Totò, più caporali che uomini

Il Sole 24 Ore Domenica 23 Febbraio 2020

Storia & cinema. Nei tanti film ambientati in epoche storiche Antonio de Curtis prese sempre di mira le figure del comando: in un partito, in guerra (suo grande bersaglio) o in pace. Diceva: «Io odio i capi, come le dittature»
Totò, più caporali che uomini

Il Sole 24 Ore Domenica 23 Febbraio 2020

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Emilio Gantile,

          «E adesso dove andiamo?», domanda Totò al maggiordomo, che è andato a prenderlo alla Gare de Lyon: «A casa, signor marchese – Perché ho una casa? – Il signor marchese voglia scusarmi se mi sono permesso di chiamare casa il palazzo di Chemantel Chateau – Già, è vero, io ho un palazzo»: «Storico, signor marchese, il più bello di Parigi», precisa il maggiordomo, ma Totò subito lo zittisce: «Non cominciamo con la storia!».
Il dialogo è nel film Totò a Parigi, diretto da Camillo Mastrocinque nel 1958. La frase finale rivela che a Totò, la storia non piaceva. Probabilmente non piaceva neppure al principe Antonio de Curtis, altezza imperiale, discendente da Costantino. Tuttavia, il principe sosteneva che fra lui e Totò vi era una «differenza abissale»: de Curtis era un persona perbene, compassata, seria, riservatissima, mentre Totò era un buffone, burino e villano, che il principe teneva con sé solo perché sfruttava il lavoro del comico per vivere in modo agiato e munifico.
La «differenza abissale» fra de Curtis e Totò è stata riproposta dagli esperti in «totologia», ma ci sono motivi per non credere a un effettivo sdoppiamento di personalità. Il motivo principale è la visione della vita e della storia, la stessa per entrambi: Totò la manifesta nel cinema, il principe nelle poesie, che esprimono, sono parole sue, «tutto ciò che è più, e veramente mio».
Il principe considera la storia umana una sequela ininterrotta di esperienze di vita, nelle quali prevale l’ingiustizia del destino: «’A vita è ingiusta pecché è fatta a scale./ Ognuno sta piazzato a nu scalino,/ ma ’sti scalini nun so’ tutte eguale:/ so’ state predisposte da ’o destino/ ch’ha regolato chesta umanità». Nel film Uomini o caporali (1955), il comico espone così la sua visione della storia: «L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali.              La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla sempre al posto di comando spesso senza averne l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque». Se nel 1955 il comico riteneva che i caporali fossero una minoranza, nel 1963 il principe precisa: «Quella mia battuta “siamo uomini o caporali” non è affatto un gioco. Il mondo io lo divido così, in uomini e caporali. E più vado avanti, più scopro che di caporali ce ne son tanti, di uomini ce ne sono pochissimi»; i caporali «sono quelli che vogliono essere capi. C’è un partito e sono capi. Cambia il partito e sono capi.                C’è la guerra e sono capi. C’è la pace e sono capi. Sempre gli stessi. Io odio i capi come le dittature».
Nella storia, Antonio/Totò vede il perenne trionfo dei caporali: «’O munno è ghiuto sempe ’e sta manera:/’o pesce gruosso magna ’o piccerillo». Antonio/Totò odia soprattutto «’sti pupazze ’e carne affocaggente», come li definisce nella poesia Chi è ll’ommo?, cioè i capi che fanno scoppiare le guerre: «Senza penzà ca’ ’o popolo:/ mamme, mugliere e figlie,/ chiagneno a tante ’e lacreme./ Distrutte sò ’e famiglie». La storia è il Caporale massimo. E de Curtis usa Totò, con le sue molteplici incarnazioni teatrali e cinematografiche, per «spernacchiare» la storia, spiegando però che la pernacchia «ha tanti scopi: deride, protesta, esplode con un grido di dolore, è sommessa come un sospiro, rassegnata come un lamento».
In gran parte dei suoi film, ambientati in epoche storiche, dall’Egitto dei faraoni all’Italia del “miracolo economico”, Antonio/Totò ridicolizza i grandi uomini, dissacra gli ideali e le istituzioni con i capi che pretendono di rappresentarle per decidere il destino della gente comune, per la vita e per la morte. Egli odia soprattutto la guerra, il bersaglio principale della sua satira sin dai primi film fatti dopo il 1945, come I due orfanelli (1947) e Yvonne la nuit (1949). Nel primo, Totò è, a un certo momento, Napoleone che si eccita alla visione della battaglia: «Che spirito eroico! Mi esalta!» – «Sire, ci avviciniamo per vedere meglio?» – «Aho! Io mi esalto perché sto lontano. A’ marescià, date retta a me: è meglio star lontano dalle battaglie!». Nel secondo film, Totò è Nino, modesto attore di varietà, richiamato al fronte nella Grande Guerra: «Ma guarda un po’ cosa deve capitare a un galantuomo che pensa ai fatti suoi. Mi spediscono in trincea, sotto la pioggia, senza ombrello, a morire di freddo e a fare a schioppettate con un nemico che io non conosco». Nel 1949, l’evocazione negativa della Grande Guerra era molto singolare, perché il mito patriottico della guerra contro i tedeschi, rinnovato dalla Resistenza, era ancora vivo nell’Italia repubblicana: La Grande Guerra di Mario Monicelli sarebbe venuta ben dieci anni dopo. E più volte bersaglio della satira di Totò furono Mussolini e il fascismo, o con la parodia della voce stentorea del duce, gridando «Vincere! E vinceremo!». Come nel film I due colonnelli (1962), oppure impersonando in Totò diabolicus (1962) un nostalgico generale della milizia, uscito di senno, che nella sua villa fa fucilare in effigie Roosevelt, Churchill, De Gaulle, Parri e Fanfani.
Attraverso Totò, che incarna nei film a volte i “caporali”, a volte gli “uomini”, nel loro perenne antagonismo, de Curtis esprime una visione tragica della vita, non considerandola come «un dono che ti ha fatto la natura»: «Guerre, miserie, famma, malatie,/ crestiane addeventate pelle e ossa,/ e tanta giuventù c’ ’o culo ’a fossa,/ Chisto nun è ’nu dono, è ’nfamità». E non è più ottimista la concezione dell’uomo in generale, che Antonio/Totò considera incline alla malvagità: «La bestia umana è un animale ingrato», insegna il ciuccio Ludovico al cavallo Sarchiapone: «So’ chiste tutte ’e sentimente umane:/’ammiria, ll’egoismo, e a falsità».
Per Antonio/Totò, spernacchiare la storia è un modo di sfidare il potere dei caporali e denudare l’ipocrisia e la malvagità umana, rappresentando la vita, nella sua realtà, con disperazione gioiosa: la disperazione per sé, la gioia per il pubblico. E sarebbe stato contento di sapere che Giacomo Leopardi la pensava come lui: «Chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire».

 

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