Alle radici dell’odio. Il processo che portò il secolare antigiudaismo cristiano a mutare nell’ancora più aberrante antisemitismo, concepito nel mondo tedesco dell’Ottocento

Noi accecati dal disprezzo per gli ebrei

In Germania, ma non solo, l’ostilità contro gli ebrei ebbe un’impennata negli anni Ottanta del XIX secolo e da allora non smise di crescere, fino alla Shoah. Una delle sinistre parole propagandistiche che ebbero subito grande seguito fu «gli ebrei sono la nostra disgrazia», messa in circolo nel 1879 da Heinrich von Treitschke (1834-1896). Il giornalista Wilhelm Marr (1819-1904) introdusse il termine «antisemitismo», e anche questa invenzione ebbe tragicamente grande fortuna. Il pastore luterano e predicatore alla corte prussiana Adolf Stoecker (1835-1909), fondatore di un Partito cristiano sociale in funzione antisocialista, cominciò anch’egli ad additare negli ebrei la principale minaccia per la nazione e il popolo tedeschi. Sono gli inizi di una deriva che porterà alla politica razzista del governo nazista e al sostegno di massa che essa ricevette. Il resto è storia tragicamente nota.
La riflessione avviata dopo la seconda guerra mondiale e dopo la Shoah da parte delle chiese cattolica e protestanti fece emergere che il peso che gravava su di esse non consisteva solo nel tracollo morale di quei cristiani che avevano sostenuto l’antisemitismo razzista o lo avevano assecondato o ignorato: occorreva risalire più indietro, a quello che l’ebreo francese Jules Isaac chiamò «l’insegnamento del disprezzo».
Le pietre d’inciampo, che ricordano le vittime della Shoah, fanno impattare anche sulla storia della cristianità e mettono di fronte all’«antigiudaismo cristiano», fatto non soltanto di pregiudizi volgari e di esplosioni odio, ma anche di insegnamenti veicolati nelle prediche, nella catechesi e nella teologia; di norme restrittive e oppressive imposte da una società che si concepiva come «cristiana». Se parliamo di «antigiudaismo», distinguendolo dall’antisemitismo otto e novecentesco con la sua dimensione razzista pseudoscientifica, non è per minimizzare il primo, ma per individuarne con maggiore precisione i tratti.
Una visione negativa dell’ebraismo e l’emarginazione degli ebrei hanno dominato la società cristiana per secoli e secoli. Quando gli antisemiti di fine Ottocento indicano negli ebrei «la nostra disgrazia» e li accusano di essere un corpo estraneo e non integrabile, al tempo stesso numericamente infimo eppure potentissimo, al punto da costituire una terribile minaccia per l’integrità del «popolo» e un pericolo per lo Stato, dirigono i loro strali contro un bersaglio a cui erano già state attribuite quelle stesse fattezze in secoli di polemica cristiana.
Per tutto il Medioevo, gli ebrei furono costretti da autorità cristiane a condurre un’esistenza ai margini della società, bollati da contrassegni che li rendessero identificabili, tollerati per convenienza oppure arbitrariamente espulsi, esclusi dalla maggior parte delle professioni, talora esposti alle aggressioni di folle che li ritenevano colpevoli di avvelenare pozzi, di profanare ostie per ripetere l’oltraggio a Cristo o di rapire e uccidere bambini cristiani per scopi rituali.
Questa misera esistenza imposta agli ebrei dal mondo «cristiano» veniva interpretata in base alla nozione di «popolo testimone», che risale a Sant’Agostino di Ippona: questa è la condizione degli ebrei perché questo è il castigo divino per il loro rifiuto del messia e per la sua morte, di cui sono ritenuti responsabili in solido, come popolo «deicida». Non devono scomparire, ma rimanere in questa condizione per testimoniare del trionfo della chiesa; l’errore e la colpa di cui pagano il fio devono, per contrasto, far emergere la superiorità del cristianesimo e attestarne la verità. È il messaggio che illustrano, in varie cattedrali medioevali (ad esempio, le cattedrali di Notre-Dame a Parigi, di Friburgo in Brisgovia, di Strasburgo; il duomo di Bamberga) le statue di due donne contrapposte: umiliata, accecata perché non riconosce la verità, la sinagoga; fiera e incoronata, la chiesa. Quello che era il popolo eletto viene considerato reietto, soppiantato dalla Chiesa che lo ha sostituito ed è divenuta il nuovo, anzi il vero, Israele.
Si insegna che una sola lettura delle Scritture ebraiche, il nostro Antico Testamento, è legittima: quella che porta a Cristo. È la rivendicazione dell’interpretazione cristiana della Bibbia ebraica come unica legittima che conduce Martin Lutero – che aveva promosso, in sintonia con l’Umanesimo, l’accesso al testo ebraico dell’Antico Testamento – alle sue drastiche affermazioni antiebraiche (Gli ebrei e le loro menzogne, 1543): travisano le Scritture, sono blasfemi, dunque non possono essere tollerati in mezzo alla cristianità; se ciò avvenisse, i cristiani sarebbero corresponsabili e ne dovrebbero rendere conto il giorno del giudizio.           Di lì a poco, con la bolla Cum nimis absurdum (1555) di Papa Paolo IV, la Controriforma farà un ragionamento analogo: poiché è del tutto inconcepibile che gli ebrei, condannati da Dio alla schiavitù per il loro errore, vivano in mezzo ai cristiani, devono essere segregati in un quartiere chiuso: è la nascita dei ghetti.
Il bagaglio di preconcetti e stereotipi negativi che riassumiamo con il termine «antigiudaismo» ha fatto parte per secoli e secoli del bagaglio culturale del «cristiano qualunque», veicolato com’era nei discorsi «normali», nelle chiese e nel quotidiano, nella teologia come nell’immaginario. Quando entrarono in azione i personaggi di fine Ottocento citati all’inizio, la categoria dello «ebreo» esisteva già, anzi aveva radici secolari. Bastava ravvivarla nel contesto di un mondo che si andava industrializzando e urbanizzando e perciò era attraversato da fermenti sociali inediti; un mondo in cui i nazionalismi si rafforzavano proiettando risentimento contro un presunto elemento «estraneo», dissolutore dell’anima popolare sul fronte interno.
Dopo la Shoah, dapprima con fatica e poi con maggiore risolutezza e incisività, le chiese hanno cominciato a fare i conti con la storia tragica del loro rapporto con il popolo ebraico: pietre miliari sono la dichiarazione conciliare Nostra Aetate n. 4 in ambito cattolico-romano e pronunciamenti di sinodi di chiese protestanti.
Sempre di più, i vari aspetti del rapporto tra cristiani ed ebrei sono oggetto di indagini approfondite. Ne è un esempio il volume che verrà presentato a Milano domani 27 gennaio alla Scuola della cattedrale, dedicato ad alcuni degli esponenti dell’esegesi storica e critica sviluppatasi, prima in ambito protestante e soprattutto in Germania, a partire dall’Illuminismo. Ne emergono vari tratti: da visioni del giudaismo come decadimento rispetto all’ebraismo biblico, come angusto particolarismo contrapposto all’universalismo cristiano, fino a teologi che sostennero l’antisemitismo nazista, come nei casi di Rudolf Kittel e di Walter Grundmann; ma anche approcci più simpatetici, legati però al proposito di convertire gli ebrei. Un importante case study che si aggiunge ad altre ricerche, il cui numero cresce, e che devono continuare, non per additare dei colpevoli, ma per essere sicuri di essere cambiati noi.
L’analisi storica è essenziale, ma non esaurisce il compito che attende i cristiani: si tratta di nuovo del bagaglio di ogni «cristiano qualunque»: la conoscenza deve prendere il posto del pregiudizio o del sentito dire, il rispetto deve sostituire il sospetto e la polemica; la solidarietà con chi rimane altro da noi, eppure ci è così vicino, deve soppiantare l’inimicizia. Tanto più urgente di questi tempi, in cui in tutta Europa molti discorsi, amplificati dai social, assomigliano in modo preoccupante a quelli degli anni Venti e Trenta del secolo i cui errori e orrori credevamo sepolti per sempre.
Daniele Garrone
Biblista e pastore protestante valdese. Docente di Antico Testamento alla Facoltà valdese di Teologia

Dal Supplemento della Domenica del Sole 24 Ore del 26.01.20220

 

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