A proposito di Storia del calcio tricaricese (2)

Maria Luisa Colledani

Lo sport spiega la guerra e la guerra spiega lo sport e la storia. Sergio TavĈar, voce storica di Tele Capodistria dal 1971, è chiaro: «Lo sport talvolta è uno strumento d’identità: un mezzo per comprendere chi siamo veramente». E nel libro Lo sport e il confine del mondo, va alla ricerca di sé, uomo della minoranza slovena in Italia, per sondare il senso di confine, minoranza, etnia, lingua. Tutto attraverso le medaglie del basket, e non solo, della ex Jugoslavia, che vinceva grazie alle «caratteristiche peculiari dei popoli che la formavano: i farfalloni serbi capaci di tutto, i geni croati e i lavoratori sloveni».
Il confine è osmosi, anche in un bar di Opicina (Ts), dove Tav?ar si racconta a Marco Ballestracci. Tutto ruota attorno alla storia. Alla fine del primo conflitto mondiale si manifesta quello che, col tempo, «apparirà come un gigantesco equivoco: il panslavismo, che ebbe come conseguenza immediata la fondazione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni». Tito, per 35 anni, aveva unito le diversità: «sei repubbliche, cinque popoli, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo Tito». Ma, sotto la cenere, il risentimento ribolle. «I sentimenti che si esprimono in un’arena sportiva – scrive Tav?ar – sono le avvisaglie di ciò che avverrà presto in ambiti nevralgici della società: politici e sociali». Gli scontri violenti del 13 maggio 1990, a Zagabria, prima della gara di calcio Dinamo Zagabria-Stella Rossa, annunciano una guerra imminente. Slovenia e Croazia cercavano di modernizzare la repubblica federale, la Serbia voleva il potere.
Nella quotidianità di quegli anni 90, striscianti, emergono secoli di storia, che TavĈar spiega con cura: la presenza dei turchi, le religioni che si sfiorano, la raja, cioè i serbi ortodossi ma soprattutto il proletariato non musulmano. Ma, nello sport, i fattori comuni dei balcanici restano, e sono la palla e il campo da gioco dove esprimere «l’astuzia, allenata da generazioni e generazioni di commercianti mediorientali e istruita dalla proverbiale arte di arrangiarsi». Così erano nate le Nazionali jugoslave oro nel basket al Mondiale 78, nelle Filippine, e ai Giochi di Mosca 80. Poi, tutto è esploso, odio, guerra e massacri. Quei morti come un punto di non ritorno ma dallo sport si può ricominciare. A Sarajevo, quello che durante i Giochi invernali del 1984 era il campo di gara per lo slittino sul monte Trebevi? «diventò la pedana di tiro ideale per regolare vecchi conti che chissà da quanto tempo giacevano apparentemente saldati».
L’Europa e il mondo hanno osservato inerti: a questo proposito il libro di Clara Usón, La figlia resta una pietra miliare, come pure il recente Hotel Tito di Ivana Bodroži?. La Jugoslavia non esiste più, come tre fra i suoi cestisti più grandi: Dražen Petrovi?, Krešimir ?osi?, Mirza Delibaši?.
Oggi, per fortuna, nel Dna slavo, melting pot di popoli, culture e attriti, vive il serbo Nole Djokovi, autore di un messaggio alla Nazionale croata di calcio che ai Mondiali di Russia 2018 aveva appena sconfitto l’Inghilterra, qualificandosi per la finale. Piccoli passi, ma non basta. La storia cova, sotterranea, imprevedibile, violenta ma restano le immagini di quella Jugoslavia, oro a Mosca 80 grazie alla diversità al potere. Non è utopia quella Jugoslavia, è storia figlia di multiculturalità nata lungo il confine imprevedibile fra la guerra e la convivenza.
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IL SOLE 24 Ore, DOMENICA 2 febbraio 2020

Sergio TavĈar, Marco Ballestracci, Lo sport e il confine del mondo – Mattioli 1885, Fidenza, pagg. 108, € 16

 

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