Nennella, dramma autobiografico di Domenico De Maria
note e ricordi

Li ho divorati, mi sono divertito, commosso, mi hanno fatto riflettere: sono i giudizi straordinariamente identici sui racconti di Domenico De Maria che mi sono stati espressi telefonicamente, talvolta telematicamente, specialmente da amici che, fin quando non avevano avuto il libro tra le mani, nulla sapevano o potevano sapere di Domenico De Maria – don Mimì, come si erano subito abituati a chiamarlo.
Nennella è molto piaciuto: direi che è il racconto più piaciuto. Questa preferenza non mi ha sorpreso: Nennella è un racconto così di un altro tempo e di un’altra civiltà, e nello stesso tempo vicino, intimo, familiare, autobiografico e drammatico e commovente, bisognoso di approfondimenti. Il lungo duetto tra Nennella e Giuliano, per esempio, potrebbe annoiare e risultare una incomprensibile stranezza, ma tutti gli amici che mi hanno telefonato mi hanno chiesto di aiutarli a capirlo e soprattutto a comprendere la sua ragion d’essere nel contesto di una storia drammatica. Di seguito, ora, riporto il risultato dell’approfondimento che ho contribuito a raggiungere.
Che Nennella sia anche per me il racconto più bello e commovente è naturale, non solo perché ricorda la tragedia che sconvolse la vita di mio suocero. La storia di Nennella io l’ho conosciuta ben prima che la leggessi e conoscessi don Mimì; l’ho conosciuta raccontata da chi l’aveva vista svolgersi e, in un certo senso, vissuta personalmente. Nelle sere di inverno ce la raccontava al focolare di casa mia o di casa sua una delle ragazze che formavano la cerchia delle amiche di Accettura di … Mimì. Erano molte e tutte belle: Maria, Rosa, Carolina, Adelina, Teresa, Michelina, e le figlie della Sanmaurese. E Nennella. Michelina, quando la mia famiglia si trasferì ad Accettura, fu nostra carissima e intima amica e, quando giunse la notizia del trasferimento di papà a Tricarico, e nel tempo non breve per organizzare il trasferimento della famiglia, ci parlava di questo avvocato di Tricarico, amico della non lontana giovinezza di entrambi. Su di lui giovanissimo – quando Michelina ce ne parlava, aveva 35 anni – si abbattè improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, una terribile e rarissima malattia: a 33 anni gli amputarono entrambe le gambe. Un famoso angiologo di Bologna mi disse che nella sua lunga carriera non gli era mai capitato un caso di quel male, né l’aveva visto; ora, quando ne parlavamo, la medicina aveva fatto grandi progressi, don Mimì non sarebbe guarito ma forse gli sarebbe stata risparmiata l’amputazione delle gambe o, almeno, gli sarebbe stata fatta una diversa protesi, come dimostra Oscar Pistorius, velocista sudafricano, campione paraolimpico; anche se a Pistorius le gambe erano state amputate da sotto i ginocchi e a don Mimì erano state amputate anche le cosce.
Michelina ci descriveva i tempi felici delle festose serate di balli e di canti e con molta ammirazione dello sfortunato amico. Era un gran bel ragazzo molto alto, assai più alto della media, aitante, biondo, con gli occhi celesti; di privilegiata condizione sociale, considerati anche i tempi e le condizioni generali (era figlio del medico condotto), intelligente e bravo negli studi, si apriva davanti a lui un radioso avvenire, che cominciò a realizzare facendo l’avvocato a Tricarico, paese del padre Giovanni e della madre Cristina Lavecchia, entrambi tricaricesi. Si laureò a 21 anni, fece il servizio militare e il corso di allievo ufficiale di artiglieria (Michelina l’aveva incontrato l’ultima volta in divisa da ufficiale, forse in divisa di gala, portava la sciabola), si sposò ed ebbe tre figli; quando nacque la terza figlia, Paola, aveva 29 anni e stava per intraprendere trattative con un importante studio legale del nord.
Era passata una manciata di anni, che si potevano contare sulle dita della mano, ma sembrava che fosse trascorso un tempo infinito. Nennella e Mimì, i due ragazzi più belli di quella spensierata e allegra compagnia, che sembravano i più baciati dalla fortuna, ebbero tragici destini. Prima Nennella, vedova a 19 anni, essendo stato ucciso il marito nell’adempimento del suo ufficio. Poi Mimì.
La mia casa si affacciava sulla Rabata e sulla Saracena – il cuore contadino di Tricarico – e oltre il convento del Carmine e le vigne e i campi della costa. Nei paesi una volta si cantava molto, si ballava molto (a casa di Nennella si ballava molto, è scritto nel relativo racconto) e si raccontava molto, riuniti al focolare familiari e amici. Saliva il suono dei canti e degli strumenti e delle voci della Rabata e della Saracena: stornelli, serenate, rampogne, canti solitari; suoni di strumenti – zampogne, ciaramelle e cornamuse, organetti, flauti; il tutto si fondeva in un suono concorde, in una suggestiva armonia. Durante le vacanze di Natale andavo a dormire tardi, dopo che il concento della Rabata e della Saracena s’era spento. L’ultima sera andavo a letto prima, perché l’indomani dovevo partire presto, con l’autobus delle sei, per tornare in collegio e proseguire la scuola. Mi prendeva una profonda e dolce malinconia, una voglia di pianto.
Pian piano – è un processo che si sviluppò nel corso di molti anni – la TV prendeva il posto d’onore nelle case e in quella casa dove era entrata la TV non si cantava, non si ballava e non si raccontava più; fin quando tutte si spensero le armonie e svanirono memorie di tradizioni popolari e familiari.
«La mia infanzia è morta, la mia giovinezza è morta, tante cose che sono state mie sono morte, e io vivo», scrive don Mimì in Nennella: una nota autobiografica che sembra un commento al Pensiero 1.6.9 di Sant’Agostino (infantia mea olim morua est et ego vivo), che è anche il proemio di Nennella.
Il lungo duetto tra Nennella e Giuliano rientra pienamente nel clima del tempo – siamo nei primi anni Venti -, la monotonia del duetto sembra un prologo del dramma cui ho accennato, e ancora prima colpirà Nennella.
Noi ci trasferimmo a Tricarico il 2 aprile 1941, il 6 giugno nacque mia sorella Anna. Mamma partorì in casa e Michelina venne spontaneamente da Accettura per dare una mano qualche giorno. Abitavamo in piazza, dalla Casina don Mimì la vide sul nostro balcone e mandò Giovanni, il figlio, a chiamarla. Io accompagnai Michelina a casa De Maria, don Mimì e Michelina parlarono a lungo dei loro ricordi: don Mimì aveva 36 anni, Michelina qualche anno meno. Ci furono offerti dolci e bevande; Paola si esibì al pianoforte, suonandolo e cantando; le aveva insegnato a suonare il pianoforte don Vittorio Lombardi. Tornati a casa, Michelina era sconvolta, aveva il viso stravolto dall’emozione: era la prima volta che vedeva don Mimì senza gambe. Come è diventato basso!, disse.
Passano dieci anni dai tempi felici. Don Mimì patisce le pene d’inferno in una stanza di ospedale. In ospedale è ricoverata anche Nennella, con problemi di stomaco, deve essere operata. Va a trovare l’amico, che soffre dolori atroci. La madre con un ventaglio gli fa vento e gli annunzia -E’ qui Nennella, Nennella di Accettura. È malata anch’essa, è qui all’ospedale, ha voluto vederti. Don Mimì è confuso, vaneggia, le chiede – Nennella, soffri anche tu come me? Anche a te fanno male le gambe? Te le taglieranno? -No, – dice Nennella – io ho male allo stomaco. Dicono che è un’ulcera ed il professore mi opererà domani. -Nennella, tu canti sempre e fai lo scantillo? -Io non canto più.
Nennella è sempre là, si piega sulla sua fronte e sente il suo alito come uno zefiro, che gli rinfresca la febbre; gli siede accanto e con un batuffoletto di ovatta inzuppata di acqua gli bagna le labbra riarse. Quanto sei buona Nennella di Accettura!… Sono i miei dieci anni di giovinezza, tutta la vita mia, bianchi nel bianco di un sudario, che camminano ancora… esitanti, soffici, leggeri e vengono a fare una visita pietosa ad un povero moribondo, che, anche se guarirà, non camminerà mai più…
Ora, qui, con la visita di Nennella muore Mimì: infantia mea mortua est ed ego vivo.
L’avvocato De Maria, don Mimì visse un’altra vita e un’altra storia, che durò vent’anni: morì infatti a 53 anni. Lasciò a Tricarico il ricordo di una fervida presenza per il paese e la provincia, di un grande oratore, di un uomo integrò, esuberante, ironico, pieno di vita e di iniziative. Amava la vita; la sua casa divenne la nostra casa, di noi amici e amiche dei figli Titina Giovanni e Paola; ci insegnava a ballare; organizzava giochi, scriveva commediole e ce le faceva recitare essendo lui il regista e il costumista.
Due storie, due vite. Mi chiedo quanto e cosa della prima sia passata nella seconda, e se un travaso sia avvenuto. Io che sono un partecipe della seconda vita posso testimoniare che non c’è travaso del dramma e che la vita che io ho visto scorrere è stata una vita ben spesa. L’abbiamo raccontata alle nostre nipoti e sue pronipoti: Anna, la piccolina, a 11 anni, ha disegnato il calessino e l’asinello del bisnonno per la quarta pagina di copertina del libro dei suoi racconti. È il seguito della storia, che così continua.

 

2 Responses to Nennella, dramma autobiografico di Domenico De Maria – note e ricordi

  1. Rachele ha detto:

    Avevo già letto Nennella,è struggente e dolce nello stesso tempo, mentre dalla sua descrizione di don Mimì viene fuori una persona veramente piena di vita, esemplare.
    Il disegno del calessino, poi, lo eterna oltremodo.
    Cordiali saluti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.