Leonardo Sciascia, Un giallista della verità
Leonardo Sciascia, Un giallista della verità
Leonardo Sciascia. Con i suoi «racconti dal vero» l’autore di Racalmuto è stato precursoree primo esponente italiano di un genere letterario, inaugurato con «A sangue freddo»
Il Sole 24 Ore – Domenica, 5 aprile 2020
Non è l’unico luogo misterioso (o misterico) di Palermo, ma è senza dubbio quello dal maggior blasone letterario. Nella stanza 224 del Grand Hotel et des Palmes, in via Roma, la mattina del 14 luglio 1933 venne rinvenuto su un materasso steso a terra il cadavere del 56enne Raymond Roussel: con indosso «camicia bianca da notte, mutande bianche, calze nere e magliettina di filolana colore champagne». Così suonava, compilato la mattina stessa, il verbale di polizia. Aggiungendo che «il Roussel […] era ammalato al cervello e pigliava dei medicinali per stordirsi», e deducendone che «avendo esagerato nella dose dei farmaci, si sia cagionato la morte». Sono anche le prime righe, queste, di un breve scritto pubblicato da Leonardo Sciascia, nel marzo del 1971, sul «Mondo» (nonché, poche settimane dopo, in uno dei primi libri pubblicati, ancora colla sigla «Edizioni Esse», dagli amici Enzo Sellerio ed Elvira Giorgianni).
Classico dettaglio “giallo”, la porta trovata chiusa dall’interno; e così quella con la stanza comunicante, dove pernottava la signora con la quale Roussel era giunto a Palermo un mese prima. Altrove alloggiava il terzo componente del ménage, il giovane autista della «sontuosa e funebre roulotte» nella quale l’ineffabile scrittore-magnate, nel corso dei suoi interminabili viaggi, passava quasi tutto il tempo: come per incanto il ragazzo, quella mattina, risultava sparito dalla circolazione. Sfogliando le carte dell’inchiesta – i suoi Atti, appunto – Sciascia passa in rassegna i dettagli che non tornano. Loro malgrado, l’indagine di polizia fu «di una rapidità impressionante»: «e sì», commenta, «che i tempi erano sospettosissimi». Osserva poi che i giornali non diedero notizia del fait divers; i suicidi non erano graditi dalle veline di regime, si sa, in quanto sintomo dell’«impossibilità di vivere nell’Italia fascista». E conclude che (proprio perché qualche giorno prima, a quanto pare, aveva già tentato il suicidio ma in circostanze del tutto diverse: debolmente incidendosi i polsi con una lametta di rasoio) «quella sera Roussel non voleva morire; voleva, crediamo, soltanto dormire».
Al di là della verosimiglianza della sua ricostruzione, a interessarci non è tanto il metodo indiziario di Sciascia, oggi, quanto quello letterario. Il decennio precedente gli aveva dato il successo coi “gialli”, appunto, Il giorno della civetta e A ciascuno il suo (il cui protagonista, insoddisfatto di quelle ufficiali, a sua volta svolge indagini private su una morte misteriosa) mentre era passato inosservato, nel ’64, un “saggio-racconto” dal titolo Morte dell’Inquisitore. Nello stesso ’71 Il contesto sarà un nuovo tipo di giallo, dall’allegorica matrice gaddiana. Ma il decennio sarà segnato da altre due «inquisizioni» personali: nel ’75 La scomparsa di Majorana (su un altro caso “eccellente” degli anni Trenta) e nel ’78 L’affaire Moro: giro di vite scritto durante il rapimento e pubblicato a cadavere caldo. Negli anni Ottanta, infine, quelle che Sciascia chiama Cronachette (come Il teatro della memoria, sul caso dello “smemorato di Collegno”) si lasceranno preferire ai suoi romanzi di finzione.
Come ricorda Paolo Squillacioti, sul «Mondo» gli Atti recavano l’indicazione di «racconto giallo dal vero»: e il punto è proprio questo vero. La manualistica indica sempre nel ’66 l’atto di nascita del non-fiction novel, con A sangue freddo di Truman Capote; e, con l’eccezione di Arturo Mazzarella, quasi nessun lettore di Sciascia ha mai considerato in questa chiave la sua “svolta” anni Settanta: che ne farebbe invece tra i primissimi interpreti italiani del genere (anche a non voler considerare La morte dell’inquisitore, la quale addirittura precederebbe la presunta fondazione d’oltreoceano). Un vicolo cieco che deriva dall’equivoco in cui quasi sempre, nel parlare di non-fiction, ci s’imbatte: col ricondurla al «ritorno alla realtà» volontaristicamente propugnato, in filosofia e nelle arti, una volta esauritasi la spinta propulsiva delle poetiche postmoderniste. Ma proprio l’esempio di Sciascia dovrebbe chiarire come le cose siano un po’ meno banali di così.
Nelle conferenze intitolate Il punto cieco, riguardo ai suoi “romanzi di fatti” Anatomia di un istante e L’impostore, qualche anno fa Javier Cercas ha spiegato come «il romanzo non sia il genere delle risposte, ma quello delle domande». Un “vero” romanzo non può far altro che «immergersi in un enigma per farlo diventare irresolubile, non per decifrarlo». Parole che sembrano replicare, quasi quarant’anni dopo, appunto quelle di Sciascia nel libro-intervista di Marcelle Padovani, La Sicilia come metafora: «l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è». Seguiva l’esempio proprio del «caso di Raymond Roussel»: «cercandovi un filo conduttore e un chiarimento, temo di non aver reso le cose più chiare, ma anzi più oscure. C’è però una differenza tra quest’oscurità e quella dell’ignoranza: non si tratta più dell’oscurità dell’inespresso, dell’informe, ma al contrario dell’espresso e del formulato». In quello stesso ’79 il titolo di Nero su nero andrà letto, allora, non tanto come autoironico nei confronti del “pessimismo” che gli veniva rimproverato, ma quale preciso indirizzo di lavoro: all’oscurità di una realtà come spesso è aggiungendosi il nero d’inchiostro di colui che, sforzandosi di decifrarla, finisce per renderla ancora più oscura. Sino al punto cieco di cui parlerà Cercas.
Sebbene proprio in Nero su nero dica Sciascia che in effetti Roussel non gli interessava in quanto scrittore (ad attrarlo era semmai «il suo non essere scrittore»), a rileggere gli Atti col senno dei capolavori successivi, il libro su Majorana e quello su Moro, colpisce però un dettaglio. Due anni dopo la morte verrà pubblicato un saggio-memoriale di Roussel, Come ho scritto alcuni dei miei libri, dal quale si deduce come l’insuperata bizzarria del suo stile fosse tutt’altro che naïve. Al di là del contenuto (che salerà il sangue alle avanguardie di due generazioni), di questo testo sulle “procedure” colpisce però, appunto, la particolare “procedura”: un anno prima della morte, infatti, Roussel lo fa stampare senza tuttavia pubblicarlo (e parrebbe anzi destinarlo, nelle ultime righe, alla «postuma fioritura di interesse nei confronti dei suoi libri»). Ma non è simile la natura – indecibile se dagli interessati pensata o meno come postuma – degli ultimi messaggi di Majorana e Moro? Un dettaglio in apparenza marginale, ma che non pare si possa considerare tale, per uno scrittore come Sciascia. E che forse dovrebbe indurci a riaprire anche gli Atti relativi al suo, di “caso”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
Leonardo Sciascia A cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano, pagg. 69, € 7
Si veda anche Arturo Mazzarella, Politiche dell’irrealtà, Bollati Boringhieri 2011 e Javier Cercas, Il punto cieco, Guanda 2016
Andrea Cortellessa
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