978880624192HIG   da IL SOLE 24 ORE DOMENICA 15 MARZO 2020

Classicità. Mauro Bonazzi (Creature di un solo giorno – I greci e il mistero dell’esistenza, Einaudi, pp. 156, euro 12,50) indaga il senso della vita in Grecia: per superare la morte, a seconda degli autori considerati, da Omero a Platone, da Lucrezio a Dante, ciò che ci avvicina agli dei è «giungere là onde partimmo»

Piero Boitani

            Chi acquista questo libro per poco più di una dozzina d’euro fa un affare d’oro. Primo, perché è molto bello e appassionante. Secondo, perché contiene in realtà tre libri: che s’intersecano e s’incontrano in modo mirabile e acquistano maggior luce l’uno dall’altro.
C’è qui, innanzitutto, un vorticoso percorso, esemplare nella sua chiarissima discussione, attraverso alcuni momenti fondamentali dell’antica sapienza greca: il Simposio e il Fedro di Platone, l’ Etica nicomachea di Aristotele, gli scritti di Epicuro, il celebre discorso di Pericle in Tucidide. C’è poi un volo attraverso la poesia, da Pindaro a Wallace Stevens, con un solido ancoraggio in Omero, ma per una rotta che include, per dire, Lucrezio, Dante, Leopardi ed Eliot. Infine, c’è anche un ragionamento serrato attorno al discorso moderno (che qui dovrò trascurare) sulla fragilità (greca) dell’uomo, in particolare quello affidato, non certo a caso, alle e agli intellettuali ebrei, o comunque perseguitati o in fuga dal nazismo: Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt, Erich Auerbach, Walter Benjamin. L’effetto complessivo è quello di una cavalcata esaltante come fosse insieme ad Achille, sul divino cavallo Xanto.
Il libro prende il suo titolo dall’ottava Pitica di Pindaro, che termina: «Creature d’un sol giorno: che cos’è mai qualcuno / che è mai nessuno? Sogno d’un’ombra / è l’uomo. Ma quando luce discenda da un dio / fulgida splende la luce sugli uomini / e dolce è la vita». Siamo “effimeri”, cioè appunto di un solo giorno, e la domanda di Pindaro, per altri versi luogo comune, è radicale: cos’è “qualcuno” ( tis ), cos’è nessuno ( ou tis, il nome che Ulisse dà a Polifemo). Omero, per bocca di Glauco nell’incontro con Diomede nell’ Iliade , aveva detto la stessa cosa, parificando le generazioni umane alle foglie (Mimnermo renderà poi la similitudine individuale: noi, ciascuno di noi, siamo come le foglie).
Il problema, si capisce, è la morte: non il morire in quanto tale, ma il fatto che la morte tolga significato alla vita, a qualunque cosa l’uomo abbia compiuto. C’è un qualche rimedio a tale stato di cose? Semplifico da ora per brevità: un rimedio è accennato da Pindaro stesso: la luce divina, quando c’è, rende dolce la vita: la religione offrirebbe una soluzione, in particolare quella cristiana con la sua fede nella resurrezione della carne. Un’altra via d’uscita è la gloria ( kleos ) che ci si conquista sul campo di battaglia, come i guerrieri dell’ Iliade . Una soluzione sarebbe l’immortalità dell’anima, che Socrate predica nel Fedone di Platone proprio mentre sta per morire. C’è poi la politica, quella cosa che assicura (o dovrebbe assicurare) la sopravvivenza di una comunità: il grande discorso di Pericle in Tucidide, per esempio, va in quella direzione, celebrando Atene e la sua democrazia. Infine, c’è l’amore. Eros combatte contro thanatos , la morte, in primo luogo spingendo verso la perpetuazione della specie, sostiene Diotima nel Simposio e ricostituendo una unità perduta.
La procreazione garantisce una qualche forma di immortalità, e nello stesso tempo procura piacere. Ma può il piacere costituire la vera felicità? Perché è chiaro che il conseguimento della felicità è antidoto fortissimo alla morte. E infatti tutti gli uomini, come dice la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, hanno diritto alla vita, alla libertà e al «perseguimento della felicità». Come si possa perseguire la felicità lo spiegano Platone nel Fedro e Aristotele nell’ Etica nicomachea . Nel primo, vediamo i cocchi alati delle anime salire, guidati da aurighi anch’essi alati, dal desiderio materiale, sensibile (per un bel ragazzo, mettiamo) verso la «pianura della verità». Sono, insieme a quelle del Simposio sulla visione del Bello in sé, tra le pagine più ispirate di Platone e, di converso, di Creature di un sol giorno . Con quelle dedicate all’ Etica nicomachea : nella quale Aristotele punta alla felicità come fine dell’uomo e, scartando la riproduzione biologica e la vita politica, la identifica con l’attività contemplativa: che ci fa immortali e simili agli dei perché “conforme” a virtù e sapienza.
Esplode qui una non piccola sorpresa. Perché dov’è che abbiamo sentito raccomandarci di considerare la nostra “semenza”, cioè la nostra natura, la nostra “funzione propria”? «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» . È Ulisse, nel canto XXVI dell’ Inferno : il quale è dunque “filosofo” (lo era già per Eustazio di Tessalonica) e aristotelico. A quell’Ulisse, come si sa, va male: non raggiunge la felicità, ma la morte per acqua: il naufragio. Il suo “originale doppio”, Dante, ha però miglior fortuna: aiutato dalla grazia divina, lui sì che riesce a contemplare le realtà ultime e a diventare immortale come il sole e l’altre stelle. E il poeta moderno, T.S. Eliot, potrà dunque cantare: «Noi non cesseremo l’esplorazione / e la fine di tutto il nostro esplorare / sarà giungere là onde partimmo».
Il canto XXVI dell’ Inferno è «una potentissima meditazione sulla filosofia, sulla sua grandezza e sui suoi limiti», «una variazione … sul tema della felicità»: millesettecento anni dopo Aristotele, e seimila (secondo le computazioni dantesche) dopo Adamo, mette in scena il fallimento della ragione umana. Se gli uomini avessero potuto vedere «tutto», dice il Virgilio di Dante in Purgatorio III, non ci sarebbe stato bisogno che Maria desse alla luce il Cristo. E molti – Aristotele, Platone ed egli stesso, Virgilio – hanno intrattenuto lo stesso desiderio, l’ardore di Ulisse, che invece è divenuto loro «lutto», loro dannazione.
La salvezza non è senza, o contro, Dio, ma con Dio. Così Dante. Ma se Dio è morto? Se, come rileva Nietzsche, e come vorrebbe fare l’Achab di Moby Dick , lo abbiamo ammazzato? Si potrebbe prendere il problema dal corno opposto, dichiarare che «la morte non è nulla per noi»: lo fa Epicuro e, con lui, Lucrezio. Bastano la coscienza di essere nati e il vivere godendo la vita: la felicità sarebbe un equilibrio tra sé e il resto: come «la tranquillità immobile del mare o la lucente serenità del cielo»: allora sarebbe «morta, la morte», come esclama sbalordito l’Ivan Il’ič di Tolstoj mentre spira. Ma per essere immortali e felici come gli dei, dovremmo rinunciare alla nostra umanità, cosa che per esempio l’Ulisse di Omero rifiuta quando Calipso gli offre l’immortalità senza vecchiaia.
Allora? Allora: accettare di essere e vivere come creature di un sol giorno, ma rivendicare il valore dei nostri progetti: accontentarci della conoscenza che sant’Agostino chiama «vespertina» (ma che gli angeli, i quali possiedono solo quella «mattutina», secondo Rilke ci invidiano). E tenere a mente il verso di Wallace Stevens con il quale, in finale sorpresa, questo libro coinvolgente si chiude: «Death is the mother of beauty », la morte è madre della bellezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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