La mia cara amica Carmela Biscaglia, con un gesto di sensibilità e amicizia, che tanto più apprezzo in quanto suppongo che si sia ispirata al senso storico del post Il formaggio e i vermi pubblicato su questo blog, mi ha inviato un articolo della prof. Maria Antonietta De Cristofaro, storica della Deputazione di storia patria per la Lucania, che negli anni Ottanta pubblicò il saggio da cui Carmela trasse spunto per l’articolo dove, nel profilo del vescovo, inserisce una memoria sulla peste a Tricarico nel 1657. L’articolo è pubblicato in «Fermenti» maggio-giugno 1991 col titolo «Pier Luigi Carafa junior vescovo di Tricarico e la peste del 1657 nella sua diocesi».

L’articolo della professoressa De Cristofaro, intitolato La peste del 1657 a Tricarico, è stato pubblicato martedì 14 marzo 2020 in La Nuova del Sud, dove si può leggere e – mi informa Carmela – ogni martedì il presidente della Deputazione fa uscire un articolo sulla storia regionale.

Ritengo che sia interessante divulgare questa storia della peste a Tricarico nel 1657 non fosse altro che per riflettere come i comportamenti umani pur nel trascorrere dei secoli, non cambiano. Di più. In questo tempo di Covid 19, io e Titina e le nostre, rispettivamente, nuora e nipote Sabrina e Virginia, teniamo in vita un filo di continuità terapeutica.

Nel 1656 “un’acerba pestilenza”, scrive il Racioppi, colpì il meridione d’Italia ad eccezione delle province di Otranto e di Calabria dove il contagio non arrivò. L’epidemia scoppiò a Napoli agli inizi dell’anno e, secondo il Giannone, sarebbe stata portata da una nave proveniente dalla Sardegna dove infieriva già da alcuni anni.

Nella capitale partenopea il morbo raggiunse l’apice tra maggio e luglio per poi propagarsi, nei mesi estivi, nelle province del Regno con tale intensità da essere paragonata alla “peste nera” del secolo XIV. E forse la velocità con cui si sviluppò il contagio fu dovuta al fatto che fino a maggio fu praticamente ignorata dalle autorità le quali, addirittura, pretesero di punire chi solo avesse osato parlarne.
A Napoli la situazione restò difficilissima. Si era passati da una media dei decessi a maggio di 150 al giorno a quella di 1.000-1.500 nella metà del mese successivo, mentre correvano le prime voci su presunti “untori” che propagavano il morbo “cospargendo di polveri venefiche i muri delle strade e le porte delle case” con la conseguente caccia ai colpevoli e la loro tragica fine.

La Basilicata, riporta Giustino Fortunato, perse un quarto della propria popolazione, passando da 200.000 abitanti a 150.000. La massima intensità del morbo fu toccata tra il mese di settembre e quello di ottobre e la drammaticità dell’evento è testimoniata dalle annotazioni contenute nei libri parrocchiali dei morti. La drammaticità dell’evento, al di là dei dati demografici, si evince chiaramente dai documenti del tempo dove la peste, oltre ad essere indicata come la causa principale dello spopolamento di intere zone, è vista come un flagello che non risparmiò né poveri né ricchi.

Naturalmente si moltiplicarono le processioni, le penitenze e le cerimonie religiose le quali, essendo di natura collettiva, propagarono ancor di più il morbo.

Gli unici provvedimenti seri furono l’organizzazione di lazzaretti lontani dai centri abitati e la sepoltura dei cadaveri in zone distanti dalle cittadine, ma la tardività con cui furono presi li rese praticamente inefficaci. «Ordiniamo e comandiamo a tutte le città e terre del presente Regno – recitava una delle ordinanze – che facciano la solita guardia e tutte le diligenze necessarie e non ammettano in esse persona alcuna di una terra all’altra se non porteranno i soliti bollettini di salute di questa città o terra da dove saranno partite».

Vennero, altresì, stabilite pesanti pene per i trasgressori mentre furono emanati bandi comunali «che prescrivevano a medici, a guardie, ai cittadini tutti di evitare ogni individuo sospetto, ogni commerciante: tutto si doveva passare con l’aceto».

L’ulteriore propagarsi del morbo porta ad un intensificarsi delle restrizioni, pur tra le opposizioni dei privati: vengono apposti i sigilli a tutti i “fondaci di merciaria e tessuti della città”, considerati “naturale ricettacolo degli animali sospettati di diffondere il contagio quali pulci, zecche, ecc.”, allestiti, secondo la gravità del contagio, quattro lazzaretti (“uno uomini et uno di donne sospetti non stati ammalati, uno di convalescenti, et uno di infermi”).

A dicembre vengono soppressi tutti i gatti e i cani presenti in città, mentre le galline vengono confinate in un solo luogo.
A Napoli il morbo, dopo aver mietuto dalle 240 alle 270 mila vittime, era formalmente cessato nel dicembre del 1676 quando, “con solenni feste in santa Maria di Costantinopoli, si dichiarò finalmente concluso lo stato di epidemia proclamato nel precedente maggio”.

Si è visto il credito dell’aceto come misura di profilassi, che torna spesso, utilizzato in vari modi per pulire, prevenire e disinfettare, nei numerosi scritti che si possono rinvenire scorrendo Internet. All’utilizzazione dell’aceto fa cenno anche Carmela Biscaglia. La pestilenza che aveva devastato Tricarico – riferisce – si attenuò alla fine di novembre. Si lavarono i sopravvissuti con l’aceto; all’apertura delle chiese, gli ecclesiastici ripresero timidamente le celebrazioni, tenendosi lontani dai fedeli, usando calici pieni di aceto, custodendo gelosamente i paramenti.

Facciamo un salto fino al primo dopoguerra (1918-19), all’influenza spagnola, della quale non si è ancora spento il ricordo.
La spagnola fu una pandemia influenzale insolitamente mortale, che uccise decine di milioni di persone nel mondo, arrivando a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo e riducendo notevolmente l’aspettativa di vita del XX secolo, in quanto la maggior parte delle epidemie influenzali uccide quasi esclusivamente pazienti anziani o già indeboliti; al contrario, la spagnola uccise prevalentemente giovani adulti precedentemente sani.

Circolava in casa De Maria di Tricarico – la famiglia di mia moglie Titina – la leggenda che ad Accettura la spagnola provocò limitatissimi effetti letali. Raccontava mio suocero, don Mimì, nato ad Accettura nel 1905, che il padre, Giovanni, medico condotto di quell’incantevole paese, che aveva una certa conoscenza dei suddetti precedenti storici, trattò la terribile malattia con abbondante uso di aceto per lavaggi e soprattutto gargarismi. Temperamento autoritario egli comandava e imponeva di fare gargarismi con l’aceto. Merito dell’aceto o del clima delle foreste che circondano Accettura, certo morti ce ne furono ben pochi e il dott. Giovanni De Maria fu ufficialmente elogiato.

Questa leggenda mi fa sorridere e io, per l’appunto, la definisco leggenda familiare; Titina si arrabbia, lei valuta la pratica medica del nonno … con l’aceto la maggior gloria della famiglia. Ed ora, nel terribile tempo del Convidi 19, ha imposto anche a me di fare gargarismi con l’aceto quando esco da casa (rarissimamente, per necessità) o quando, altrettanto raramente, in casa viene qualcuno (per le pulizie o portare acquisti). Titina ha più fiducia dell’aceto che delle mascherine, che peraltro noi due non abbiamo e sono introvabili. Sabrina e Virginia hanno aderito volontariamente alla prevenzione all’aceto, ma Virginia, 15 anni, non ha bisogno di eseguire, perché da casa non esce, frequenta in video conferenza la scuola, che è chiusa.

 

5 Responses to La peste del 1657 a Tricarico

  1. Antonio Martino ha detto:

    L’aceto è una medicina popolare usata in Cina per impedire la diffusione di virus.
    Il mio scetticismo vacilla sempre più. Come mai le vittime del coronavirus in Italia sono di più di quelle cinesi?

  2. Domenico Langerano ha detto:

    Caro Antonio,
    ho notato che nei tuoi scritti quasi sempre ti diverti a deporre dei grani di arguzia, soprattutto negli episodi-aneddoti, per questo é simpatico leggerti.
    Credo che sia di persone di grande autocontrollo, questo notavo anche in don Rocco Mazzarone.
    Io invece non riesco a trattenere la rabbia per situazioni che non condivido soprattutto quando sottintendono opportunismi e codardìa, ma ad aggravare la rabbia, mi fanno notare i figli, forse per qualche conclamato problema di udito, é che grido mio malgrado e mi difendo aggrappandomi a un ipotetico ‘naturale’ tono di voce.
    Buona prigionìa
    Mimmo

  3. D. Jankovich ha detto:

    Caro Antonio,
    come sempre è un piacere leggere i suoi scritti.
    Purtroppo siamo entrati in un cataclisma che lascia poco spazio per comprendere quello che succede.
    I quarantaquattro medici caduti sul campo, nostro paese
    con il primato di morti nel mondo intero, la segregazione
    necessaria e l’incognita del futuro dei nostri figli e nipoti è un’esperienza spaventosa.
    Spereem e la giusta parola per un milanese doc come lo sono io.
    Buona giornata.
    Dusco

    • Antonio Martino ha detto:

      Carissimo Dusko,
      Ciò che sta succedendo è chiarissimo e semplice: l’umanità intera è attaccata da pandemia globale che non fa distinzione di nessun genere e di nessun luogo. Lei scrive “il nostro paese con il primato dei morti nel mondo intero”, non fa nemmeno in tempo a scriverlo che il maggior numero di morti (non adoperiamo il termine “primato”) si registra negli USA. Tutto questo finirà e il mondo entrerà in un’altra epoca. Forse migliore di questa che noi, vecchi novantenni, stiamo per lasciare. Un abbraccio, Antonio

  4. Paolo ha detto:

    Un plauso a quel Medico di campagna di Tanfuciana memoria! Ben si evince una ricetta topica della scuola “Medica Salernitana”:
    “Acqua (bollita e leggermente calda, aceto e sale”!

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