«Marea d’ottobre» – si ricorderà – è il secondo capitolo articolato sul mese di ottobre nel libro «Venezia l’anno felice del mare». Eccolo. Il primo capitolo, “I giorni del Mose” è il precedente post.

        Il maltempo che imperversa sull’Adriatico in questa prima metà d’ottobre scarica su Venezia e dintorni acqua dal cielo e acqua dal mare, come non si ricorda da anni. La vecchia città _ dicono _ è anfibia, anche se molte isole sono scomparse nei secoli in laguna, e qualcuna sta sparendo anche ora. Forse è insommergibile, con l’aiuto di San Marco: al momento non si vedono altri aiuti.
Ma certo non sono anfibi né insommergibili gli abitanti, specie i più vecchi e i bambini; cioè quasi tutti. Violenti acquazzoni, ondate di marea, acque alte a ripetizione, varie altre a fantasia, hanno causato in pochi giorni due incidenti mortali, diversi incidenti minori, infiniti disagi, paure di ordinaria gestione, risvegli imprevisti tra urli di sirene, veglie notturne di mai sopita memoria. Rive smangiate, angeli in bilico sulla corrente, spazzature alla deriva, cornicioni in frantumi, manichini a nuoto, in fuga dai vecchi negozi inondati. Il terreno consolidato per secoli da foreste di tronchi, da montagne di pietre, viene portato via sotto i piedi a ogni deflusso di marea; e non è che il riflusso riporti altrettanto. Le case si muovono l’una sull’altra, scricchiolano, si assesta- no, si fessurano. Un numero magico corre sull’acqua, una cifra ripetuta dalle emittenti radiofoniche e dai giornali, il fatidico 1,10: un metro-e-dieci sul medio mare, il livello liquido che copre tutta Venezia appena l’acqua lo sfiora o lo supera. Ma le emittenti 0 i cronisti non dicono che già a partire da ottanta centimetri sul mare molti cortili interni, entrate, povere calli, punti di passaggio meno noti, sono a bagno da un pezzo e non fanno notizia.

        A mezzogiorno preciso, come a un segnale, lastre di marmo flagellate dalla pioggia piombano dall’alto su una delle vie più frequentate. Erano lassù da secoli, lavorate e incise come è anche il più modesto cornicione a Venezia. Feriscono alcuni passanti, colpiscono a morte un antiquario, proprio un collezionista di antiche pietre. Sùbito, grandi transennamenti che non aggiustano nulla; però fanno apparire tutto l’insieme <<controllato››, come dicono, e assediato. Esperti e no, discutono tranquilli, sotto sto po’ po’ di diluvio, <› dell’incidente; altri rammentano i segni ammonitori _ mezzogiorno = mezza- notte _ e scoprono, eccole qui, le incisioni segrete sulle pietre cadute. Ma la marea disperde presto polveri e fantasmi.
In serata, una bella casa al ponte dei Lombardi scivola via a metà, senza un rumore, nel canale sottostante; men- tre in cucina qualcuno prepara da mangiare. Poco dopo, un paio di palazzoni superbi, i più belli di tutta la zona dei Ragusei, cominciano a tremare, a vacillare come col terremoto, all’arrivo di non so quale ondata: sono in piedi per miracolo, si vedrà meglio – con calma – domani. Per ora siamo a questo punto; ma chissà cosa succede lì sotto, nelle fondazioni degli infiniti muri <>, piegati in avanti o all’indietro secondo gli «umori» degli alberi piantati nel fango. Mentre da sopra gli intonaci instabili, marci o corrosi, si sbriciolano dappertutto, cospargono rive e ponti di maledette sabbie granulose, di malte sdrucciolevoli: con evidente vantaggio di gambe e piedi, che restano comunque il sistema più affidabile per muoversi. I battelli di linea e molti mezzi di trasporto non riescono, nelle punte dei «fenomeni», a passare sotto i ponti, data l’altezza dell’acqua: devono cambiare i percorsi, nessuno si ritrova più. I treni partono, intanto; ma non arrivano, e addio.

        Ma lo spettacolo straordinario, e in certi momenti la pena maggiore, questa volta viene da loro, dai turisti. La città è piena di turisti, soprattutto dei paesi dell’Est. Molti più di quanti non ne aspettassimo quest’anno, data la situazione nostra e loro: tutti qui in questo periodo, fra temporali e maree. Turisti poveri, in bassa stagione: Venezia costa meno, ma può essere ancora bella: e invece quest’anno… Bellissima e rara quest’autunno, nello sforzo di resistere all’acqua; e anche colpita da luci magiche, inseguita da prospettive mai viste. Però intransitabile, invivibile, «come fate a vivere qui».
Lunghe file di polacchi, cechi, sloveni, ungheresi, spesso anziani, col loro sogno nel cuore: arrivare a Venezia, vedere finalmente il Canal Grande, il Ponte di Rialto, San Marco… Eccola, ora, la Venezia che gli càpita; e loro senza i soldi per comprarsi gli stivali di gomma, del resto scomparsi fin dal primo sbruffo di marea. Costretti a camminare a fatica, a orari serrati, tra guadi d’acqua sporca, passerelle improvvisate, bordi di canali invisibili. Con gli occhi spalancati dallo stupore e le pesanti borse dietro, da secondo mondo.
Anche argentini e brasiliani, con stivali a strisce verdi e rosa, ripescati da fondi di bottega o da magazzini di chissà quale teatro. Americani giganteschi, con gambali spaiati, da caccia grossa, su fino alla pancia; però pagati a prezzi da capogiro. Bande di giapponesi piccolissimi con stivalini a fiori, da ragazzina. Più spesso con le scarpe in mano e le valigie che nuotano nell’acqua. Tutti in difficoltà, coi vaporetti che hanno cambiato gli orari proprio in questi giorni, gli approdi che invece di depositarli su una riva sicura, li scaricano su laghi traditori; tra noi indigeni imbestiati dalle passerelle montate in ritardo, e naturalmente preoccupati dei figli e delle nonne che aspettano. A ogni incrocio dei ponti grandi e piccoli con le strette calli del centro, le repliche degli scrosci dall’alto, dei torrenti d’acqua sui gradini, delle onde di marea in arrivo a ripetizione, contro le code compatte dei turisti in arrivo o in ritirata, mettono continuamente in scena l’altra faccia dello spettacolo veneziano: sempre spettacolo sul gran palcoscenico, ma rappresentazione di ottobre, con crescendo di paura, perdite di memoria, abbandono generale; in quel regno dell,assurdo che è sempre una città come questa, moltiplicato dagli sguardi dei giapponesi a mollo, dalle maledizioni degli slavi stralunati. Tento di dare una mano, di mostrare a qualcuno di loro che c’è solo una breve svolta da fare per uscire dall’impasse tra le calli, che lì c’è pronto il buon «cicchetto>› caldo con pochi soldi, per tirarsi su, fermarsi un momento… Loro, quasi sempre, non possono aspettare: «andiam che la via lunga ne sospigne>› _ via lunga e bagnata, con le Agenzie di viaggio che non lasciano scampo, più tremende dell’alta marea.
Ma ecco il portone del palazzo aprirsi improvvisamente, nel dedalo invaso dall’acqua: l’unica via di passaggio è per di qua, nell’isola sommersa. La gentile ragazza li fa attraversare, slavi e giapponesi in fila, lungo il giardino, la scala gotica, l’androne. Mai entrati, se non in sogno, in un palazzo così. I giapponesi naturalmente fotografano dappertutto, sùbito felici e contenti; si inchinano a ogni ombra che incontrano, anche alle dame dei quadri. Mentre le care balie slave non osano salire gli scaloni con le scarpe in mano e le grosse calze bagnate: appoggiano le borse sui gradini intarsiati, si siedono un momento e si riposano.

 

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