Giulio Busi, Città di luce. La mistica ebraica dei palazzi celesti, Einaudi, Torino, pagg. CLXXI, 237, € 75. In libreria dal 3 dicembre

Mistica ebraica. i testi parlano di adepti raccolti in meditazione, con il capo messo tra le ginocchia, che «scendevano verso l’alto» per esplorare l’inaccessibile sommità del cielo

Un velo. I libri possono scaturire da uno sguardo, da un dolore, da un rancore. Questo mio volume, in compagnia di antichi e misteriosi viaggiatori celesti, nasce dalla stoffa diafana di un drappo. È la cortina stesa davanti al trono divino, e mi vedo ancora, studente alle prime armi, mentre cerco di decifrarne la descrizione in ebraico. Le lettere emergono faticosamente dalla pagina, la mano fa la spola tra il foglio e il dizionario, le frasi mi restano dubbiose in testa. S’imprimono nella mia immaginazione, con la forza di edifici lontani, che solo intravvediamo ma già ci chiamano, ci costringono ad avvicinarci. Quarant’anni fa, la biblioteca di ebraico di Ca’ Foscari era conservata in una sala sul Canal Grande, nel palazzo un tempo appartenuto a Sir Austen Henry Layard, gran diplomatico, gran signore e scopritore di Ninive, la celeberrima capitale assira. Dopo aver scavato le rovine in Mesopotamia, durante una vita di avventure e pericoli, Layard s’era ritirato in laguna, nella Venezia decaduta e languida del tardo Ottocento. Non so se fosse solo una mia suggestione. Qualcosa, dei paesaggi assolati d’Oriente, vibrava ancora nel palazzo veneziano. Un’aria d’inquietudini, di rivolgimenti, di sfarzo e di millenari oblii, che ben s’accordava con i dorsi dorati dei libri ebraici. Mi sembrava che tutto fosse ancora da scoprire. Non nella sabbia, come aveva saputo fare quell’aristocratico d’altri tempi, ma di pagina in pagina, di frase in frase, una lettera dopo l’altra. «Sopra il trono c’è il grande fuoco, poiché la sembianza non ha nulla che provenga dalla cortina di fuoco, stesa davanti a esso. Sette servitori, prodi di forza, sono davanti e all’interno della cortina». Cos’è “la sembianza”, di che fuoco è fatta la cortina? E perché è tanto importante arrivare a vederla, cogliere con lo sguardo il suo drappeggio celeste? Mentre leggevo, le domande fioccavano come neve. Decidere, a vent’anni, d’investire tutto il proprio tempo su testi astrusi, fuori dal mondo, è una scommessa azzardata. In cambio di cosa? Me lo chiedevo allora, e continuo a domandarmelo ogni volta che incontro uno dei ragazzi che, oggi, fanno la stessa scelta. Perché tanti sacrifici e così poche sicurezze esistenziali? Solo per decifrare i sogni di qualche altro, antichissimo sognatore? E Layard, cosa l’aveva spinto a lasciare i propri agi, e una vita sicura di privilegi, per rovistare tra vecchissime macerie? Desiderio di fama, curiosità, senso di finitezza? I mistici ebrei, che tanto m’intrigavano, volevano a tutti i costi raggiungere l’invisibile. Il velo del trono era una delle loro mete privilegiate. Avevo finito di tradurre il testo. Una pagina m’era costata più di un giorno di lavoro, e non ero nemmeno sicuro d’averla compresa del tutto: «Rabbi Ishmael disse: Metatron mi ha detto: “Vieni e ti mostrerò la cortina divina, che è tirata davanti al Santo, sia egli benedetto. Vi sono incise tutte le generazioni del mondo, tutte le azioni […] sia quelle compiute sia quelle che saranno realizzate, sino alla fine». Sappiamo poco degli autori di questi scritti. È un corpus di una decina di testi, che pensiamo siano stati redatti in Terra d’Israele e in Mesopotamia, in età tardo antica, prima della conquista islamica. Le opere ci parlano di gruppi di adepti, che si raccoglievano in meditazione, ponendo la testa tra le ginocchia, e “scendevano” – così si legge in ebraico – verso l’alto, per esplorare la sommità del cielo. Lì, nascosti dal firmamento e invisibili agli occhi di chi dimora sulla terra, si aprivano sette palazzi di luce, uno più splendido dell’altro. Al centro dell’ultimo edificio, il mistico raccontava la propria visione del trono divino, e degli angeli intenti a inneggiare al Signore. Come si fa a “scendere” verso il cielo? Significa forse che, per innalzarsi, è indispensabile percorrere il cammino della propria interiorità? Ascoltare, ascoltarsi, calarsi nel pozzo del proprio cuore? Metatron, che in queste opere ha un ruolo così importante, è un angelo a cui sono affidati compiti speciali. Un tempo era un uomo, il patriarca Enoch di cui parla la Bibbia, che un giorno venne portato in cielo per volere divino e trasformato in uno sfolgorio di luce. È lui che istruisce l’adepto, e lo accompagna alla scoperta dell’ineffabile architettura celeste. Sulla pagina che avevo decifrato, rabbi Ishmael continuava il proprio racconto: «Andai e Metatron mi mostrò con le dita delle sue mani, come un padre che insegni al proprio figliolo le lettere della Torah, e vidi: ogni generazione e i suoi re; ogni generazione e i suoi prominenti; ogni generazione e i suoi capi; ogni generazione e i suoi pastori; ogni generazione e i suoi custodi; ogni generazione e i suoi oppressori; ogni generazione e i suoi tormentatori». Cominciavo a capire. Anzi, mi sembrò di comprendere di colpo quello che per lunghe ore mi era sfuggito. Solo con se stesso, intento a meditare e prodigiosamente guidato da Metatron, il mistico contempla il velo. Quello che vede è tempo divenuto spazio. Immagine dopo immagine, un volto che trapassa nell’altro, tutta la vicenda dell’umanità gli si sciorina davanti. Metatron segna a dito gli eventi, li spiega, li elenca. E lui, il visionario, senza muoversi dalla propria posizione, “vive” tutto quello che è stato, ciò che sta avvenendo in questo momento e quanto è ancora da venire, fino alla fine dei secoli. Non è una visione semplice, né indolore. E come potrebbe esserlo, semplice, per un sapiente ebreo? “Ogni generazione e i suoi oppressori; ogni generazione e i suoi tormentatori”, il testo lo dice chiaramente. Non ci sono omissioni né dimenticanze, davanti al trono superno. C’è posto per ogni dettaglio, anche per i più crudeli. Questa spazializzazione del tempo è il segreto più profondo della tradizione visionaria che prende il nome di mistica degli Hekalot, il termine ebraico per “palazzi”. Giunti al di là della barriera del visibile, una volta penetrati nel luogo più segreto della dimora celeste, è possibile cogliere, con un solo colpo d’occhio, tutto il variegato, incessante, tumultuoso fluire della vita. Non è un caso che a questa esperienza si giunga attraverso il raccoglimento. Ognuno di noi ne fa, di tanto in tanto, esperienza diretta. Sappiamo intuitivamente, ma con certezza, che in una dimensione della nostra anima i tempi si sovrappongono, i ricordi s’intrecciano con speranze e presentimenti, il rapido fiume degli eventi si allarga, rallenta, s’approfondisce. C’è una tradizione, parallela a quella ebraica, che attraversa il sufismo del IX e X secolo e giunge fino a Teresa d’Avila, nel pieno Cinquecento, in cui si parla di un “castello interiore”, dove è possibile incontrare il trascendente, percepirlo, “vederlo”. Trascendente per forza e dimensione, ma anche trascendente nella sua eternità, in quanto comprende, come una sterminata e imprendibile fortezza, ogni gioia e qualsiasi afflizione. A tanti anni di distanza da quei miei primi studi veneziani, cerco ancora di capire. Certo, la stanza più nascosta, con il suo velo delle generazioni, mi sembra ancora remota. Le parole le ho lette e rilette, e le ho ora tradotte, in una antologia, per il lettore italiano. Cosa si trova in cielo? Beninteso, non nel cielo volgare dei nostri viaggi intercontinentali. Quello che qui importa è il cielo incontaminato della sapienza primordiale. Il cielo abitato da Dio e dalla sua corte superna. Il cielo affollato di angeli, protetto da mura altissime di tizzoni accesi, a un tempo percorso da melodie dolcissime e scosso da paurosi boati. Cosa c’è da vedere, cosa c’è da sapere? Il viaggio è appena iniziato. La meta brilla lontana, ove l’orizzonte s’incurva. (Giulio Busi_Domenicale del Sole 24 Ore del 24 nov. 2019)

 

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