Dopo la scomparsa di Remo Bodei, e quella di Tullio Gregory, sembra quasi concludersi e chiudersi, con la sua perdita, una stagione della filosofia nel nostro Paese. Sarà una stagione su cui bisognerà riflettere, per trarre un bilancio, ma che senz’altro, per molti aspetti, non si potrà non rimpiangere.

Emanuele Severino si è spento il 17 gennaio scorso, l’annuncio è stato dato il 21, a funerali avvenuti. Si era laureato nel 1950 all’Università di Pavia. Allievo del filosofo Gustavo Bontadini, esponente della corrente neotomista sorta intorno all’Università del Sacro Cuore di Milano, Severino aveva intrapreso la carriera universitaria proprio alla Cattolica, dove aveva insegnato dal 1954 al 1969. Fu docente della tricaricese Angelina Gagliardi. Allontanato da quell’Ateneo per le sue teorie contrastanti con la dottrina della Chiesa, Severino era passato a insegnare all’Università Ca’ Foscari di Venezia, di cui era professore emerito dal 2005. Ma aveva continuato a tenere si suoi corsi all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
Il Corriere della Sera di oggi, 22 gennaio, da l’addio al grande filosofo con due articoli a pag. 32 e 33, che ritengo bene portare a conoscenza dei lettori di Rabatana.

1. (Maurizio Bonazzi)

Citando un verso dell’antico poeta greco Archiloco, Isaiah Berlin ha una volta provato a distinguere i pensatori in volpi e ricci, tra chi «sa molte cose», inseguendo la realtà in tutte le sue diramazioni, e chi invece «sa una sola cosa, ma grande». Emanuele Severino, scomparso lo scorso 17 gennaio poco prima di compiere 91 anni, appartiene a pieno titolo al secondo gruppo, in compagnia di un altro riccio per eccellenza, il filosofo greco presocratico Parmenide, al quale dedicò il saggio Ritornare a Parmenide (1964).

Nei tanti libri pubblicati e nelle tante conferenze tenute (Severino era tra le altre cose un ottimo oratore), la sua riflessione si è sviluppata intorno a un unico problema, quello del divenire e della morte. Con un solo, grandioso, obiettivo: negarne l’esistenza. Il problema degli uomini è la credenza del nulla, l’illusione che tutto ciò che esiste, prima non ci fosse e poi non ci sarà. Dal non essere all’essere e ancora al non essere: è il ciclo della vita che diviene. Questa certezza nell’esistenza del divenire è una forma estrema di «nichilismo» tragico: è nichilismo perché il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla, come Severino sostiene nel libro Essenza del nichilismo (Paideia, 1972); ed è tragico perché di fatto riduce la vita a una corsa verso la morte (il non essere). La storia del pensiero occidentale in tutte le sue declinazioni, religiose, scientifiche, filosofiche, è un tentativo di eludere la paura di questo nulla.

Per Severino non c’è spazio per tutta questa «follia», per una ragione semplicissima. Il divenire non esiste. L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, affermava Parmenide. Dire che l’essere è non essere, o che l’ente è niente, ammettere il divenire insomma, è contraddittorio. L’unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente — tutte le cose, ciascuno di noi — è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all’essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore). La morte non esiste, è solo un abbaglio di chi non ha capito che cosa vuol dire «essere».
Si pensa alla vita come a un film, in cui fotogrammi scorrono verso una conclusione, senza rendersi conto che tutti i singoli fotogrammi sono sempre lì e niente passa o si perde. Illusi dai loro errori gli uomini si angosciano per la morte e non si accorgono che sono già da sempre salvi, «nella Gloria e nella Gioia» (sono i temi sviluppati da Severino nei libri La gloria, Adelphi, 2001, e Storia, gioia, Adelphi, 2016).

Nel 1969 la Congregazione per la dottrina della fede dichiarò che la filosofia di Severino era incompatibile con la rivelazione cattolica, costringendolo a lasciare l’Università Cattolica di Milano e a trasferirsi all’ateneo di Venezia. C’era del vero nella condanna: il pensiero di Severino è un pensiero del qui e ora, che non demanda a un improbabile aldilà il momento della salvezza. Rinnova il confronto secolare tra religione e filosofia, prendendo le parti della seconda. La filosofia, quando è veramente filosofia, è il tentativo di spiegare — su basi razionali, senza bisogno di rivelazioni o illuminazioni — che cosa sia la realtà e quale sia il suo senso. La filosofia è conoscenza e la conoscenza salva, perché ci aiuta a capire come stanno le cose: che non vi è nulla oltre agli enti (le cose, noi), che la morte non esiste, che il paradiso (la Gloria) è qui e ora. Severino è stato davvero l’ultimo dei Greci.

Ciascuno di noi è in quanto ente: e se è, è eterno, non nasce e non muore. La morte non esiste, è solo un abbaglio
Anche per questo un altro controverso filosofo del Novecento, Martin Heidegger, s’interessò al suo pensiero (o meglio alle critiche che Severino gli aveva rivolto nella sua tesi di laurea), riconoscendone l’importanza. È una notizia recente, che però non sorprende, vista la convinzione di entrambi che l’Occidente avesse preso una strada «folle» nel momento in cui aveva deciso di sostituire a Dio la tecnica, credendo di poter risolvere in questo modo i problemi del nostro tempo, come Severino aveva sostenuto nel saggio Il destino della tecnica (Rizzoli, 1998).
Del resto, al netto delle pur fondamentali differenze (per Severino neppure Heidegger è stato capace di uscire dal nichilismo: anche lui, insistendo sulla dimensione temporale dell’essere, è rimasto intrappolato nelle secche del divenire), il suo pensiero va incontro a difficoltà analoghe a quelle di Heidegger.

Nel mondo di Emanuele Severino non c’è spazio per la politica, intesa come cambiamento dell’esistente: lo sostiene nel libro Il tramonto della politica (Rizzoli, 2017). Quello che serve è uno sguardo capace di contemplare l’eternità. Tutto è, eternamente — un bacio, il terremoto di Lisbona, la pioggia che cade. Sono tesi radicali, oggetto di grandi discussioni, ma coerenti con l’impianto di fondo del suo sistema, e un grande pensatore non rinuncia mai alla coerenza.

Del resto non è proprio il compito della filosofia mostrarci che le cose stanno diversamente da come siamo abituati a pensare? «Non si tratta di rassicurare il mortale, ma di mostrare la verità del destino». E la verità, osservava Giacomo Leopardi (di cui Severino ha vigorosamente difeso la profondità filosofica nel suo In viaggio con Leopardi, Rizzoli, 2015), non è necessariamente buona o bella, ma non per questo va respinta. Di sicuro lui l’ha cercata per tutta la vita.

2. L’analisi di Donatella di Cesare

Vedeva in moto un meccanismo incontrollabile che riduce l’uomo a oggetto. Denunciò l’alienazione prodotta in Occidente dal nichilismo moderno

È stato certamente uno dei volti più autorevoli della filosofia italiana negli ultimi decenni. Emanuele Severino era un nome noto anche a quanti non sono soliti seguire le dispute filosofiche. Chi non ha avuto modo di sentire un suo intervento alla televisione, alla radio, e infine anche sul web? Senza dimenticare le sue conferenze sia nei tradizionali luoghi accademici, sia nelle piazze — come al Festivalfilosofia, dove anche nelle edizioni più recenti accorrevano giovani e meno giovani, colleghi, insegnanti, studenti da tutte le parti d’Italia per ascoltare le sue parole.

Severino aveva la capacità, purtroppo sempre più rara, di mantenere registri diversi. Sapeva usare con sapienza e rigore la terminologia filosofica nei saggi dedicati alla metafisica classica; ma interveniva anche sulle questioni urgenti dell’attualità politica e culturale, come ha dato prova tante volte su queste colonne. Soprattutto riusciva a far comprendere, con un linguaggio piano e accessibile, i grandi temi della filosofia, da quella greca a quella contemporanea, rivolgendosi anche al pubblico dei non-filosofi. Era un modo per coinvolgere tutti, era un appello alla lettura e al confronto, era un modo per testimoniare la necessità della filosofia nella complessa realtà di oggi.

Il che non gli ha impedito di esprimere, anche negli ultimi tempi, tutti i suoi dubbi e le sue perplessità su una politica non più in grado di fronteggiare le grandi sfide, una politica sempre più ridotta alle sue funzioni amministrative, subalterna all’economia, a sua volta lanciata in una competizione epocale con la tecnica. Chi avrà la meglio? Il capitalismo seguiterà a sfruttare le potenzialità offerte dalla tecnica o finirà piuttosto per soccombere? Il progettista scoprirà allora di essere progettato. Che ne sarà del mondo finito nelle mani della tecnica, un meccanismo incontrollabile, un ingranaggio autonomo? Il XXI secolo non lascia ben sperare.

È stata la «tecnica» la parola chiave di Severino, il filo conduttore di un lungo e articolato cammino attestato in decine e decine di volumi. Indubbia è l’eco di Heidegger, il filosofo tedesco che, interlocutore tacito o esplicito, ha accompagnato sin dagli anni Cinquanta la sua riflessione, senza mai comprometterne l’originalità. In opere come Essenza del nichilismo (1972), Gli abitatori del tempo (1978), Tautótes (1995), La potenza dell’errare (2013), Severino spiega l’oblio dell’eternità, la triste condanna dell’Occidente che — malgrado il monito di Parmenide: solo l’essere è — si è consegnato al divenire, al tempo e al suo dominio, che inghiotte tutto come in una vertigine. Nulla resta. Questo nichilismo accelerato ed esacerbato ha investito interamente la civiltà occidentale — etica e religione comprese. E là dove tutto si fabbrica e tutto continuamente si distrugge, là dove tutto è nulla, la tecnica si è già installata. Assurdo pensare che sia lo strumento neutrale che un’umanità emancipata impiega a proprio vantaggio. Il soggetto moderno, che crede di disporne liberamente, dovrà prima o poi accorgersi di essere l’oggetto di una produzione illimitata, un fondo di riserva, un vuoto a perdere, in un mondo che è divenuto una fabbrica. Questa è l’alienazione più profonda che sia mai stata esperita, il male più radicale e tenace.

In questo «inverno della ragione» la filosofia ha abdicato al suo ruolo decisivo, assumendo un atteggiamento troppo difensivo nei confronti sia della scienza sia della religione. Severino si discostava da altri esponenti del nichilismo italiano — da Luigi Pareyson a Gianni Vattimo, per menzionarne solo alcuni — proprio perché rivendicava il carattere incontrovertibile del discorso filosofico.

La sua diagnosi severa, più volte bersaglio di critiche, a volte pretestuose, altre volte profonde e circonstanziate, non lascia spazio al pensiero di una salvezza, neppure quella di un «ultimo Dio», come per Heidegger. Se prima era Dio a creare e distruggere, adesso è la tecnica che si arroga questa prerogativa divina.

Nella sua infaticabile attività Severino ha formato moltissimi validi allievi, intere generazioni, lasciando una forte impronta. Dopo la scomparsa di Remo Bodei, e quella di Tullio Gregory, sembra quasi concludersi e chiudersi, con la sua perdita, una stagione della filosofia nel nostro Paese. Sarà una stagione su cui bisognerà riflettere, per trarre un bilancio, ma che senz’altro, per molti aspetti, non si potrà non rimpiangere.

 

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