Cultura del cibo. I rapporti fra inglesi e italiani ricostruiti attraverso i nostri piatti arrivati in Inghilterra. A fine ’300 giunsero le lasagne e durante l’incendio del 1666 ci si preoccupò di salvare il Parmigiano

Londra conquistata da una spaghettata

MANGIA PASTA                                                                 Renato Guttuso, Uomo che mangia gli spaghetti, 1956

Da IL SOLE 24ORE – DOMENICA- 9 marzo 2020

Lina Bolzoni

C’era una volta il mitico gruppo di Reading. Ovvero c’era una università inglese dove, negli anni Sessanta, si sono trovati insieme dei giovani italiani, all’inizio della loro carriera, destinati, in modo diverso, a svolgere un ruolo importante sulla scena internazionale. Tra i primi erano arrivati Giulio Lepschy, che sarebbe diventato un grande maestro della linguistica e della storia della lingua, e Luigi Meneghello, reduce dall’esperienza partigiana, l’indimenticabile autore di testi come Libera nos a Malo o I piccoli maestri. Poi era arrivato Lino Pertile, che avrebbe insegnato a Harvard, avrebbe diretto Villa I Tatti (il centro di studi rinascimentali che Bernard Berenson ha voluto creare nella sua villa, lasciandolo in eredità ad Harvard), e si sarebbe dedicato soprattutto agli studi danteschi, conquistando all’amore per il nostro poeta generazioni di studenti americani di diverse discipline. Fra di loro, quel Matthew Pearl che, ispirandosi alle pene dell’Inferno dantesco, scrive un tenebroso best seller come Il circolo di Dante.

E sempre a Reading troviamo l’autore del nostro libro, Diego Zancani. Vi arriva come lettore di italiano e sarebbe poi diventato professore a Oxford, affiliato a uno dei collegi più antichi dell’Università, Balliol College; per molti anni sarebbe stato Praefectus di Holywell Manor, il centro di studi post-laurea di Balliol. Questo libro, frutto di molti anni di ricerca nella Bodleian Library di Oxford (che infatti ne è l’editrice), è uno specchio fedele degli interessi e direi della personalità del suo autore. Vi troviamo una precisa attenzione per la lingua (preziose le osservazioni su origini e varietà dei nomi che i cibi assumono: consiglio, ad esempio, la discussione sulla etimologia di pizza); la ricostruzione storica si regge su una puntuale documentazione, spesso inedita, e vive di racconti, di episodi, spesso raccontati con arguzia; c’è un forte interesse per aspetti apparentemente secondari, “popolari”, dialettali della nostra cultura; veniamo inoltre conquistati da una scrittura accattivante, da una capacità di narrare che non nasconde l’amore, la personale esperienza che lega l’autore al tema che tratta: appunto il cibo, la presenza del cibo italiano in Inghilterra, attraverso i secoli. Infatti le ricette accompagnano il testo, così come lo arricchisce un imponente apparato di immagini, spesso ricavato dai preziosi manoscritti delle biblioteche di Oxford. E via via riaffiorano i ricordi: dei piatti cucinati dalla madre e dai nonni, e di quelli a cui lui stesso si è dedicato, con un gusto sperimentale e una maestria che non sono certo inferiori alle sue doti di ricercatore e di insegnante. Piatti, salumi, vini del Piacentino, terra di origine del nostro autore, compaiono spesso, con apprezzamenti e nostalgia, mentre ai lettori fanno venire l’acquolina in bocca.

Il libro prende avvio appunto dall’arrivo a Reading, alla fine degli anni Sessanta, dallo sguardo perplesso e un po’ sospettoso che gli rivolge la padrona di casa quando chiede un po’ d’olio per condire i duri piselli che si ritrova nel piatto. Scopre così che l’olio d’oliva non si usa in cucina, è venduto solo in farmacia, in piccole confezioni che servono a usi medicinali.

Zancani parte da qui, da un’esperienza che sembra paradossale oggi, quando pasta, pizza, olio, si trovano normalmente nei supermercati inglesi, per compiere un lungo viaggio nel passato, a cominciare da quando i romani portarono nell’isola conquistata anche le olive, appunto, accanto a una grande varietà di piante, verdure, frutta mediterranee: un tesoro alimentare che fu dimenticato per secoli, di cui il libro documenta la lenta ricomparsa, il progressivo riaffiorare, fino alla vera e propria moda dei tempi più vicini a noi.

Il cibo diventa così il filo rosso attraverso cui ricostruire i rapporti secolari tra Italia e Inghilterra. Si tratta via via di ritrovare le fonti utili: a volte deludenti, in questa ottica, sono i grandi testi letterari (nei Canterbury Tales, ad esempio, Chaucer, che pure era stato più volte in Italia, non fa menzione del cibo italiano), mentre molto utili si rivelano i diari dei pellegrini, i resoconti dei viaggi, dove presto compaiono personaggi femminili. Nel primo Quattrocento, ad esempio, la figlia di un ricco mercante, Margery Kempe, passa per l’Italia nel suo pellegrinaggio in Terra Santa. Analfabeta, detta la storia del viaggio al figlio e a un prete. Mistica, visionaria, e strettamente vegetariana, si rifiuterà di mangiare la carne e viene isolata dai suoi compagni di viaggio, che vuole intrattenere con discorsi edificanti anche durante i pranzi.

Se solo a fine Trecento compare in Inghilterra una ricetta, grosso modo, di lasagne, bisogna aspettare il Cinquecento per trovare testimonianze dei viaggiatori inglesi che si mostrano sensibili al cibo italiano: ad esempio, Sir Richard Guylford, in viaggio per la Terra Santa, racconta di uno splendido banchetto veneziano che culmina col marzapane. Il Cinquecento è del resto l’età in cui la cultura italiana penetra in Inghilterra, anche grazie ai nostri esuli per motivi religiosi, e suscita un misto di fascinazione e di paura. L’Italia, raffinata, decadente e papista, seduce e respinge: una reazione destinata a durare a lungo, ben espressa dal detto An English italianate is a Devil incarnate (un inglese italianizzante è un diavolo incarnato) diffuso fra l’altro da Roger Ascham, che aveva giurato di aver visto più vizi a Venezia in nove giorni che in Inghilterra in nove anni. Tra Cinque e Seicento aumenta anche la conoscenza dei cibi italiani: si traducono libri di ricette, si fanno arrivare dall’Italia capperi, olive, acciughe; il Parmigiano viene apprezzato e diventa un cibo particolarmente caro e prezioso.

Nel 1666 scoppia un incendio a Londra e, ci racconta Samuel Pepys nel suo diario, fa scavare in giardino un buco in cui mettere in salvo i suoi tesori: il suo amico William Penn, il padre del fondatore della Pennsylvania, ci sotterra del vino pregiato, mentre lui mette in salvo una forma di Parmigiano.

A metà Settecento il cibo italiano diventa di moda nelle classi elevate, mentre si diffondono i negozi di italiani che lo vendono. L’Italia diventa tappa obbligata del Grand Tour e la conoscenza dei suoi cibi si diffonde anche nel Nuovo Mondo: appassionato di cucina italiana sarà, ad esempio, Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. In un libro di ricette del 1845 la poetessa Eliza Acton introduce nell’inglese la parola spaghetti.

Con gli immigrati italiani e poi, in anni recenti, con il successo della dieta mediterranea, il cibo italiano si afferma nel mondo anglosassone e insieme si ridisegna, adattandosi ai diversi gusti. Gli italiani, disse un sindaco di Edimburgo, sono venuti da noi a cercare una vita migliore e ci hanno insegnato un modo migliore di vivere. Ci piacerebbe se questa capacità di confrontarsi e di imparare gli uni dagli altri restasse viva anche negli anni della Brexit.

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Diego Zancani, How we fell in love with Italian food, Bodleian Library, Oxford, pagg. 248, £ 25

INNAMORATI DEL CIBO ITALIANO_

 

 

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