Angelo Colangelo: Piero Gobetti e la Lucania
Pubblico il saggio di Angelo Colangelo (che ringrazio dell’autorizzazione che mi ha data) «Matera capitale europea della cultura: un’occasione per scoprire il forte legame di Piero Gobetti con la Lucania», pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Quilibri». Mi permetto di inserire in calce al saggio di Colangelo un legame leviano tra Piero Gobetti e Rocco Scotellaro (a.m.)
Piero Gobetti e la Lucania
Non poteva certo presagire che la sua esistenza sarebbe stata brevissima, improvvisamente spezzata in una squallida stanza di una clinica privata francese. Eppure, la sua intensa attività intellettuale e le sue frenetiche iniziative editoriali ci indurrebbero a ritenere il contrario, che cioè agisse spinto da misteriosi segni premonitori. In ogni caso è incontestabile che in meno di venticinque anni di vita egli realizzò quanto ad altri non riesce nel corso di una pur lunga esistenza.
Non si esagera, perciò, nel ritenere prodigiosa la personalità di Piero Gobetti che, nato a Torino il 19 giugno 1901, morì il 15 febbraio 1926, a meno di venticinque anni, a Neully sur Seine. Da pochi giorni si trovava a Parigi, dove era stato costretto a trasferirsi dalle persecuzioni del regime fascista, divenute sempre più forti per volontà dello stesso Mussolini, che lo considerava un “insulso oppositore del governo”.
A soli 17 anni, ancora studente al liceo Gioberti, aveva dato vita alla rivista quindicinale politico-letteraria Energie Nove, che durò poco più di un anno, dal 1 novembre 1918 al 12 febbraio 1920, e dedicò particolare attenzione ai problemi del Mezzogiorno.
Due anni dopo, il 12 febbraio del 1922, vide invece la luce la rivista di cultura politica La Rivoluzione liberale, che rimase in vita anche dopo la morte del fondatore fino al 1928 ed ebbe tra i collaboratori Antonio Gramsci, Giustino Fortunato, Luigi Sturzo. Nello stesso periodo, dal 23 dicembre 1924 fino al dicembre 1928, fu pubblicato anche il quindicinale di letteratura Il Baretti, al quale collaborò ancora Giustino Fortunato.
Sempre al 1924 risale il saggio La Rivoluzione liberale che, in quattro parti distinte, prende in esame l’eredità del Risorgimento, la lotta politica in Italia, la critica liberale, il fascismo. Fu pubblicato dalla Casa Editrice Gobetti, fondata nell’anno precedente, che vanta nel suo catalogo, fra le 84 pubblicazioni, alcune opere di Luigi Einaudi e la prima edizione degli Ossi di seppia di Eugenio Montale.
A noi pare che queste rapide note siano sufficienti a comprendere perché Gobetti debba essere annoverato a pieno titolo tra le figure più significative e affascinanti del panorama culturale italiano del Novecento.
Vivendo a Torino a cavallo degli anni Venti del secolo passato, seppe ampliare l’orizzonte dei suoi interessi culturali, grazie anche ad una straordinaria capacità di costruire feconde relazioni con molti autorevoli Maestri di pensiero, quali Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, che vivevano ed operavano lontano dalla sua città e dal suo ambiente culturale.
Ma si può parlare anche di un rapporto, magari solo ideale, di Piero Gobetti con la Lucania? Di primo acchito si direbbe di no, eppure il forte legame con Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti induce a dare una risposta affermativa. O quanto meno a ritenere che sia stato importante e fruttuoso il rapporto fra Gobetti e alcuni illustri intellettuali lucani. Se si vuole, con lo stesso Carlo Levi, che come lui era torinese, ma che sarebbe diventato lucano di adozione di lì a qualche anno.
Del significativo sodalizio con il grande meridionalista di Rionero in Vulture possiamo farci un’idea attraverso le parole che don Giustino scrisse dopo la morte improvvisa di Gobetti sulle colonne de Il Baretti. Nella sua accorata testimonianza egli ricordava come fra loro due fosse nato un sodalizio intellettuale subito dopo la guerra, che si era andato via via trasformando in sincera amicizia, tant’è che Piero e la moglie Ada furono suoi ospiti a Napoli durante il loro viaggio di nozze.
Ancora l’anno dopo, ma da solo, Piero, di ritorno dalla Sicilia, incontrò il grande meridionalista lucano e con lui ebbe un fitto scambio di idee, che offrì ad entrambi la possibilità di disvelare reciprocamente “il pensiero e l’animo”. Risultarono questi, come riconobbe lo stesso Fortunato, “se non in tutto conformi, pienamente d’accordo in tutto quello che è virtù e devozione alla patria”.
Col trascorrere del tempo, insomma, sempre più risaltarono agli occhi di Fortunato le qualità del giovane intellettuale torinese, che gli “apparve singolarissimo, sia per dirittura morale sia per energia di carattere”. Si comprende perciò quanto grande e sincero sia stato il suo dolore nell’apprendere della repentina scomparsa del giovane amico, che poco prima di partire per Parigi aveva voluto indirizzargli una lettera per informarlo dei suoi progetti culturali e editoriali nella capitale francese. “Povero amico! – egli conclude commosso nella sua nota commemorativa – Che la pura e cara tua amicizia mi accompagni in quel tanto di solitario cammino, che ancora mi avanza.”.
Non meno intenso fu il rapporto tra Gobetti e Francesco Saverio Nitti (Melfi, 1868 – Roma, 1953), lo statista lucano che sempre considerò Giustino Fortunato suo Maestro. Docente di economia politica e scienza delle finanze, egli scrisse saggi importanti sull’elettrificazione del Sud, per il quale progettava uno sviluppo industriale che fosse legato al potenziamento della rete portuale. Di capitale importanza nella letteratura meridionalistica è poi la riflessione politica, sociale ed economica affidata al saggio Nord e Sud, in cui si sottolinea, già all’inizio del nuovo secolo, l’urgenza di una riforma agraria non più differibile.
Parlamentare e ministro, del Commercio nel 1911 e delle Finanze nel 1917, Nitti fu Presidente del Consiglio per pochi mesi fra il 1919 e il 1920. Costretto all’esilio dalle frequenti e violente aggressioni dei fascisti, nel 1923 si rifugiò a Zurigo. Dalla Svizzera si trasferì poi a Parigi e qui la sua casa al numero 26 di rue Vavin divenne punto di riferimento per i non pochi esuli italiani antifascisti.
Nel suo bel libro di memorie scritto durante il triste periodo della prigionia a Itter, in Austria, dove era stato deportato nel 1943 dai nazisti, egli ricorda che la sua abitazione parigina era stata “centro di unione politica e morale fra Italiani”.
Aveva ospitato molte persone di diversa appartenenza politica, costrette ad esiliare ed unite fra loro dal comune sentire antifascista. Fra le tante, Sturzo e Modigliani, Turati e Salvemini, Treves e i fratelli Rosselli. Nonché due giovani, su cui egli apertamente ammetteva di aver fatto particolare affidamento: “Amendola che era stato sempre con me e dopo la mia partenza aveva cercato di sostituirmi in Italia, Gobetti, ch’era legato a me da tante idee e da tante concezioni di libertà…”.
Nitti ricorda anche il suo incontro in terra francese con il giovane esule torinese, che gli si era presentato senza alcun preavviso, con “l’aria sofferente, ma gli occhi vivaci e lo spirito alacre”. Ricevette da lui una somma che sarebbe dovuta servire per la pubblicazione di una rivista antifascista e seppe della sua intenzione di dar vita ad una casa editrice, che purtroppo non avrebbe mai visto la luce per l’improvviso peggioramento delle condizioni di salute, che ne causarono la repentina e prematura scomparsa.
“Per le sofferenze e le battiture – racconta Nitti – i suoi polmoni erano logori. I miei figli lo assistettero fraternamente. Fu colpo inatteso e terribile. Morì perché non aveva più la forza per resistere. A noi rimase il compito di dargli onorevole sepoltura. E di scrivere di lui nella stampa francese. Io ero riuscito a procurarmi con grandi sacrifici un prezioso documento. Era il testo di un telegramma da mettere in cifra. Era autografo di Mussolini e ordinava al prefetto di Torino di far trattare convenientemente Gobetti quale insulso nemico del fascismo. Il testo autografo dell’ordine di Mussolini (era un ordine di aggressione!) fu dato da me e riprodotto fotograficamente il giorno dei funerali dal giornale Le Quotidien, allora diffusissimo. Produsse enorme impressione. Avvertii le persone di famiglia Gobetti a Torino e potetti restituire loro il danaro depositato presso di me”.
Carlo Levi, è noto, conobbe la Lucania quando vi fu confinato per la sua attività antifascista nell’agosto del 1935. Vi sarebbe rimasto fino al maggio dell’anno successivo, Poco meno di dieci mesi, dunque, bastevoli, però, a legarlo per sempre, come per un atto di magia, a quella terra “senza peccato e senza redenzione”.
Ma, ancor prima che fosse mandato al confino, Levi aveva avuto modo di avvicinarsi al Sud proprio grazie a Gobetti, che aveva conosciuto nel novembre 1918. Lui stesso sedicenne, l’altro di appena un anno più grande. Accade tutto improvvisamente dopoché il giovane Carlo ha letto il primo numero della rivista Energie Nove, capitatagli tra le mani per caso. Nasce allora in lui il vivo desiderio di conoscerne il direttore e gli indirizza una lettera. Sorprendentemente riceve una pronta risposta, in cui Gobetti gli fa sapere di volerlo conoscere. Così lo stesso Levi racconta il fatidico incontro nella casa di via XX Settembre, 60:
Credevo che il direttore della rivista fosse un vecchio […] il cuore mi batteva quando salivo le quattro rampe della scala di pietra, a destra dell’androne, di fronte al negozio di frutta e di primizie del signor Prospero. Suonai il campanello con estrema esitazione e venne subito ad aprirmi un ragazzo alto, magro, con una gran testa di capelli scaruffati biondo castani, un paio di occhiali di metallo sul naso aguzzo, e occhi vivacissimi e penetranti sotto le lenti. Volevo chiedergli se c’era in casa il signor Piero Gobetti, che pensavo dover essere suo padre, ma egli, credo, capì dal mio viso il mio dubbio e subito mi disse: «Piero Gobetti sono io, tu sei quello che mi ha scritto, tu sei Levi?».
Inizia così un forte sodalizio umano e intellettuale che, pur essendo durato pochi anni, molto incide sulla formazione del giovane Levi. Questi, infatti, ammette di essere rimasto subito affascinato dalle qualità di Gobetti, perché «in lui c’era una tale capacità di espressione, di creazione negli altri, che si può dire essere egli stato il centro formatore di tutta una generazione».
Sollecitato da Gobetti, dunque, Levi inizia a scrivere e a pubblicare, seppure con qualche iniziale riluttanza. Lo fa trattando un argomento, suggerito dallo stesso direttore, che darà vita a un saggio su Antonio Salandra e i liberali del Mezzogiorno. Per Carlo Levi è questo il primo impatto con un mondo, che avrebbe conosciuto poi da vicino, quando per la sua attività antifascista fu confinato in Lucania, prima a Grassano poi ad Aliano. E a quel mondo, che molto amò essendone riamato, sarebbe rimasto legato per il resto della vita.
Angelo Colangelo
Quaderno a Cancelli
(Piero Gobetti e Rocco Scotellaro)
“Quaderno a cancelli” è la penultima sezione del poema scotellariano È fatto giorno, composta di ventisei poesie. La sesta poesia è “Dedica a una bambina”. La sezione fu inserita nella raccolta pubblicata a giugno del 1954 a cura di Carlo Levi, che, quindi, scelse le poesie e dette il titolo alla sezione, non riprendendolo, come per altre sezioni, dal titolo di una delle poesie che ne fanno parte, ma assumendolo dal primo verso della poesia stessa.
“Quaderno a cancelli” è pure il titolo di un libro postumo di Carlo Levi, pubblicato nel 1979 nel Saggi (611) di Einaudi con una testimonianza di Linuccia Saba e una nota di Aldo Marcovecchio.
Verso la fine del 1972 Carlo Levi subì il distacco della retina. Fu operato ai primi di febbraio del ’73 e, malgrado l’assoluta cecità, riprese a dipingere e cominciò a scrivere il suo ultimo libro. Scritto a mano libera in un una prima fase; poi, apparsa evidente la difficoltà dell’impresa, con l’ausilio di una sorta di scrittoio da lui stesso ideato: un «quaderno» di legno a cerniera, munito di cordicelle tese tra le due sponde per guidare la mano (dalla nota cit. di Marcovecchio, p. 231). Di qui – deduce Marcovecchio – il titolo dell’opera nel duplice significato (tipico polisenso leviano) letterale e metaforico; «probabilmente in sotterraneo richiamo al Quaderno di prigione», scritto nel 1935 nel carcere romano di Regina Coeli».
Ma, più probabilmente, si può vedere un sotterraneo richiamo alla citata poesia di Scotellaro, che in una certa misura è invenzione di Levi per la selezione delle ventisei poesie che compongono la sezione e l’idea del titolo della sezione stessa.
Il quaderno a cancelli delle classi elementari, che guida le mani dei bambini e aveva guidato la mano della bambina che ora è morta, a cui Scotellaro dedica la poesia, potrebbe aver ispirato Levi ad ideare il suo scrittoio della cecità e il titolo del suo ultimo libro. Tanto più che Scotellaro fu una presenza costante nei pensieri e negli affetti di Levi. Pur se manca nell’edizione einaudiana, esiste una appendice dell’ultimo libro di Levi, di indubbio interesse che, anche se sostanzialmente allotria alla struttura del libro, ne costituisce la parte finale. In un brano dell’appendice, redatto il 1° agosto 1973, Levi fa un elenco di ciò che ha contato nella formazione della sua vita:
« Al risveglio, quasi felice, mi sembra di dover rispondere a una domanda su che cosa ha realmente contato (senza falsa vanagloria) nella mia vita. Faccio degli elenchi ragionati. Mi pare di dover rispondere con dei numeri. 1) Mia madre. 2) Il giardino delle cose (Via Bezzecca, l’altalena, il ribes). 3) L’amicizia con i giovani miei maestri e fratelli: Gobetti, fratello-padre e Rocco, fratello-figlio. I vecchi, i grandi uomini che ho conosciuto e anche amato non mi hanno dato nulla o quasi nulla. 4) L’amore sessuale e fisico, come rivelatore del mondo e della libertà. 5) La Lucania, confino, come rivelatore degli altri e della libertà. 6) La pratica del dipingere (e anche dello scrivere) come scoperta ed esercizio della verità e della libertà. Infine mi resta la settima cosa. Potrei mettere un nome o dei nomi, ma non mi decido alla risposta ». (a.m.)
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Caro Antonio,
la tua nota al mio saggio breve, dedicato al rapporto tra Piero Gobetti e la Lucania, mi induce a segnalare ai lettori di Rabatana la ripubblicazione dell’opera di Carlo Levi “Quaderno a cancelli”, curata da Riccardo Gasperina Geroni, uno studioso dello scrittore e pittore torinese, cui due anni fa è stato assegnato anche il Premio “Levi”.
Quella di Gasperina Geroni è una versione filologica che, come ricorda Paolo Di Stefano nell’ultimo numero dell’inserto del Corriere della sera “La lettura”, “ha il merito di offrirci il “Quaderno” nella sua forma filologicamente più attendibile, rispettando il più possibile l’ultima volontà dello scrittore e rimuovendo alcuni aggiustamenti e lacune dovuti alla prima curatela famigliare”.
Un caro saluto,
Angelo Colangelo
Caro Angelo,
Grazie per la segnalazione. Ho letto oggi pomeriggio l’articolo di Paolo Di Stefano e domani andrò a comperare la nuova edizione di “Quaderno a cancelli”. Mi ha fatto molto piacere leggere che Riccardo Gasperina Geroni, anziché la tesi di Marcovecchio sul titolo del libro, sostiene il legame con la poesia “Dedica a una bambina” di Rocco.
Cari saluti,
Antonio