Così Liliana discese agli inferi

Il Sole 24 Ore Domenica 12 gennaio 2020, pag. 21

 

I libri del Sole 24 Ore. Giulio BUSI, La pietra nera del ricordo. Giornata della memoria. I primi vent’anni, con un contributo di Silvana Greco su Liliana Segre Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, pagg. 184, € 14,90

Raccolti gli articoli di Giulio Busi apparsi sulla «Domenica» e dedicati alla cultura ebraica e al tema della Memoria. Con un contributo di Silvana Greco sulle terribili vicende vissute dalla senatrice Segre-

 

Per poter sviluppare i propri doni, le proprie capacità, per potersi autorealizzare e così costruire un’identità individuale e sociale stabile, qualsiasi persona deve non solo godere della libertà, ma anche ottenere il pieno riconoscimento di tutte le sue facoltà di essere umano – dall’amore in famiglia all’affetto degli amici, dai diritti di cittadinanza fino alle diverse forme di solidarietà e stima sociale dalla comunità in cui vive.
Se, anziché ricevere riconoscimenti, l’individuo è sottoposto a continui misconoscimenti – dalle umiliazioni nella sfera pubblica e dalla perdita dei diritti di cittadinanza sino alle più atroci violenze corporee, psichiche, emotive e morali – la sua identità e integrità viene intaccata in modo indelebile. La sua persona non potrà che avvizzire, implodere fino a essere completamente annientata. Come ci insegna il sociologo Axel Honneth, i modelli di misconoscimento intersoggettivo sono la violenza, la privazione dei diritti e l’umiliazione.
Affronteremo qui il percorso biografico di Liliana Segre secondo questa prospettiva teorica. A partire dalla promulgazione delle leggi razziali nel 1938, la Segre fu vittima di una lunga spirale di misconoscimenti, una sorta di discesa agli inferi che, di girone in girone, la condusse nell’orrore dei campi di concentramento. Alla terribile dinamica di spoliazione dei diritti, di rottura dei legami sociali e di violenza, si contrappone, nella vicenda di questa donna straordinaria, un secondo movimento, che potremmo definire di risalita dall’abisso. Liliana Segre, infatti, dopo la liberazione dal lager, sarà capace di lottare per ricostruire la propria identità e ottenere, con molta fatica e perseveranza, i riconoscimenti di cui era stata progressivamente spogliata da antisemitismo e persecuzione.
Un primo tipo di misconoscimento, o di riconoscimento negato, è quello della perdita dei maggiori diritti di cittadinanza, che stravolge la vita quotidiana e la libertà d’azione della popolazione ebraica, all’indomani dell’introduzione delle leggi razziali, nel 1938. Quel mondo ovattato, felice, sereno e relativamente agiato, in cui Liliana vive fino agli otto anni, si dissolve d’un tratto.
La «spirale di misconoscimenti» comincia ad avvolgersi su se stessa, bruscamente e in maniera implacabile. Il colpo è durissimo, frontale. Il misconoscimento intersoggettivo prende l’avvio dal piano giuridico. A essere attaccati sono i maggiori diritti di cittadinanza – diritto alla scuola, al lavoro, alla circolazione nei luoghi pubblici, alla partecipazione alla vita politica e sociale. Gli ebrei quelli milanesi, e assieme a loro quelli di tutta Italia, diventano cittadini di serie B, esclusi dalla società civile e relegati ai margini.
Anche Liliana Segre ne deve prendere consapevolezza, quando, in una serata sul finire dell’estate, il padre le comunica che dal prossimo anno scolastico non potrà più frequentare la scuola pubblica. […]
Un ulteriore tipo di misconoscimento sono le offese, umiliazioni e svalutazioni nella sfera pubblica, che negano il valore sociale a singoli individui o a interi gruppi.
Diversa, emarginata, esclusa – così si sente Liliana. L’immagine che lo specchio della società razzista le rimanda è quella deforme, impresentabile, di chi viene stigmatizzato solo perché appartiene a una religione e a una cultura diverse dall’ambito maggioritario.
Questa esclusione, la diversità e, soprattutto, la stigmatizzazione, feriscono profondamente la sua fiducia in se stessa, come essere umano degno di attenzioni e riconoscimenti. Quel che maggiormente la mortifica è di essere additata a vista, con disprezzo, dalle altre giovani ragazzine, che fino all’anno prima erano state le sue compagne di scuola.
Per una bimba, le compagne di scuola, oltre a essere un punto di riferimento affettivo, rappresentano i primi soggetti con cui interagire, al di fuori dalla famiglia di origine. È il primo passo nel mondo esterno, oltre il nucleo familiare. I gruppi dei pari costituiscono un importante agente di socializzazione, da cui imparare nuovi valori, comportamenti, visioni del mondo. Un riferimento rilevante per la costruzione della propria identità.
Si assottiglia anche il numero degli amici, o presunti tali. Girano le spalle, non salutano più quando li si incontra per strada.
Ma più ancora che le risatine malevole delle compagne di scuola e la paura della polizia, che irrompe in casa, quello che la fa sbigottire, le risulta incomprensibile, la fa stare male, è l’indifferenza delle persone che la circondano, di tutta la società milanese, che sembra non accorgersi o fa finta di non vedere i misconoscimenti e le umilianti pratiche di esclusione di cui gli ebrei sono vittime: «All’improvviso eravamo stati gettati nella zona grigia dell’indifferenza – ricorda Liliana – una nebbia, un’ovatta che ti avvolge dapprima morbidamente per poi paralizzarti nella sua invincibile tenaglia».
Essere invisibili, non contare per nessuno, è insopportabile. Questa indifferenza purtroppo non finirà certo con la guerra, ma si protrarrà per molti decenni. La società italiana del dopoguerra esce stravolta dal conflitto – morti, città in macerie, un’economia a pezzi e una giovane democrazia tutta da costruire. Nessuno pare aver tempo per i sopravvissuti ebrei, che miracolosamente si sono salvati dalle deportazioni. Nessuno crede loro, nessuno può immaginare tanta violenza, tanti soprusi e umiliazioni. Questo muro di indifferenza del dopoguerra paralizza, deprime. Molti sopravvissuti troveranno nel suicidio l’unico modo per sottrarsi al silenzio da cui sono circondati, che li soffoca.
L’ultimo riconoscimento che rimane a Liliana è l’amore della famiglia: del padre Alberto e dei nonni Olga e Pippo e l’amore della maestra delle scuole elementari. […] I Segre proveranno a mettersi in salvo quando sarà troppo tardi. Il 7 dicembre 1943 tentano di scappare in Svizzera, una fuga rocambolesca sui monti, di notte, vestiti sommariamente. Non ce la fanno. Appena varcato il confine, quando già si pensavano in salvo, Liliana e il padre vengono fermati dalle guardie svizzere di confine, rispediti in Italia e qui arrestati.
L’ultimo baluardo del riconoscimento, quello dell’amore familiare, si dissolve come neve. Quella poca libertà di azione è finita. Il rumore dei cancelli della prigione, che si chiudono alle loro spalle, è assordante. […] I due mesi successivi, Liliana è stravolta da entrate e uscite dalle prigioni. Prima Varese, poi Como sempre da sola e, infine, San Vittore a Milano, dove rimane per quaranta giorni. Lì ritrova l’amato padre Alberto, con cui condivide una cella del quinto raggio, riservato ai prigionieri ebrei. È l’ultimo periodo della sua vita in cui potrà percepire la vicinanza del genitore, il suo calore. Da questi pochi momenti di intimità, trarrà, anche negli anni successivi, la forza per resistere alle più atroci forme di violenza. La mattina livida del 30 gennaio 1944, suona la campana: i prigionieri ebrei vengono svegliati all’alba, caricati a calci e pugni su un camion, portati alla stazione centrale. Nessun milanese ha pietà di loro, nessuno alza un dito. Dal finestrino del camion, quando imbocca via Carducci, Liliana riesce a vedere un’ultima volta la sua casa di corso Magenta.
Il camion arresta la propria corsa in via Ferrante Aporti e da lì tutti i prigionieri vengono portati al binario 21, dove, settant’anni dopo, sorgerà il Memoriale della Shoah

 

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