguna dal mare, da ovest scendeva dalla pianura allagata: i due fenomeni si sovrapponevano in città, a Venezia. Si sa che la campagna del Veneto, anche in condizioni normali, è per migliaia di ettari a livello del mare, e la rete fluviale spesso <<pensile››: è chiaro che contro le inondazioni provenienti dall”entro- terra gli sbarramenti tra mare e laguna non servono, anzi possono diventare dannosi. Collegata a questi complessi contrasti di acque, la questione della resistenza delle isole del Lido, tra le quali verranno realizzate le chiuse: isole lunghe e strette, dove i rischi di sifonamento e allagamento sono possibili, e probabilmente, con le chiuse costruite, maggiori di oggi.
Ancora: la gente non può non notare che dal punto di vista operativo i progetti necessariamente prevedono di far entrare in chiusura le paratoie solo quando la marea supera un metro e dieci sul mare. Ma a quel livello di marea un quarto di Venezia è già allagato, come succede parecchie volte all’anno. Viene il dubbio che il problema abbia troppe variabili, al limite dell’insolubilità; oppure… Ci sono voluti ottant’anni per decidere come fare il Ponte di Rialto, probabile che occorra un po’ di più per costruire le chiuse.
O forse occorrono dunque altri concetti e altri lavori, finora sottovalutati, anche se da tempo riconosciuti dalle stesse leggi speciali: risulta indubitabile la priorità di realizzare interventi di riequilibrio in laguna e nell’entroterra. Una diversa serie di opere _ di natura meno meccanica e più «fisiologica» _ va subito attuata per ripristinare le diminuite o stravolte capacità difensive naturali: ricostituzione di spiagge, isole e «barene», riduzione dei fondali, consolidamento dei litorali, riapertura delle aree sottratte all’espansione delle maree, rinuncia ai tratti rettilinei dei nuovi canali, disinquinamento. Natura non nisi parendo vincitur, secondo Leonardo, la natura non si vince se non obbedendole.
Tutte opere relativamente «minori», in confronto «al più grande lavoro di fine millennio», riconducibili a una sola ragione di fondo: rimuovere le cause che provocano gli squilibri lagunari; riportare la laguna ad essere laguna; opporsi alla sua trasformazione in mare aperto, alla sua <<meccanizzazione›>. I lavori possono realizzarsi subito o intensificarsi dove sono in corso, senza gravi difficoltà, con spese relativamente contenute. Certo non hanno l’interesse progettuale e costruttivo dei grandi sbarramenti, né il loro peso economico e politico, né il fascino delle soluzioni <<definitive››. Niente bandiere o pavesi al vento. Piuttosto esigono controlli pazienti e senza gloria, ma sono necessari: gli sbarramenti, mobili o no, vanno programmati in funzione dell’ambiente riequilibrato e disinquinato.
Tecnici, economisti, organi dello Stato noi stessi, ci troviamo tutti di fronte a difficili domande, tra maree, piene di fiumi, allagamenti, correnti, erosioni, sabbie e pietre a contrasto, scontri di acque e di opinioni. E in mezzo c’è Venezia che aspetta – il mondo che aspetta. La gente della laguna non dimentica i giorni del Mose e le speranze: passa davanti a questo castello in disarmo, arrugginito, sulfureo, mangiato dai mitili, col fiato sospeso.
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