E’ umana cosa: una meditazione sul tempo presente
Tutti abbiamo davanti agli occhi la visione in TV dello scorrere incessante nel bergamasco di autoambulanze e di automezzi militari che trasportano feretri non si sa dove. È una situazione che merita lacrime, ognuna delle quali vale più di ogni «andrà tutto bene». Piero Stefani in una meditazione scritta per il sito delle ACLI di Bergamo osserva che se nel caleidoscopio delle umane vicende manca la compassione tutte le altre realtà, comprese le più belle e gioiose, diventano banali e insignificanti.
Rabatana ripropone tale meditazione.
È umana cosa
Riproduzione del testo scritto per il sito delle ACLI di Bergamo
(www.moltefedi@aclibergamo.it)
In queste settimane, tra i tanti messaggi che ci circondano, non sono mancati i richiami al Decameron. Come è noto, Giovanni Boccaccio ambienta le sue cento novelle in un periodo in cui imperversava la peste. Da qui scaturisce il fin troppo facile riferimento. A noi però basta soffermarci sulla prima riga del Proemio: «umana cosa è l’aver compassione degli afflitti». Il testo poi prosegue affermando che ciò riguarda più di tutti coloro che hanno dato o ricevuto conforto.
Si deve al Boccaccio aver qualificato con l’aggettivo «Divina» la Commedia di Dante; quando iniziava il suo Decameron evocando l’umano, il grande autore sapeva di parlare della terra e non dell’aldilà. Tra i molti vetrini del caleidoscopio in cui si rifrangono le vicende trasmesseci dal suo novellare, la scelta prima è andata alla «compassione per gli afflitti»; quasi a voler dire che nella vita umana non c’è certo solo la compassione, tuttavia se manca quella tutte le altre realtà, comprese le belle e le giocose, diventano banali e insignificanti.
In un certo senso l’aver compassione degli afflitti come «umana cosa» trova corrispondenza anche nella parabola del «buon Samaritano» (Luca 10, 29-36). Essa è diventata uno degli emblemi per eccellenza del soccorso. L’organizzazione umanitaria evangelicale americana che ha eretto l’ospedale da campo (reale non metaforico) a Cremona si denomina Samaritan’s Purse («Borsa del Samaritano»). Nella sua presentazione si legge che il nome è stato scelto perché con quella parabola Gesù ha insegnato cosa significa il comandamento che prescrive di amare il prossimo come se stessi (Levitico 19, 18; Lc 10,27).
È vero, la parabola inizia con un riferimento al comandamento, ma nel suo sviluppo il precetto è poi posto come tra parentesi. Il Samaritano agisce non per obbedire a un comando ma perché vide il ferito «e ne ebbe compassione» (Lc 10, 33). È lo stesso verbo impiegato da Luca per indicare quel che provò Gesù alla vista della vedova a Nain (Lc 7,11). «È umana cosa».
Ai bordi della strada c’è un uomo ferito che non è neppure nelle condizioni di gridare aiuto. Non parla. Non c’è dialogo tra chi soccorre e chi è soccorso. Non c’è perché non ci può essere. Al primo immediato aiuto subentra un secondo momento: «lo portò in albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore» (Lc 10, 34-35). Di nuovo non c’è dialogo; c’è soltanto l’atto di consegnare a chi lo custodirà, in attesa di un ritorno di cui non sono specificati i termini.
Il ferito è consegnato all’albergatore che viene pagato perché se ne prenda cura. È giusto che sia così. Neppure il Samaritano, esempio per eccellenza dell’amore del prossimo, ha potuto fare tutto da solo. Anche lui ha affidato ad altri colui che ha soccorso. Ha promesso di tornare: «abbi cura di lui; ciò che spenderai di più, te lo pagherò al mio ritorno» (Lc 10,35). La lettera del testo parla solo del pagamento di un possibile debito; tuttavia ci è consentito immaginare che la volontà di ritornare sia stata sollecitata anche dal desiderio di parlare con l’uomo da lui soccorso. Come farsi davvero prossimo là dove è impossibile il dialogo?
Ospedale, isolamento. C’è chi si prende cura di un sofferente, mentre i più prossimi a lui sono obbligati a restargli lontani. Molti in questi giorni sono paragonabili al Samaritano che ha affidato il ferito all’albergatore nell’attesa di giungere di nuovo da lui. Le parti si sono però invertite; a ritornare a casa adesso deve essere il malato. Mai come ora si comprende che senza le parole e i gesti non c’è autentica prossimità. È necessario affidare all’albergatore chi è colpito dal male; tuttavia, di giorno in giorno, cresce il desiderio del ritorno, accompagnato dalla dolorosa consapevolezza che per troppi quel ritorno non è dato.
Piero Stefani
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Ero ragazzo, avevo quattordici anni e vivevo felice in quel di Calle. Un primo pomeriggio estivo con altro amico ci recammo al vallone di San Chirico che divide il territorio tra il nostro comune
Quel valloncello aveva ancora un buon flusso nonostante le torridi estate e li le polle formavano capienti stagni in cui scivolavano pesci ed anguille che noi si catturata. Giunti sull’altare sponda destra, a mezza costa un traino rovinato e due muli immobilizzati tra stanche, funi e finimenti schiumavano nel tentativo di svincolarsi invano
Poco distante il carrettiere con le gambe insanguinate e distorte giaceva lamentoso. M’avvidi che le aveva tranciate dalle pesanti ruote in ferro, ancor più rese gravi dal carico di grano in sacchi intorno sparsi. Con due corde serrai ben strette le cosce in alto e di corsa alle più vicine case a chiedere soccorso con il mezzo a motore piu comune il autocarro Piaggio. Intanto si era allertato chi nel borgo aveva l’auto per il trasporto all’ospedale del paese. Mi informai dopo qualche giorno e seppi che era in via di guarigione e più tardi ch’era guarito. Ho saputo solo qualche mese fa chi fosse e come si chiamava. Mi han detto ch’era meglio lo lasciassimo morire!
Non so chi sei, Paolo, e non so chi sia la persona di cui avesti umana cura, probabilmente vi ho conosciuti tutti due. Bello questo tuo racconto di “umana cura”. Grazie.