CARMELA BISCAGLIA
I Frati Minori in Basilicata durante il medioevo: modalità di diffusione e fondazioni

1a lezione
UNITRE – Ferrandina, 9 gennaio 2020

Introduzione
Visitando la chiesa conventuale di S. Francesco in Pietrapertosa, è possibile ammirare gli affreschi realizzati nella prima metà del Cinquecento da Giovanni Luce da Eboli. Tra essi ritroveremo la raffigurazione di uno dei tre miracoli narrati da Tommaso da Celano nel suo Trattato dei miracoli, avvenuti in Basilicata per intercessione del Santo di Assisi, a pochi decenni dalla sua morte (3 ottobre 1226): è il miracolo di Pomarico, all’epoca piccolo centro della regione amministrativa dell’Apulia, dove una mamma, invocando s. Francesco che le era apparso rassicurandola, riebbe viva l’unica figlia morta in tenera età:
Nella città di Pomarico, situata fra i monti della Puglia, un padre e una madre avevano un’unica figlia in giovane età, che amavano teneramente. E poiché non speravano altro erede in futuro, essa costituiva per loro oggetto di ogni affetto, ragione di ogni cura. Ora, ammalatasi e in pericolo di morte, padre e madre della fanciulla erano come tramortiti dal dolore. La vegliavano e l’assistevano per giorni e notti intere senza tregua, ma una mattina purtroppo la trovarono morta. Forse c’era stato da parte loro un attimo di disattenzione, per un colpo di sonno o per la stanchezza della veglia. La madre privata in tal modo della dolce figlia, e perduta insieme la speranza di un erede, sembrò morire. Si radunano parenti e vicini per il tristissimo funerale e si preparano a tumulare il corpo esanime, mentre l’infelice madre giace, oppressa da indicibili pene, e tutta presa da grandissimo strazio, non s’accorge neppure di quanto avviene. Frattanto san Francesco, accompagnato da un solo confratello, visita la madre addolorata e la consola con affabilità, dicendole: «Non piangere, giacché alla tua lucerna, ormai del tutto spenta, ecco io restituirò la luce!». Si rialzò subito la donna e, rivelando a tutti ciò che le aveva detto san Francesco, impedì che il corpo dell’estinta venisse trasportato altrove. Voltasi dunque la madre verso la fanciulla, invocando il nome del Santo, la sollevò viva e risanata. Lasciamo ad altri descrivere la meraviglia che riempì i cuori dei presenti e la gioia incredibile dei genitori.
Giovanni Luce da Eboli, a distanza di alcune centinaia di anni da questo evento, lo identificò nella sua raffigurazione pittorica con la didascalia tuttora leggibile «Quando sancto Francisco resuscitao una figliola ad Pomarico». È una testimonianza iconografica della diffusione del messaggio di s. Francesco in Basilicata, regione dove, all’interno della grande espansione dei francescani in tutta l’Europa, la storia minoritica prese avvio a metà del XIII secolo con una penetrazione dai ritmi e dalle modalità peculiari, per attestarsi entro gli anni Trenta del XIV secolo con dieci conventi dai caratteri dell’insediamento stabile e istituzionalizzato. Lungo il corso del XV secolo, il diffondersi dell’Osservanza all’interno dell’Ordine minoritico determinò pure nell’area geostorica lucana un generale consistente incremento di fondazioni, che favorì il radicarsi sempre più profondo del messaggio di s. Francesco, promosso dalle varie famiglie francescane, che durante il medioevo anche in Basilicata furono rappresentate dai Conventuali, dagli Spirituali, dalle Clarisse e dagli Osservanti, alle quali in età moderna si aggiunsero i Cappuccini e i Riformati.
Le fasi storiche dei Frati Minori in terra lucana, che trovano riscontro, tra l’altro, nelle numerose fabbriche conventuali ancor oggi elementi importanti del suo paesaggio urbano e rurale, sono connesse di per sé all’articolata ricchezza del carisma francescano, che non presuppone un progetto uniforme, ma segue la Regola per cui i frati «[…] attendano a ciò che devono desiderare sopra ogni cosa: avere lo Spirito del Signore e le sue opere […]». Scaturiscono anche dalle varie riforme succedutesi all’interno dello stesso Ordine ed incentrate fondamentalmente sul grado di osservanza della Regola, specie sul tema della povertà, mitigata da dispense papali o professata in modo radicale.
Al di là delle tante pregevoli pubblicazioni sulle vicende dei singoli conventi lucani, e in attesa di uno studio organico e solidamente documentato sulla storia del minoritismo in Basilicata dai primordi alle soppressioni, si dispone oggi, per un inquadramento generale di tali vicende, di una storiografia di matrice francescana, facente capo essenzialmente a Primaldo Coco, Gennaro Bove e Michele Antonio Bochicchio, come pure degli esiti di un convegno sul “Francescanesimo in Basilicata” e di uno studio sulle fabbriche conventuali promosso dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali.
L’ampliamento di prospettive e i nuovi orizzonti metodologici posti in atto dalle numerose ricerche di storia sociale e religiosa, condotte in Basilicata in questi ultimi decenni dagli storici della scuola di Gabriele De Rosa, hanno generato un rinnovato interesse per lo studio dell’organizzazione regolare durante l’età moderna e contemporanea ed individuato nuove piste di ricerca. Le vicende degli ordini religiosi e anche dei francescani sono state analizzate non solo e non tanto sul paradigma storico degli eventi interni alle varie famiglie e della ricostruzione delle singole fondazioni, secondo già consolidati moduli agiografici ed eruditi, quanto anche nei loro nessi con gli altri Ordini, nella loro capacità di produrre cultura, di interrelazionarsi con la società civile e religiosa, nelle fasi critiche delle soppressioni e, sempre, nel più ampio quadro politico e sociale della storia regionale e italiana come attestano, tra gli altri, i contributi specifici di Maria Antonietta Rinaldi, di Carmela Biscaglia e, per i monasteri femminili, di Anna Lisa Sannino.
Grande attenzione è stata prestata, inoltre, ad una fase importante nello sviluppo dei Frati Minori e di tutti gli Ordini religiosi, quella dell’età tridentina, che segna il momento di maggiore espansione e di più incisiva attività apostolica anche delle famiglie francescane, a cominciare da quella dei Cappuccini, che nel 1560 istituì in Basilicata la terza Provincia autonoma francescana, a poco più di trent’anni dalla nascita del nuovo movimento di riforma. Numerose sono state anche le ricerche sulle conseguenze delle soppressioni innocenziane (1652) e sull’applicazione delle leggi eversive, che nel corso del XIX secolo segnarono il tracollo dell’intera organizzazione regolare.
Gli studi di Luigi Pellegrini, nel chiarire i tempi e le dinamiche della prima penetrazione dei Frati Minori nell’Italia centro-settentrionale e nelle province del Regno, hanno aperto nuovi percorsi storiografici sulle vicende medievali dell’Ordine, riconducibili, tra l’altro, ai rapporti intessuti dai frati con la nobiltà e con le comunità locali, che nel secolo XV assursero a un ruolo di protagonismo nel promuovere conventi dell’Osservanza nelle loro città, delle cui vicende i frati furono osservatori privilegiati.
In linea con questa chiave di lettura, il saggio di Letizia Pellegini, I Frati Minori: un’eccezione da interpretare, ha sviluppato un’analisi specifica sui tempi e sulle dinamiche del primo insediarsi dei Minori in Basilicata, collocandolo nel contesto politico-istituzionale del Regno e nel più vasto quadro della penetrazione minoritica nelle comunità cittadine e della crescente influenza mendicante sulla vita politica, sociale, ecclesiale e pastorale dell’Europa del Duecento. Lo scritto sollecita, dunque, una ripresa di studi su questa fase iniziale della storia del minoritismo in terra lucana, che indirizzi l’analisi, tra l’altro, sui rapporti dei Frati Minori con le grandi famiglie feudali come i Sanseverino, che in Basilicata furono lungamente titolari delle contee di Marsico, Chiaromonte e Tricarico e, come vedremo, durante il medioevo promossero la fondazione di diversi conventi francescani.
Parimenti affronti il tema dei nessi di continuità dei Minori rispetto alle più antiche istituzioni monastiche italo-greche e benedettine, che fin dall’Alto Medioevo avevano permeato la vita sociale, religiosa e culturale dell’Italia meridionale e della Basilicata in particolare. Con la crisi di quelle antiche forme religiose che in Basilicata, terra di transito e di confluenza di varie esperienze cenobitiche, avevano rappresentato un sistema monastico territoriale particolarmente importante nell’Alto e nel Basso Medioevo, i Frati Minori, ritrovando le loro radici più profonde nella forte tradizione ascetico-mistica del monachesimo italo-greco, che permeava l’humus della terra lucana, avrebbero svolto una funzione vitale al suo interno, costituendo una cerniera tra la Chiesa e la società.

I Frati Minori in Basilicata nei secoli XIII-XV
Se si identifica l’esistenza di un convento dei Frati Minori al tempo degli esordi con la sola forma dell’insediamento stabile e dal carattere urbano e si paragonano i pochi insediamenti con tali caratteristiche, attestati in Basilicata solo a partire dai primi decenni del Trecento, alle numerose fondazioni che nel resto d’Italia si ebbero già nella prima metà del Duecento, se ne deduce che in terra lucana le fondazioni minoritiche furono rade, tarde e lente. Parimenti il raffronto non regge, applicando questo parametro interpretativo al rapporto della Basilicata con il resto del Mezzogiorno, che non ha rappresentato affatto quell’area marginale nelle dinamiche insediative dei Frati Minori, che si supponeva.
Già nel primo trentennio del secolo XIII, infatti, il Regno ha registrato fondazioni minoritiche in alcuni dei suoi centri più vitali sul piano economico-sociale e, dopo un periodo di stasi negli anni di governo di Federico II e di Manfredi, ha vissuto un ritorno e un incremento in epoca angioina, se pur con ampie diversificazioni tra le varie zone del territorio.    In simile contesto, la Basilicata, che già in età medievale era considerata una porzione territoriale autonoma e nella geografia politica del Regno pur costituiva un giustizierato e rappresentava un importante punto nevralgico ad ogni cambio di potere, viene pertanto percepita come una regione dalla lenta affermazione dei Frati Minori.
Una più attenta lettura dei pochi documenti disponibili per il secolo XIII, condotta secondo categorie più duttili, permette tuttavia di coglierne le specificità e le motivazioni ostative di tipo territoriale, così pure di comprendere la complessità del panorama entro cui i Minori affrontarono il loro primo espandersi in Basilicata, anch’esso caratterizzato dalle tre fasi individuate in tutto il territorio italiano, se pur scandite da ritmi e modalità proprie. Innanzitutto la fase dei loci, provvisori e occasionali punti di riferimento e testimonianza dei primi contatti dei frati con l’ambiente cittadino; quindi la fase dell’itineranza con una presenza non strutturata, ma con disponibilità di residenze anche urbane ad uso specifico e tendenzialmente esclusivo per i frati, se pur sempre instabili per la precarietà del titolo di insediamento.
Erano, queste, piccole dimore al di fuori dei centri abitati, non di rado romitori tra i boschi, oppure alloggi presso i castelli, dove piccolissimi gruppi di frati vivevano come cappellani alle corti dei signori feudali, o temporanee sistemazioni per quelli di passaggio per le predicazioni, secondo lo spirito del Testamento di san Francesco, per cui: «Si guardino i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini». E tenendo conto che «La regola e la vita dei frati è questa, cioè vivere in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio, e seguire la dottrina e l’esempio del Signore nostro Gesù Cristo […]».
Anche in Basilicata si registra, infine, la fase della stabilità, contrassegnata da una presenza attestata da documentazione pontificia e strutturata intra moenia con la costruzione di una chiesa e di un convento ad uso dei frati. Questa presenza istituzionalizzata, quale fase conclusiva del processo insediativo e identificativa dello stanziamento stabile e urbano, che a livello italiano si ritiene avviata nel 1226 e consolidata nel 1244, per la Basilicata è elemento acquisito, come s’è detto, solo attorno al primo trentennio del XIV secolo.
Non sempre, infatti, un insediamento instabile si trasformò in un convento ufficialmente attestato e la pratica dell’itineranza e della transitorietà durò a lungo, innanzitutto per motivi di carattere politico-istituzionale legati alla difficile dialettica tra sovrani svevi, pontefici, ordini mendicanti e signori feudali, come pure alle ripercussioni del Grande Scisma.
Va tenuto comunque in conto, che spesso le prime fondazioni erano regolate da accordi stipulati tra i ceti dirigenti o le istituzioni ecclesiastiche locali e i Frati Minori e che, solo in seguito alla proibizione a fondare conventi mendicanti, formulata da Bonifacio VIII con la bolla cum ex eo, si resero necessarie le autorizzazioni papali, che permisero a tali fondazioni di entrare per motivi giuridico-canonici nella documentazione pontificia, lasciandone traccia.
Va, inoltre, evidenziata la debolezza dei poteri cittadini, dal momento che le universitas meridionali, pur avendo affermato le loro autonomie nel periodo angioino, avrebbero conseguito però la loro matura evoluzione giuridico-istituzionale solo in quello aragonese. La marginalità, riservatezza ed osticità geografica della terra lucana, oltre che l’assenza di grandi città e di quel tessuto socio-economico ruotante attorno ad esse era, del resto, motivo di ulteriore scarsa attrattività per gli stessi frati sia in vista dell’apostolato che della fondazione di conventi di stabile durata.
È stata, inoltre, evidenziata tra le cause ostative al primo inserimento dell’Ordine minoritico in Basilicata, l’esistenza della fitta rete degli antichi insediamenti monastici italo-greci, dislocati nella parte sud-occidentale della regione, precisamente nel territorio compreso tra i fiumi Sinni e Agri, e di quella dei monasteri benedettini più uniformemente distribuiti, se pur prevalenti nella zona orientale, che nell’insieme costituivano un reticolato territoriale serrato, su cui era difficile sovrapporre o affiancare i nuovi stanziamenti minoritici.
La lunga permanenza della fase eremitoriale e dell’instabilità va letta, comunque, anche nell’ottica di quei frati che, all’interno delle dispute sulla povertà che caratterizzarono i primordi del francescanesimo, trovavano nella terra lucana il luogo fisico confacente allo stile di vita evangelico secondo l’ideale del Padre fondatore, mentre la presenza istituzionalizzata di un convento comportava, ovviamente, l’inserimento dei frati nell’organizzazione scolastica e l’allargamento delle loro funzioni nel campo ecclesiastico e pastorale.
Furono, dunque, i centri di maggior prestigio politico (si pensi al ruolo svolto da Melfi al tempo di Federico II) e relativa vitalità economica, le sedi di contee di potenti signorie feudali dalla politica filopontificia e antimperiale, che con l’avvento degli Angioini avevano riacquistato potere (esemplare è il caso di Tricarico con il ritorno dei Sanseverino) e, soprattutto, le sedi diocesane i luoghi privilegiati per la fondazione di stabili conventi nella Basilicata del Trecento. Essi costituirono la stagione adulta dell’insediamento dei Frati Minori in terra lucana, mentre i luoghi provvisori di tipologia cultuale ed eremitoriale, ne rappresentarono l’ossatura. Anche in terra lucana, dunque, si riprodussero le modalità dell’evoluzione interna all’Ordine, che aveva portato i Minori dalla prima esperienza eremitico-penitenziale a forme di sempre maggiore organizzazione strutturale ed anche al loro inserimento, fin dal XIII secolo, nei tribunali dell’inquisizione e nel governo delle diocesi.
Nell’originario assetto territoriale, entro il quale nel 1217 l’Ordine dei Frati Minori aveva creato 14 Province, suddivise in aree amministrative dette Custodie, la Basilicata, per essere regione di frontiera tra la Puglia e la Campania, ricadde in parte nella Provincia di Puglia con le Custodie di Barletta e di Matera, e in parte nella Provincia di Terra di Lavoro con la Custodia di Principato. Al loro interno le prime fondazioni francescane accertate, riconducibili all’odierna configurazione territoriale della Basilicata, furono i dieci conventi del primo trentennio del XIV secolo.
Il secolo XIII. Il primo allogare dei francescani in Basilicata fu, dunque, provvisorio e occasionale, connesso all’attività apostolica itinerante dei frati, alle esperienze eremitiche e alla vicenda degli Spirituali. La prima predicazione minoritica e la vita esemplare di alcuni frati eremiti penetrò tanto profondamente tra le popolazioni lucane, da influire sulla creazione di una “memoria cultuale” legata a s. Francesco, se a pochi decenni dalla sua morte, in piena età federiciana, la “presenza spirituale” del santo si era tradotta in una diffusa e intensa devozione popolare e alla sua intercessione si attribuivano miracoli. Una fonte in tal senso è il Trattato dei miracoli, in cui Tommaso da Celano riporta, anche per la Basilicata, eventi miracolosi avvenuti prima del 1252-1253, a cominciare da quello già ricordato di Pomarico.
Racconta poi quello avvenuto a Potenza, dove il chierico Ruggero, canonico della cattedrale, «straziato da lunga infermità», mentre pregava per la sua salute davanti all’immagine di s. Francesco dipinta in una chiesa della città, dubitò delle stimmate del santo, quasi fossero una pia invenzione dei frati. Nel mentre, venne trafitto ad una mano come da una freccia sibilante scoccata da una balestra e fu preda per due giorni di un acutissimo dolore, da cui guarì dopo essersi ravveduto dell’errore commesso. Egli sottoscrisse la veridicità del miracolo con un giuramento controfirmato dal vescovo locale e saldò quindi una perenne amicizia con i frati dell’Ordine.
Un terzo miracolo riguarda una donna, che viveva «nelle parti delle Puglie» e «da tempo aveva perduto l’uso della lingua e non aveva più il respiro libero»; su suggerimento della Vergine apparsale in sogno, ella andò in pellegrinaggio a pregare nella chiesa di s. Francesco sita presso Venosa e recuperò la parola.
Queste narrazioni testimoniano, dunque, che a metà del Duecento la devozione al Santo di Assisi era diffusa nelle tre cittadine, se pur con qualche resistenza, come quella serpeggiante all’interno del clero potentino. Ci dicono, inoltre, che in una chiesa di Potenza era dipinta un’effigie del Santo, alla quale – così come fa intendere Tommaso da Celano – faceva capo un gruppo di frati minori, a cui il chierico Ruggero rimase poi legato; ed infine, che solo a Venosa esisteva una chiesa dedicata a s. Francesco.
Una seconda fonte, che fornisce ulteriori elementi sulle vicende del primo minoritismo lucano, è il Dialogus de gestis sanctorum Fratrum Minorum, attribuito a Tommaso da Pavia e databile alla metà del XIII secolo. Riporta notizie agiografiche su frate Gismondo, o Gismondo da Melfi, vissuto in eremitaggio in un luogo deserto detto “silva de Melfia”, dove morì († 1241) e dove in grande umiltà fu inizialmente sepolto dai frati, per trovare poi definitiva tumulazione nella chiesa del monastero di Santo Stefano de Ripa. Morto in odore di santità, frate Gismondo sarebbe più volte apparso in sogno ad una donna, intimandole di rivolgersi al monaco Tristagno, affinchè trasferisse il suo corpo dalla selva in un luogo più dignitoso e adeguato, altrimenti quegli sarebbe stato punito per il peccato di spergiuro, di cui si era macchiato e del quale dichiara le circostanze. Il monaco, riconosciuto il peccato e pentitosi pubblicamente, testimoniò a tutti la santità di Gismondo. I frati, dunque, sollecitati dagli eventi e dalla richiesta del monaco Tristagno, che in cambio di danaro avrebbe voluto trasferire la salma in luogo più degno, e discutevano circa la possibilità che fossero loro a traslare il corpo e a seppellirlo davanti all’altare della loro chiesa, vennero però costretti da nuove circostanze miracolose e dalla stessa pressione della popolazione a cedere la salma ai monaci, che lo deposero nella chiesa del loro monastero.
Da questa narrazione si evince che a metà Duecento esisteva nei boschi del territorio di Melfi una comunità minoritica, che aveva una chiesa e un convento, ma che la stessa presentava i caratteri di uno stanziamento precario e non ben radicato, se alla fine il corpo del santo frate non venne sepolto nella loro chiesa, bensì in quella del monastero di Santo Stefano de Ripa, peraltro non identificato. La debolezza dei frati, che emerge di fronte alle pressioni e al protagonismo della popolazione, è tale per cui essi non riescono a gestire la questione della sepoltura e, quindi, del culto di un frate morto in odore di santità, che in quegli anni, in altre parti d’Italia, avrebbe aperto la strada all’insediamento urbano dei Minori. I loro antagonisti, inoltre, sono gli stessi abitanti della città, che riconoscono la santità del minorita, ma per il suo culto ritengono che la consolidata istituzione monastica di Santo Stefano de Ripa (pur sempre extraurbana) offra maggiori garanzie della comunità minoritica ancora in bilico per il carattere dello stanziamento eremitico. Solo per il 1373 è documentata l’esistenza, all’interno della città di Melfi, di una chiesa dedicata a s. Francesco con annesso convento minoritico.
In questo contesto s’inserisce anche la vicenda di frate Benvenuto da Gubbio, che in qualche modo coinvolge ancora il Vulture. Ricevuto nell’Ordine dallo stesso s. Francesco nel 1222, il frate muore nel 1232 in odore di santità presso il convento di Corneto, un centro pugliese all’epoca emergente (oggi scomparso), che sorgeva presso Ascoli Satriano lungo la strada che, passando da Melfi, portava a Foggia. Sollecitato dal popolo e dal clero di Corneto, Gregorio IX con la bolla Mirabilis Deus (22 aprile 1236) apriva un’indagine formale sulla vita e sui miracoli del frate, da effettuarsi nella stessa cittadina e ne incaricava i vescovi di Molfetta, di Melfi e di Venosa. Il convento di Corneto apparteneva alla Provincia minoritica di Sant’Angelo e alla Custodia di Capitanata, mentre i vescovi provenivano da tre diocesi con conventi di frati minori afferenti la Provincia minoritica di Puglia e le Custodie di Bari per Molfetta e di Barletta per Melfi e Venosa. Eppure, la sepoltura di frate Benvenuto, che pur rappresentava un polo di attrazione agiografica di emanazione minoritica al confine della Basilicata, non avviene nella chiesa dei Minori di Corneto. Invano i frati avevano tentato di evitare la sottrazione del corpo da parte degli abitanti della città, che ritennero invece più degno il suo seppellimento nella chiesa cittadina di S. Pietro.
Le difficoltà incontrate dai Frati Minori a fondare conventi stabili e strutturati nella Basilicata dell’epoca federiciana ed anche nei successivi anni di regno di Manfredi per il clima conflittuale tra pontefice, sovrano, ordini mendicanti e poteri politici locali, si avviarono al superamento all’inizio degli anni Settanta del XIII secolo, cioè sotto il regno di Carlo I d’Angiò. Questo sovrano, ricondotte all’obbedienza monarchica con l’intervento militare di Ruggero Sanseverino le città ribelli del Vulture e del Potentino, dove più radicata era la feudalità filosveva, attuò una diversa politica nei confronti delle istituzioni conventuali e manifestò una rinnovata attenzione cultuale al Santo di Assisi.
Se ne rinviene una traccia nell’atto notarile che suggella il miracolo avvenuto a Potenza nel 1274, allorquando vennero trovati in vita due operai che, lavorando per conto dei frati minori del locale convento nella costruzione della “nuova” chiesa di S. Francesco, erano stati sepolti da gran quantità di terra e pietre caduta sul fosso scavato per le fondamenta dell’edificio. Gran folla di gente, giuntavi con animo furibondo, aveva infierito contro i frati, minacciando di non sostenere più tale costruzione per loro che, tra l’altro, avevano già altri edifici nella città. Mentre i frati – racconta la fonte – presi da sensi di colpa, pregavano s. Francesco di sollevarli dall’incresciosa situazione, tal Domenico, un operaio molto vicino agli stessi frati, recuperò i malcapitati che giacevano da oltre due ore sotto le macerie e li rinvenne miracolosamente vivi. L’episodio attesta, dunque, un rinnovato interesse cultuale verso s. Francesco e, ancora una volta, il protagonismo critico delle popolazioni cittadine nei riguardi dell’Ordine minoritico, che stava penetrando capillarmente il tessuto della città con fabbriche nuove, che si aggiungevano a quelle di più antica data. Attesta, inoltre, il fervore edilizio che caratterizzò la città dopo il disastroso terremoto del 1273, che aveva colpito tutta la Basilicata e con particolare violenza Potenza, come pure la ripresa del tessuto socio-economico della città dopo la depressione conseguente anche agli eventi bellici, che avevano segnato il passaggio dal potere imperiale di Manfredi a quello regio degli Angioini.
Il secolo XIV. L’inizio del Trecento segna una fase di consolidamento del movimento insediativo dei Francescani in Basilicata, pur in uno scenario regionale caratterizzato da un drastico calo demografico, veridicatosi tra il 1294 e il 1342 per una serie di cause incidenti. Il giustizierato di Basilicata fu, infatti, vittima di una crisi di lungo periodo, durante la quale scomparvero numerosi centri rurali, molti dei quali sorti attorno agli antichi monasteri. La popolazione, concentrata in pochi centri all’interno di un territorio dominato da un’accentuata rarefazione abitativa, viveva di stenti, pressata da una feudalità sempre più arrogante e pretenziosa, che lasciava poco spazio decisionale alle comunità cittadine, mentre il particolarismo feudale manteneva la regione in uno stato di guerra permanente e di disordine. La storia della Basilicata angioina non fu, dunque, scandita tanto dai ritmi delle vicende cittadine a causa dell’endemica debolezza delle strutture politiche ed economiche urbane, quanto dalle iniziative delle grandi famiglie feudali, prima fra tutte quella dei Sanseverino, che dominavano vaste aree regionali.
È documentata nel 1301 la costruzione del convento minoritico di Montepeloso (Irsina), anche se non è chiaro se si trattò di una struttura ex novo, di un ampliamento o della riparazione di una fabbrica preesistente. Certamente la presenza dei Minori nella città non era recente. Risale al 1314 la fondazione dell’unico convento minoritico trecentesco lucano dai caratteri di vera stabilità, attestato cioè da un atto pontificio. È il convento di Tricarico, per il quale Clemente V, su richiesta di Tommaso Sanseverino, conte di Marsico, e di sua moglie Sveva, che lamentavano l’assenza di alcun Ordine mendicante in quella città e gli manifestavano il desiderio di costruirvi un alloggio o alcune case («locum seu domos») per i frati dell’Ordine dei Minori, concesse loro la licenza speciale in deroga alla proibizione di Bonifacio VIII, di costruire un convento in detta città, che costituisse una dimora stabile per i frati (Lettera Sincere devotionis, Montiliis, Carpentoriatensis diocesi, 1314, gennaio 10). Di lì a poco Giovanni XXII, su petizione dello stesso Tommaso Sanseverino, conte di Marsico, e di Margherita contessa di Chiaromonte, rilasciava a quest’ultima la facoltà di costruire una dimora («unum locum») ad uso dei Frati Minori nella città di Senise in diocesi di Anglona, precisamente nel punto in cui suo fratello Ugo, conte di Chiaromonte, era stato ucciso (Avignone, 1319, marzo 19). Lo stesso pontefice avrebbe, quindi, concesso delle indulgenze a chiunque, nei giorni dedicati alla Beata Vergine e ai santi Pietro, Paolo e Chiara, avesse visitato la chiesa, posta sotto il titolo dei santi Pietro e Paolo, del monastero dell’Ordine di S. Chiara in Tricarico, che era stato edificato e dotato da Sveva contessa di Tricarico. La costruzione di tale monastero, come si leggeva nei Registri della regina di Napoli Giovanna I, era stata iniziata dal re Roberto d’Angiò, che lo aveva dotato della metà del casale di Gallipoli in Basilicata, e completata poi dalla predetta contessa di Tricarico. Siamo, dunque, di fronte a fondazioni approvate da atti della Curia avignonese, su richeste di esponenti della casata dei Sanseverino, che per la loro politica antisveva erano stati duramente colpiti da Federico II e ritornati poi nei loro poteri con l’avvento degli Angioini e – va rilevato – della contessa Sveva, che proveniva dalla famiglia franco-cipriota dei de Bethsan e discendeva da una creatura federiciana qual era stato Americo de Bethsan.
Allo stesso Trecento è ascrivibile, inoltre, l’esistenza di altri due monasteri di Clarisse nell’area nord e nord-orientale della Basilicata, entrambi attigui a luoghi minoritici: il monastero di S. Chiara in Genzano (ante 1324), per il quale la principessa Aquilina Sancia aveva messo a disposizione il suo castello, e il monastero di S. Francesco d’Assisi in Atella, eretto nel 1358 su licenza di Innocenzo VI e per munificenza della locale nobiltà. Anche a Potenza è documentata per il medioevo una presenza di clarisse con il monastero di S. Lucia (o S. Luca), già dell’Ordine cistercense. L’8 settembre 1466 Paolo II acconsentì, infatti, a trasformare in un cenobio di clarisse il monastero cistercense femminile della città, che per molteplici ragioni tra cui la condotta non esemplare di alcune suore, si era ormai ridotto ad una sola religiosa, e approvò la proposta del vicario potentino di inviare presso quel monastero le suore Sveva e Genefra del monastero di S. Chiara di Tricarico, perché con la loro vita edificante e il permesso dei loro superiori contribuissero a riformarlo.
Nel primo trentennio del XIV secolo, comunque, i dati sulla situazione insediativa minoritica in Basilicata, riportati da frate Paolino da Venezia (†1334) nel suo Provinciale Ordinis Fratrum Minorum vetustissimum secundum codicem vaticanum nr. 1960, attestano l’esistenza in Basilicata di 10 sedi conventuali: Potenza, Muro (Muro Lucano), Saponara (Grumento Nova), Santa Maria (eremo di Santa Maria dell’Aspro presso Marsico) e Marsico, rientranti nella Custodia di Principato della Provincia di Terra di Lavoro; di Venosa e Melfi afferenti alla Custodia di Barletta (che comprendeva anche i conventi di Barletta, Andria e Canosa) e di Matera, Tricarico e Montepeloso (oggi Irsina) pertinenti alla Custodia di Matera (che comprendeva anche Matera e Gravina), custodie entrambe appartenenti alla Provincia di Puglia. Questa situazione insediativa rimase invariata per tutto il XIV secolo, così come globalmente confermata da Bartolomeo da Pisa nel De confirmitate, una summa storico-teologica composta negli anni 1385-1390, che però omette Potenza (comunque testimoniata da altre fonti); Matera – va rilevato – si configurava come l’unico centro lucano assurto a custodia minoritica, già documentata per il 1260 e, per di più, con un’estensione territoriale non trascurabile.
Gli Spirituali. Nel corso del Trecento i francescani si attestarono in Basilicata anche attraverso il movimento degli Spirituali, rappresentato in quest’area geostorica da due illustri figure in vario modo protette da Roberto d’Angiò e da sua moglie Sancia, sovrani fortemente interessati a salvaguardare l’Ordine dei Minori attraverso forti legami con tutte le componenti e le manifestazioni dell’appartenenza minoritica in quel periodo. Si tratta del frate minore Pietro Scarrier, legato agli ambienti degli spirituali di Provenza, confessore e familiare della regina, che il 15 gennaio 1308 venne nominato vescovo di Rapolla, oggi centro in provincia di Potenza; e del marchigiano Angelo Clareno, principale esponente assieme ad Ubertino da Casale dello spiritualismo francescano diffuso in Italia fra XIII e XIV secolo, e parimenti protetto dagli stessi sovrani nella sua condizione di rifugiato in terra lucana.
Egli, infatti, nel 1334, in seguito ad un inasprimento delle posizione del pontefice contro gli spirituali, dopo aver lasciato l’abbazia di Subiaco, dove era vissuto sottoposto all’obbedienza dell’abbate, per sfuggire alle maglie dell’inquisizione che lo riteneva un eretico, grazie all’amicizia di Filippo di Maiorca e all’assistenza che la corte della regina Sancia assicurava agli spirituali provenzali e catalani, raggiunse la Basilicata, precisamente l’alta valle dell’Agri, dove alcuni spirituali facevano capo ai romitori di San Michele in territorio di Saponara (Grumento Nova) e di Santa Maria dell’Aspro, una località presso Marsico. Erano gruppi di “pauperes eremitae”, o “fratres de paupere vita”, condannati da Bonifacio VIII e perseguitati come scismatici dall’autorità ecclesiastica, che vedeva in loro un pericolo per l’Ordine dei Frati Minori e per l’obbedienza allo stesso pontefice. Pauperisti in senso stretto, anche in queste stazioni eremitiche lucane essi vivevano la loro esperienza di silenzio e di solitudine, difendendo l’osservanza della Regola ad litteram e sine glossa, nell’attesa escatologica di tempi nuovi per la Chiesa di Roma e per tutti gli Ordini religiosi, e contrapponendosi ai “fratres communes” (conventuali), giudicati non più fedeli alla forma di vita proposta e vissuta da san Francesco.
Fu proprio nell’eremo di Santa Maria dell’Aspro, che Paolino da Venezia ha inserito tra le sedi ufficiali dell’Ordine dei Minori, che Angelo Clareno, maestro di spiritualità e guida riconosciuta degli spirituali d’Italia, il 15 giugno 1337 morì in fama di santità, chiudendo anzianissimo la sua esistenza tormentata. Nulla si sa del viaggio lungo e disagevole che lo aveva condotto in terra lucana, ma è sintomatico che il Clareno si fermò proprio in quel contado di Marsico, di cui erano titolari i potenti Sanseverino, conti dalla politica filoangioina.
Le fonti pervenuteci sul periodo lucano del Clareno sono molto limitate, ma alcuni elementi conoscitivi si rinvengono dall’analisi dei Miracula, raccolti con molta probabilità da Filippo di Majorca, uno dei figli di Giacomo II di Maiorca, che aveva aderito all’ideale ascetico di Angelo Clareno, frequentandolo intensamente. La solitudine del Clareno era “mitigata” da discrete visite di gente del luogo e da più o meno frequenti visite di frati, che spesso si trattenevano a lungo con lui. Egli viveva attorniato da alcuni frati a lui fedelissimi, che lo assistevano nelle sue necessità e nelle sue malattie, tra cui frate Nicola di Calabria, «socius suus», che lo aveva accompagnato nel viaggio verso la Basilicata, e lo stesso Filippo di Majorca, che pare ne condividesse la dimora con una certa continuità. Si ha testimonianza, inoltre, di come il Clareno dal suo eremo di Santa Maria rappresentasse un autorevole punto di riferimento per religiosi di varie province del Regno e di diversa appartenenza regolare o aderenza a varie forme di vita religiosa. I Miracula ricordano, infatti, il predetto frate Nicola da Calabria, tal frate Francesco di Saponara, «qui moratur in ecclesia Sancti Nicholai solitarius»; frate Tommaso, «pauper Christi fraticellus», che viveva «in Calabrie partibus» e, avendo saputo che il Clareno era giunto in Basilicata, si era incamminato verso il suo eremo, raggiungendolo, purtroppo, quando era ormai morto.
Durante la sua permanenza in terra lucana, Angelo Clareno mantenne, inoltre, rapporti con i Celestini, congregazione fondata, com’è noto, da Pietro da Morrone (Celestino V) e di cui nel 1317 egli aveva fatto parte. I Celestini avevano una comunità a Marsico – come si legge nei Miracula – e il loro priore, frate Tommaso Anglico, nutriva grande devozione verso il Clareno, per cui non solo lo visitò da vivo nell’eremo di Santa Maria dell’Aspro e poi si recò a pregare sulla sua tomba, ma compose pure delle antifone e un’orazione in suo onore. La continua frequentazione del Clareno con i Celestini di Marsico è attestata, inoltre, dalla circostanza per cui la maggior parte dei miracoli a lui attribuiti in vita hanno come protagonisti proprio i monaci morronesi, oltre che i frati minori, e riguardano le loro necessità spirituali. Sappiamo ancora, che negli eremi lucani della val d’Agri il Clareno continuò la sua attività di traduttore dal greco, secondo la testimonianza di un frate campano, che lo aveva visitato mentre dimorava nel romitorio di San Michele, cioè frate Petruccio di Rocca Montis Draconis.
Angelo Clareno, figura centrale ed emblematica delle vicende che sconvolsero l’Ordine tra il Due e Trecento con ripercussioni anche in terra lucana, lasciò una scia di miracolati soprattutto post mortem. Era in prevalenza gente umile e semplice, che abitava in centri limitrofi al suo eremo, come le “terre” di Marsico Novo (Marsico Nuovo, Pz), Marsico Vetere (Marsicovetere, Pz), Saponara, “Sarturni” [Sarconi?] ed anche nel castrum lucano di Montis Murri (Montemurro, Pz) e in quello molisano di Voyani o Boyani (fortezza demaniale di epoca federiciana, sita in territorio di Boiano in provincia di Campobasso) e che, grazie alla sua intercessione, era stata guarita da “fistule” e da ulcere, da possessioni del maligno, da cecità, da tumori alla gola e agli arti, da febbri e dolori persistenti.
Nel contado di Chiaromonte, sito nella media valle del Sinni e sottoposto anch’esso alla signoria feudale dei Sanseverino, durante il primo ventennio del Trecento era, inoltre, vissuto un anacoreta originario di Tolosa, Giovanni da Caramola (†1338) che, dopo sette anni trascorsi in preghiera sul monte Caramola, era entrato come converso nel monastero cistercense di S. Maria del Sagittario, che sorgeva in quella zona. La sua sepoltura, avvenuta in una cappella a lui dedicata, era poi diventata oggetto di grande venerazione. A lui si era rivolta la contessa Margherita di Chiaromonte, che «per annos & annos fuerat sterilis», ma per sua intercessione era riuscita a dare un erede a Giacomo Sanseverino, conte di Marsico e di Tricarico e figlio di Tommaso II e di Sveva de Bethsan, sposato nel 1319 per permettere l’unificazione delle tre contee.
I vescovi minoriti. Fattore di non trascurabile rilievo nelle vicende minoritiche della Basilicata dei secoli XIII-XV è la nomina di vescovi provenienti dalle fila degli Ordini mendicanti ed in particolare da quelle dei Frati Minori. Essi s’inserirono all’interno degli assetti diocesani così come si erano configurati nel XIII secolo sulla scorta della riorganizzazione ecclesiastica voluta dai Normanni nell’XI secolo, innanzitutto con la fondazione delle nuove diocesi di Melfi, Rapolla, Lavello, Muro (Muro Lucano) e Satriano, al fine di rafforzare le istituzioni della Chiesa latina nella zona del Vulture-Melfese, che con la dinastia normanna e la creazione della capitale a Melfi era diventata un’area di particolare rilievo politico-culturale, mantenuto anche nel periodo successivo. In conseguenza, poi, dell’alleanza stipulata dai Normanni con il papato dopo il giuramento di Melfi del 1059, volta al consolidamento della conquista normanna dell’Italia meridionale, le sedi vescovili, ove possibile, dovevano coincidere con le contee, che costituivano i nuovi centri del potere amministrativo normanno. Ragion per cui, mantenute le diocesi dell’intelaiatura ecclesiastica tardoantica di Venosa, Potenza, Acerenza, – quest’ultima diventata a sua volta metropolitica con cinque sedi suffraganee (Venosa, Gravina, Tricarico, Tursi e Potenza) – e Grumentum, il cui titolo veniva però traslato a Marsico (Marsico Nuovo), e conservate anche quelle altomedievali di Tricarico e di Tursi (sede quest’ultima poi spostata ad Anglona), entrambe risalenti alla facoltà concessa nel 968 al vescovo metropolitico di Otranto di eleggere vescovi greci, e aggiuntasi infine Matera, elevata a sede arcivescovile da Innocenzo III con la bolla del 7 maggio 1203 ed unita aeque principaliter con la sede acheruntina, l’assetto diocesano lucano del XIII secolo comprendeva Melfi, Rapolla, Lavello, Muro, Satriano, Venosa, Potenza, Acerenza e Matera, Marsico, Anglona, Tricarico. È all’interno di questa geografia ecclesiastica, rimasta globalmente stabile fino al termine del medioevo, che i Frati Minori penetrarono gradualmente nella società fino alla fondazione dei già segnalati loro dieci stabili conventi del 1334, e s’inserirono anche nel governo delle diocesi.
Risale alla fase iniziale del regno di Manfredi la nomina dei primi vescovi provenienti dalle fila degli Ordini mendicanti, avvenuta all’interno dei provvedimenti assunti da Innocenzo IV in funzione antisveva. In quel contesto si colloca la vicenda del primo presule minorita di una diocesi lucana, frate Deodato da Squillace, che testimonia il clima dei violenti contrasti che, anche dopo la morte di Federico II, continuavano a caratterizzare i rapporti tra papato, episcopati meridionali, capitoli delle chiese locali, ordini religiosi e feudalità. Professore dell’Ordine dei Frati Minori, frate Deodato da Squillace il 19 dicembre 1253 fu designato vescovo eletto della chiesa di Anglona per le mani di frate Enrico, vescovo eletto di Bari, che agiva con l’autorità concessagli da Innocenzo IV. Il pontefice intendeva così porre fine a un periodo difficile dell’episcopato anglonense, rimasto vacante e afflitto da decadenza morale, contrasti istituzionali e tormentati rapporti con due comunità cenobitiche esistenti nel territorio diocesano, quella dei monaci italo-greci di Carbone e l’altra dei Cistercensi di S. Maria del Sagittario. Si proponeva, altresì, di dare un segnale forte del mutato indirizzo della politica pontificia per cui, rotti i rapporti tra papato e impero, le attenzioni della Curia romana si rivolgevano ormai decisamente ai Predicatori e ai Minori, dalle cui fila era scaturita l’elezione di Deodato da Squillace dell’Ordine dei Frati Minori e figura popolare nella bassa valle dell’Agri, ma anche quella del predetto vescovo di Bari, frate Enrico Filangieri dell’Ordine dei Predicatori, avvenuta il 27 aprile 1252.
La designazione fu fortemente avversata dalla chiesa di Anglona, per cui già nel gennaio 1254 Innocenzo IV, nel confermare l’elezione vescovile di frate Deodato, si rivolgeva per due volte al capitolo anglonense, ordinandogli di accogliere devotamente l’eletto come padre e pastore della diocesi e di prestargli la dovuta riverenza ed obbedienza, tenendo conto dei suoi ammonimenti e delle sue disposizioni, altrimenti avrebbe dato immediata ratifica alle sentenze che lo stesso frate Deodato avrebbe emesso contro i ribelli, seguendone poi l’esecuzione fino alla completa loro osservanza. A distanza di un anno, una nuova bolla emanata sotto il pontificato di Alessandro IV, nel ribadire la regolarità della proceduta di elezione e consacrazione del vescovo Deodato, che nello spirito francescano l’aveva accettata quale ministero di servizio alla Chiesa, ne raccomandò nuovamente l’accettazione allo stesso capitolo. Il vescovo Deodato non si sarebbe mai insediato nella diocesi di Anglona. «Vir doctus, & in rebus agendis peritus», gradito al signore della città di Anglona, il nobile Giovanni de Montefusculo, da cui dobbiamo supporre fosse stato in precedenza ospitato, se le bolle ricordano il frate come appartenente ai Minori di Anglona, fu dunque uno dei pochissimi minoriti a ricoprire questa dignità nella gerarchia ecclesiastica degli anni seguenti il primo concilio di Lione (1245) e la circostanza si veste di eccezionalità se si considera che, solo al tempo del secondo concilio di Lione (1274) il numero dei frati elevati alla dignità episcopale avrebbe superato di poco la trentina, per raggiungere la consistenza di 55 all’epoca del concilio di Vienne (1311-1312).
A frate Deodato da Squillace, che per tutto il medioevo sarebbe stato l’unico vescovo minorita della storia diocesana di Anglona, seguirono in Basilicata quelli del periodo angioino-provenzale, particolarmente concentrati a Melfi, Rapolla e Tricarico, città, quest’ultima, che i Normanni avevano elevato a dignità di contea, affidandone la titolarità ai Sanseverino conti di Tricarico e rafforzandone il ruolo politico e strategico, che avrebbe mantenuto per tutto il medioevo. Tra i più antichi pastori minoriti della terra lucana si annoverano frate Sinibaldo, vescovo di Melfi (1280-[†1295]), che fu inquisitore degli eretici; frate Leonardo Aragall della Provincia minoritica di Genova, nominato vescovo di Tricarico da Martino IV il 5 giugno 1284 e traslato poi nel 1301 da Bonifacio VIII alla chiesa di Oristano; ed infine il già citato frate Pietro Scarrier, che Clemente V il 15 gennaio 1308 designò vescovo eletto della sede vescovile di Rapolla, che resse fino alla morte ([†1316]).
Con loro ebbe inizio la serie dei pastori dell’Ordine dei Frati Minori, che guidarono le diocesi lucane nei secoli XIII-XV. Essi provenivano dal Veneto, dalla Liguria, dalla Toscana, dall’Umbria, dal Lazio, dalla Puglia e dalla Campania: erano generalmente figure note nell’Ordine per la loro scienza e abilità di governo, pur essendo ancora poco approfondita l’incidenza del loro operato in terra lucana.
In particolare, durante il regno degli Angiò-Provenza vanno ricordati i seguenti vescovi minoriti: per Melfi, diocesi immediate subiecta, a frate Sinibaldo occorre aggiungere frate Monaldo de’ Monaldi di Perugia (1326-[†1331]), maestro di teologia; per Satriano, all’epoca diocesi suffraganea della chiesa metropolitica di Conza (soppressa nel 1818), si ebbe un vescovo minorita con frate Francesco da Spoleto (2 dicembre 1332); per Muro (Muro Lucano), anch’essa diocesi suffraganea di Conza, si ricorda frate Nicola (1340-1344), trasferito poi alla chiesa di Caserta, ed unico esponente dei Frati Minori a reggere questa sede vescovile in tutto il medioevo. Anche per Rapolla, diocesi immediate subiecta, i vescovi provenienti da quest’Ordine sono tutti concentrati nel periodo angioino-provenzale e corrispondono al citato frate Pietro Scarrier, poi a frate Nicola da Grottaminarda (Avellino) (1348-[†1371]), alla cui morte successe frate Benedetto Cavalcanti (1371-[†1375]), maestro di teologia e ministro provinciale della Tuscia, nonché esponente di un’illustre casata fiorentina.
I frati minori, che hanno retto altre sedi vescovili lucane, si sono avvicendati tra il regno degli Angiò-Provenza e quello degli Angiò-Durazzo, come nel caso della diocesi di Potenza, suffraganea di Acerenza, retta nel periodo angioino-provenzale da frate Guglielmo della Torre di Adria (Rovigo), nominato vescovo da Clemente VI il 16 giugno 1343, e in quello angioino-durazzesco da frate Benedetto de Arpino, designato vescovo da Bonifacio IX l’11 agosto 1399, traslato poi nel 1402 alla diocesi metropolita di Lepanto in Grecia, e il 26 novembre 1404 da Innocenzo VII riassegnato a Potenza. Parimenti dicasi per Tricarico, anch’essa diocesi suffraganea di Acerenza, che dopo frate Leonardo Aragall, ebbe nuovamente un vescovo minorita sul finire del periodo angioino-provenzale nella persona di frate Giovanni de Gallinario, su nomina di Clemente VII del 2 luglio 1382 e solo in quello aragonese ne avrebbe avuto un altro con frate Lorenzo di Napoli (1447-†1448).
La chiesa di Marsico (Marsico Nuovo), suffraganea della metropolia di Salerno, infine, ebbe durante il medioevo il maggior numero di vescovi minoriti, distribuiti sia nel periodo angioino-provenzale con frate Tommaso Sferrato, nominato da Gregorio XI il 29 gennaio 1378, sia in quello angioino-durazzesco con frate Nardello (Leonardo) da Gaeta (1400-†1440), che sotto il regno degli Aragonesi con frate Giovanni Antonio Pitito da Saponara (1478-†1483) e il fiorentino frate Antonio de Medicis (1484-†[1485]), che fu maestro di teologia.
Due furono i vescovi di provenienza minoritica, che nel periodo angioino-durazzesco ressero in modo consecutivo la chiesa metropolitica di Acerenza e Matera: si trattò di frate Pietro Giovanni de Paludibus ([post 1393]), traslato poi nel 1395 alla diocesi di Corinto e di frate Stefano Goberno, già vescovo di Corinto, nominato alla sede arcivescovile di Acerenza il 15 marzo 1395 da Bonifacio IX. La diocesi di Lavello, suffraganea di Bari (soppressa nel 1818), solamente nel XV secolo ebbe due pastori minoriti nelle figure di frate Michele Angelo de Nerulis di Civita Castellana (Viterbo), nominato l’8 gennaio 1438 e di frate Pietro Pallagario (Palagario) (1482-1487), maestro di teologia originario di Trani, che durante il regno degli Aragonesi fu dotto umanista e rinomato predicatore di [Ercole d’Este], duca di Ferrara.
Concludendo, dunque, ad eccezione della diocesi di Venosa, suffraganea di Acerenza, che lungo tutto il medioevo non ebbe alcuna presenza vescovile proveniente dall’Ordine dei Frati Minori e solo il 18 febbraio 1587 sarebbe stata retta da un esponente dell’Ordine dei Minori Conventuali nella persona di frate Pietro Ridolfi di Tossignano (Borgo Tossignano, Bologna), come pure di Anglona che ha avuto, come s’è detto, un solo pastore minorita nell’età sveva, tutte le altre diocesi lucane hanno, invece, presentato vescovi minoriti per tutto il periodo angioino, a cominciare dal 1280. In alcune chiese diocesane, in particolare, la loro presenza è stata limitata ad un solo vescovo, come nel caso di Satriano e di Muro; in altre è stata più numerosa e tutta concentrata nel periodo angioino-provenzale, come per la diocesi di Rapolla, oppure in quello angioino-durazzesco così com’è documentato per Acerenza e Matera; in altre ancora si è protratta dal periodo angioino a quello aragonese, com’è attestato per Lavello, Tricarico e, soprattutto, per Marsico, che è stata retta da ben quattro frati minori.
A completamento di questo sintetico quadro va evidenziato, infine, come nel corso del medioevo non sono mancati, a sua volta, frati minori lucani elevati a dignità episcopale. Il riferimento è, innanzitutto, a frate Giacomo da Potenza, che il 13 novembre 1374 fu nominato da Gregorio XI vescovo di Umbriatico, diocesi suffraganea della metropolia di Santa Severina; quindi a frate Gianuario (Janucius) da Lavello, che il 1457 resse Tortiboli, sede episcopale suffraganea di Benevento, che nel 1425 era stata unita a quella di Lucera; ed infine a frate Ruggiero di Atella, che Paolo II nell’anno 1461 nominò vescovo della sede arcivescovile titolare autocefala di Selimbria (corrispondente alla città turca di Silivri), nel patriarcato di Costantinopoli.

 

One Response to Carmela BISCAGLIA: I Frati Minori in Basilicata durante il Medioevo: modalità di diffuione e fondazioni

  1. Giuseppe maiorino ha detto:

    Molto interessante e ricco di particolari dove si compra?

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