Il Sole 24 ore Domenica 01 MARZO 2020

L’Italia, l’Europa. Viene ora riproposta l’opera di Vincenzo sugli scritti del padre Francesco Saverio: una testimonianza preziosa su una stagione drammatica, tra la catastrofe della Grande Guerra e l’avvento della dittatura

Nitti e lo sguardo del figlio

Luigi Mascilli Migliorini

Quando Francesco Saverio Nitti arriva a Parigi nel gennaio del 1926, installandosi in quella casa di rue Vavin che non tarda a diventare un luogo di riferimento di molta parte dell’antifascismo italiano, si porta dietro le tracce di una dolorosa stagione.

Quell’esilio era cominciato già un anno e mezzo prima, a Zurigo, quando la devastazione della sua casa romana prima e poi le aggressioni fasciste che colpiscono Giovanni Amendola prima e poi Giacomo Matteotti lo avevano convinto ad allontanarsi dall’Italia, lui che era stato non solo un protagonista politico ma un rappresentante istituzionale di quella Italia liberale travolta dalla dittatura: più volte ministro, due volte presidente del Consiglio.
Alle spalle Nitti ha anche una delle fasi più intense della sua sempre fertile biografia intellettuale. Nei giorni in cui aveva partecipato da vicino alla sistemazione dell’Europa e non solo, a Versailles, quando si era trattato di punire assai oltre la misura dovuta la “colpa” tedesca della Grande guerra, a Sanremo quando, giusto cento anni fa, nella primavera del 1920 aveva visto all’opera i suoi colleghi francesi e inglesi per una sistemazione del Medio Oriente che si annunciava (e lo vediamo ancora oggi) non meno disastrosa di quella immaginata per l’Europa, non gli era stato difficile capire che la crisi che toccava drammaticamente l’Italia era solo il frammento di una più vasta e assai più drammatica crisi che investiva l’Europa uscita dal conflitto mondiale.

Da questa constatazione prendono vita Europa senza pace, La decadenza dell’Europa, La tragedia dell’Europa, le opere che compongono la trilogia pensata e scritta tra il 1921 e il 1923 in quella sorta di primo, domestico esilio che per Nitti diventa allora la villa di Acquafredda di Maratea. Si racconta in esse di un mondo nel quale sia i vincitori che i vinti, e forse più i vincitori, portano le stimmate di una guerra che ha totalmente sconvolto i principi etici, sociali e soprattutto economici, sui quali si era fondata la civiltà europea nell’età moderna, quella che, erede del 1789, si era poi proiettata nel lungo XIX secolo. «Il mondo di ieri», insomma, per dirla con il titolo di un libro poi famoso, il cui autore, Stefan Zweig, non aveva mancato di incrociare pensieri e angosce dell’esule Nitti, e il congedo dal quale non sarebbe stato né breve né indolore, come si sarebbe visto quando i fantasmi che Nitti provava ad esorcizzare con la sua infaticabile scrittura avrebbero assunto la sostanza della barbarie nazista.

A questa che potremmo chiamare – pensando a un altro grande libro di quegli anni – una “biblioteca faustiana”, nella quale la certezza della catastrofe che attende tutti non impedisce a ciascuno di provare a fare tutto quello che è giusto e possibile perché non accada, appartiene anche il libro che Vincenzo Nitti, il figlio primogenito, dedica a L’opera di Nitti e che Piero Gobetti pubblica nel 1924, poco dopo aver dato alle stampe il terzo volume della “trilogia europea” di Francesco Saverio. Avendolo di nuovo tra le mani, grazie alla benemerita iniziativa di Bartolo Gariglio e del Comitato per le edizioni gobettiane che vanta ormai, dal 2011, la pubblicazione di più di settanta opere, ci si accorge subito della non semplice condizione di un figlio poco più che ventenne, che non aveva, però, esitato ad arruolarsi volontario in quella guerra di cui ora doveva verificare le devastanti conseguenze, che era stato anche fatto prigioniero a Caporetto, ed era chiamato a riflettere sul “lavoro in corso” di un padre che si era opposto alla sua scelta di partire volontario e che aveva visto la sua vita politica e non solo sconvolta dalle conseguenze, appunto, della guerra.

Vincenzo rivela, però, sin dalle prime pagine la maturità di un uomo a cui l’esperienza diretta del fronte ha insegnato non meno delle parole del padre e non meno di esse ha già tracciato davanti a lui il cammino di una scelta civile alla quale egli rimarrà costantemente legato. Sono pagine, dunque, di una generazione che ha fatto la guerra, più nervose, più problematiche di quelle che aveva potuto scrivere Francesco Saverio, ma intinte nella stessa percezione di una tragedia che è appena all’inizio. Il dopoguerra, infatti, segnala ovunque in Europa, quella dei vincitori come quella dei vinti, una generale inquietudine che oppone allo sforzo analitico della prima indagine storica e politica (quella tentata appunto da Francesco Saverio) l’ostacolo del disordinato accavallarsi di domande per le quali sembra non esserci ancora risposta. «Era il malessere determinato dalla guerra – si chiede Vincenzo con lo spirito di un reduce – era il ritorno dei soldati che avevano molta irrequietezza e si piegavano mal volentieri alla disciplina del lavoro, era lo spettacolo delle grandi fortune, accumulate durante la guerra, era l’eco delle grandi promesse fatte (tutto è di tutti, la terra ai contadini ecc.), era l’illusione della Russia? Chi può dire? Forse erano tutte queste cose insieme».

Vincenzo sa che, per quanto intelligente e coraggiosa, l’opera del padre nel tormentato anno tra il 1919 e il 1920 in cui era stato presidente del Consiglio, non aveva potuto rispondere a nessuno dei suoi interrogativi. Li aveva, però, compresi nella loro pericolosità, cercando invano una sponda in quella Conferenza a Versailles che, commenta il figlio, «doveva essere della pace e fu invece la rovina dell’Europa».

Nella terra desolata che è l’Europa dove, nel 1919, sono crollati tutti gli equilibri costruiti cento anni prima a Vienna e parzialmente, faticosamente conservati fino a quel momento, l’Italia avrebbe potuto giocare il ruolo inedito di una media potenza diventata, per l’inatteso svolgimento degli avvenimenti – il crollo dei grandi Imperi, la rivoluzione in Russia, l’isolazionismo americano – un decisivo elemento di mediazione. «Fra i grandi gruppi in contesa in Europa – spiega – l’Italia deve essere un elemento di equilibrio e rappresentare una forza di pace…L’Italia può e deve essere l’arbitra di molte situazioni europee, a condizione di non essere nazionalista».
Non fu così e l’Italia e l’Europa si avvitarono in un gioco di specchi e di angosce reciproche nel quale il fallimento di Versailles compromise la vita democratica italiana e una dittatura esasperatamente nazionalista aggravò l’orizzonte della instabilità europea.

Pagine lucide quelle di Vincenzo, non meno di quelle del padre, che a leggerle oggi, in momenti che sarebbe miserevole paragonare alla tragedia di allora, ma dei quali merita sempre avvertire la densa pesantezza del disorientamento collettivo, spiegano da sole l’importanza della riproposizione di quest’opera.

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Vincenzo Nitti, «L’opera di Nitti», Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pagg. 290, € 28

 

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