Il bicentenerio dell’Infinito di Giacomo Leopardi
Il Sole 24 Ore Domenica 16 FEBBRAIO 2020
Giacomo Leopardi. Nei prossimi due anni proseguiranno gli approfondimenti sul celebre idillio. E dal 21 marzo saranno aperte le stanze private del poeta nel Palazzo di Recanati
Il bicentenario Infinito
Da dove viene L’Infinito? Questo inesauribile e vivissimo organismo poetico di quindici versi nasce delle tenebre di un anno, il 1819, l’anno della «mutazione totale», anno-crogiuolo del «passaggio dallo stato antico al moderno», un anno doloroso di buio anche letterale, dove, «privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura», Leopardi comincia «a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla»; così scrive nel 1820, duecento anni fa, ripensando a quel 1819, in cui la sua natura gentile, ardente e sensibile matura una «lugubre cognizione delle cose». L’Infinito è un miracolo poetico che squarcia tale oscurità e resta sospeso nell’attimo al quale si dice faustianamente «fermati, sei bello».
L’infinito è poi uno dei termini fondamentali della tensione che percorre tutta l’opera di Leopardi e, insieme, anche il suo esame della natura degli uomini e delle cose che, come d’abitudine, indaga a partire da se stesso (mi riferisco specialmente alla teoria del piacere). La tenzone tra finito e infinito è infatti costitutiva non solo del sovrumano idillio ma del suo modo di sentire, di percepirsi in questa lacerazione tra l’aspetto transeunte e fragile di sé come la foglia di Imitazione e quello eterno di sé come ginestra, profumo, poesia che dura e che il deserto consola.
Le due incarnazioni vegetali stanno però sulla soglia ultima della sua vita mortale; tornando a quel 1819, il 5 febbraio Pietro Giordani gli scriveva da Piacenza «le vostre canzoni girano per questa città come fuoco elettrico», ricevere simili attestazioni di stima alimentava in Giacomo lo stridere del desiderio di libertà contro le catene domestiche; «stanco della prudenza», scrive al fratello Carlo alla fine di luglio, si rivolge «all’ardire» con la fuga, fallita, dell’estate del 1819.
Quando è stato scritto l’Infinito? Prima della tentata fuga? In quel periodo? Dopo, nell’autunno? Quando è stato abbozzato? Quando portato a termine?
Nonostante l’inesausto e quasi atletico esercizio esegetico sui quindici endecasillabi, l’Infinito continua a essere ineffabile, a sfuggirci come, si sa, ama fare Leopardi. È persino stato scritto tutto un libro sul primo verso dell’idillio (Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi, L’incipit dell’Infinito, ed. cambia una virgola, 2019) nel manuziano formato dell’enchirídion.
L’infinito «si mostra ogni volta come in una sua rinnovata vita», così Antonio Prete ha aperto nello scorso ottobre a Recanati il convegno Interminati spazi su L’Infinito (organizzato dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali e del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Bicentenario de L’Infinito in collaborazione con la cattedra Leopardi dell’Università di Macerata diretta da Laura Melosi). Luigi Blasucci ha sottolineato l’originalità dell’idea della contessa Olimpia Leopardi di celebrare una poesia «è la prima volta che nell’Europa leopardiana si celebra una poesia». La stessa Olimpia Leopardi ha deciso con la famiglia di aprire al pubblico dopo duecento anni, il 21 marzo prossimo, le stanze private di palazzo Leopardi. Si potrà guardare il cielo oltre la finestra dalla quale Leopardi contemplava la luna e anche accedere al giardino de Le Ricordanze. E il Comitato Nazionale per le celebrazioni del Bicentenario de L’Infinito nel mondo, istituito nel 2019, da lei fortemente voluto, continuerà i lavori almeno fino al 2022.
Nel 2020, finito l’anno dell’Infinito, ne inizia un altro, anzi altri due, che, se si volesse, potrebbero prolungarsi fino al 2025, bicentenario della pubblicazione dell’Infinito il quale fu stampato per la prima volta nel dicembre 1825 sul «Nuovo Ricoglitore» e poi nella silloge bolognese dei Versi del 1826.
Certo, il primo anno è stato occasione per pubblicazioni di grande valore e nuovi contributi che si potranno leggere negli atti del convegno Interminati spazi che saranno pubblicati in breve tempo a cura di Alberto Folin (suo Il celeste confine, Marsilio, 2019). Luigi Blasucci ha messo in risalto la natura di esplosione, di sgorgo, il senso di freschezza e di “inauditezza” dell’Infinito (suoi I segnali dell’infinito, 1985; La svolta dell’idillio, 2018, Il Mulino, il nuovo commento ai Canti, Guanda, 2019). L’originalità leopardiana non consiste nell’ennesima riproposta di un infinito cosmico; Blasucci ha precisato come pur nell’affinità delle parole di Pascal: «Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie», Leopardi si differenzi perché il suo è un infinito mentale, gratificante, «Io nel pensier mi fingo», vero “motore” dell’Infinito. Silvano Tagliagambe, ha ribadito l’importanza di tale infinito interiore e del decentramento dell’io rispetto a se stesso. Per Sergio Givone, Leopardi prende le distanze da Pascal e sceglie la via lucreziana del naufragio dolce. (Su Pascal, il nulla e l’infinito anche Luigi Capitano, Leopardi. L’alba del nichilismo, Orthotes, 2016). Marco Bersanelli, illustrando la struttura dell’universo fisico, ha notato come «Leopardi abbia prefigurato alcuni aspetti che ci troviamo davanti agli occhi oggi, nella ricerca cosmologica». (A tal proposito, Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi L’infinita scienza di Leopardi, Scienza express, 2019). Paolo Zellini (tra i suoi libri, Breve storia dell’infinito, Adelphi, 1980) ha parlato dell’inclinazione per l’infinito come carattere stesso del desiderio, dell’afflizione della vita mortale, evidenziando la natura negativa dell’infinito potenziale e sincategorematico. Ha mostrato poi come la teoria degli insiemi di Cantor aprisse le porte a un paradiso teoretico, in realtà un abisso, prospettando l’esistenza di una serie interminabile di infiniti attuali aumentabili. Dell’infinito come narrazione di un processo spirituale, interiore, ha scritto Adriano Tilgher nel 1940, (è suo La filosofia di Leopardi, a cura di Raoul Bruni, Aragno, 2018).
Gaetano Lettieri ha spiegato che la letteratura patristica, in special modo Gregorio di Nissa e i cappadoci rovesciarono la concezione aristotelica dell’infinito negativo prospettandolo come un attributo divino e ha postulato un’influenza diretta e potentissima di questa scaturigine patristica sulle categorie del romanticismo tedesco. Luigi Reitani (a sua cura Tutte le liriche e Prose, teatro, lettere di Friedrich Hölderlin, i “Meridiani”, Mondadori, II vol.) ha parlato del concetto di infinito nel romanticismo tedesco, facendo risaltare l’importanza di Jacobi nella trasmissione di tale concetto almeno fino a Hegel e stabilendo anche dei nessi significativi tra Hölderlin e Leopardi. Fiorenza Ceragioli ha messo in luce come il giovane Leopardi accolga in sé l’infinito, evidenziando il suo atteggiamento di ricerca e di apertura al mondo. Gli aspetti ai quali si faceva cenno all’inizio di questo discorso sono stati ribaditi da Gilberto Lonardi che, oltre a soffermarsi sulle tenebre del ’19, ha indicato, tra le molte altre cose, il naufragio alla fine dell’avventura come il «guadagno pratico-eudaimonistico» di una medicina (L’Oro di Omero, Marsilio 2005, L’Achille dei Canti, Le Lettere, 2017 e il suo nuovo Il mappamondo di Giacomo, Marsilio, 2019). Franco D’Intino ha approfondito il rimando a un oltre sempre inafferrabile, alla proiezione in avanti che non cessa mai e che accomuna pensiero e desiderio. Ha ricordato anche la condizione leopardiana di recluso che sognava di «partire alla ventura e naufragare» (come si può leggere ne La caduta e il ritorno, Quodlibet, 2019).
In conclusione, Antonio Prete (suo La poesia del vivente, Bollati Boringhieri, 2019) seguendo il viaggio dell’Infinito, ha detto che il giovanile idillio «torna a Recanati, come presenza che sosta per poco in un convivio per poi riprendere nuovi cammini. Una presenza che è come un prisma: ogni parola e ogni verso uno specchio che lascia riflettere i movimenti di un pensiero alle prese con la sua più grande sfida: rappresentare quel che si sottrae a ogni rappresentazione».
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Antonella Antonia Paolini
L’INFINITO
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
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