Storia buffa, quasi surreale. Storia di una smodata passione di gola di Giacomo Leopardi, che, a distanza di tempo, come una iattura (la storia si svolge a Napoli e quindi la iattura ci sta tutta) portò alla chiusura, per un articolo dissacratore di Alberto Savinio, con atto censorio fascista della celebre rivista «Omnibus» fondata e diretta da Leo Longanesi. È divertente immaginare che l’atto censorio fu una vendetta postuma del grande poeta recanatese ai danni di quei due posteri ‘dissacratori’, che avevano osato metterlo alla berlina per la sua golosità.

Storia surreale, altresì, favorita dall’abilità narrativa di Gaetano Afeltra, che, in un racconto della storia (Gli impudichi sorbetti che piacevano a Leopardi, «Corriere della Sera» 4 luglio 2010, p. 35), la fece largamente conoscere e agevolò maliziosamente lo scambio della causa (il sorbetto di cui Leopardi era golosissimo) per l’effetto (a cacarella).

Storia per altro verso surreale riguardante  gli atteggiamenti tollerati da Mussolini, ma fino a un certo punto. Grazie a una micro casa editrice bolognese molto interessante e specializzata nel recupero archeologico di rari testi scomparsi dalla memoria collettiva, fu rispolverato un intrigante affaire, in apparenza letterario,  (Alberto Savinio, «Il sorbetto di Leopardi» – Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, con postfazione di Massimo Gatta, che riprende, ampliandolo, l’articolo pubblicato col titolo «Gelato amaro di Leopardi», «Il Sole 24 Ore. 27 gennaio 2013»).

Giacomo Leopardi, negli afosi pomeriggi napoletani, uscendo dalla sua abitazione di Vico Poerio 2, scendeva per Santa Teresa degli Scalzi, costeggiava la mole enorme e inquietante del Palazzo dell’Università, che il conte di Lemos, vicere spagnolo di Napoli, aveva trasformato appunto da caserma in palazzo degli studi, diventata in seguito prima la biblioteca nazionale, dov’era bibliotecario il grande poeta Salvatore Di Giacomo e in seguito Museo Archeologico. Giungeva così in piazza del Mercatello (oggi piazza Dante) e proseguendo per via Toledo (la via Roma fascista, ma mai così chiamata avendo conservato l’antico nome nella memoria e nella parlata dei napoletani, e avendolo ripreso alla caduta del fascismo), si fermava al Caffè d’Italia in piazza San Ferdinando, locale frequentato da scrittori e artisti napoletani.

Leopardi era goloso dei gelati napoletani: nei suoi ultimi anni di vita trascorsi nella città partenopea dal 1833 al 1837, era frequentatore delle bottega di Vito Pinto, rinomato sorbettiere siciliano, il cui locale in piazza Carità era meta del bel mondo cittadino. Il fatto era noto già allo scrittore francese Alessandro Dumas che ne parlò in uno dei suoi romanzi.

Giacomo amava molto il dolce: ricorda il padre nel suo memoriale che con una libbra di zucchero condiva solamente sei tazze di caffè. Amava le dolci sale del letterario “Caffè d’Italia”, in piazza San Ferdinando di Napoli. I Borboni, non meno golosi di Lepardi, apprezzavano a tal punto il piacere dei sorbetti da concedere titoli nobiliari ai maestri artigiani del settote. E il maestro gelatiere Vito Pinto era talmente famoso da giungere al titolo di barone, e venne persino citato da Leoparid in un verso della satira Nuovi credenti: “quell’arte onde barone è Vito”.

L’aroma del caffè del barone Vito profumava ancora l’aria di piazza Carità nel lontanissimo tempo dei miei studi universitari: dopo il  pranzo si scendeva dal Vomero o si veniva dai Campi Flegrei o da ogni altra periferia di Napoli, nobile o popolare, a sorseggiare, a tazzulelle ‘e café di piazza Carità; rigorosamente di piazza Carità. Nero come il diavolo. Caldo come l’inferno. Puro come un angelo. Dolce come l’amore: così, come  Talleyrand voleva il suo caffè, il caffè di piazza Carità era sempre allo stesso modo pregiato, passati più di cento anni.

Non un gelato, ma due, o tre o addirittura quattro Leopardi ne voleva insieme e se li faceva porre uno sopra l’altro, così da comporre una piccola montagna di sciroppi e creme rapprese onde i sapori si fondessero. Amava ordinare porzioni enormi, per le quali la gente intorno lo derideva dicendo « che era più grande il suo gelato di lui ».

Leopardi muore a Napoli il 14 giugno 1937 durante l’epidemia colerica, una morte carica di misteri (Gianni Infusini, Zibaldone di sventure. La difficile morte di Leopardi a Napoli. 150 anni di polemiche, misteri, tradimenti. Napoli, Liguori, 1987), che neppure il celebre volume del caro amico Antonio Ranieri del 1880 riesce a chiarire, anzi (Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, ultima ristampa, con prefazione di Vittorio Russo, Napoli, Berisio, 1965).

Imperversava un’epidemia di colera. In una lettera al padre del 9 marzo del ’37 scriveva: «[…] Io, grazie a Dio, sono salvo dal colera, ma a gran costo. Dopo aver passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascuno giorno seri pericoli di vita ben contati […] il colera, oltre che è attualmente in altre parti del Regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno o quasi ogni giorno, de’ casi che il Governo cerca di nascondere».

Leopardi morì, diciamo, di una leggera colite che i napoletani chiamano à cacarella. Non è che Leopardi non temesse il terribile morbo, egli ne aveva  gran timore e questo timore gli era stato rafforzato dal poeta e drammaturgo tedesco August Karl Maximilian Platen, morto a Siracusa il 5 dicembre 1835, il quale, dicono i biografi, «fu ucciso dalla paura del colera in Siracusa, assai prima che il morbo vi giungesse». Ma più che la paura, l’ebbe vinta il sorbetto.

Gaetano Afeltra porta la storia a conoscenza del grande pubblico con un articolo intitolato Gli impudichi sorbetti che piacevano a Leopardi pubblicato sul Corriere della Sera del 4 luglio 2010, dove rivelò che questo aspetto “privato” della biografia del poeta era da poco comparso in L’0spite della vita (Avagliano editore) del napoletano Vladimiro Bottone.

Nelle pagine del romanzo di Bottoni, scrive Afeltra, «il piacere che Leopardi provava nel gustare quei gelati, ma ancor più nell’0sservare le belle signore che se ne servivano, viene descritto in termini a dir poco lussuriosi: le dame accaldate facevano ressa al buffet per rinfrenscarsi  con quello spumone oblungo, con una testa rotonda in punta che si tiene in mano, che si lecca volentieri assai. E che quando l’hai tenuto in mano e l’hai leccato, scioglie tutta la sua crema bianca. Era tutto un turbinio di spalle rotonde e svestite, di occhiate brune, curiose, bistrate. La fresca mistura inondava le gole più desiderate di Napoli, certe cavitè di bocca, storicamente riservate a membri di casate principesche. Fiumana su dentini perfetti, gocciolava dagli angoli di labbra lavorate nel corallo. Dagli angoli fin giù tutto sulla gola.

La lettura di questo episodio – continua Afeltra – gli riporta alla memoria un fatto forse poco noto, che ha a che fare con gli «Omnibus» di Leo Longanesi, e che addirittura ne determinò la soppressione da parte di Mussolini.

Fondato nel 1937 «Omnibus» rappresentò per l’Italia il primo esempio di giornalismo moderno, aprendo la strada a quello che poi sarebbe stato il popolare genere del rotocalco. Tra i suoi collaboratori: Montanelli, Pannunzio, Vittorini, Moravia, Soldati, Savinio. Ma come fu che dopo due anni il settimanale, che già godeva di un buon successo, terminò le pubblicazioni? La colpa si dovette – lo ripete ancora Afeltra – ai gelati di Leopardi. Si, perché a decretarne la fine fu proprio un pezzo dedicato a questo argomento da Alberto Savinio. Con la spigliata leggerezza che gli era congeniale – scrive Afeltra – aveva scritto un articolo dall’eloquente titolo La Cacarella, in cui si sosteneva che morte di Leopardi, avvenuta a Napoli i 14 giugno 1837, fosse stata causata proprio dalla dissenteria dovuta all’abuso di quei gelati confezionati secondo norme igieniche  non precisamente ottimali. I lettori apprezzarono il gustoso aneddoto ma la censura fascista non gradì lo spirito dissacratore, era il 1939 l’Omnibus arrivò forzatamente al capolinea.

Leopardi, gloria nazionale, non andava offeso con riferimento alle sue troppo umane passioni di goloso e alla prosaica cacarella, di cui fu certo vittima.

La storia è tutta qui? Oddio, ci cascarono tutti, ci cascò anche un giornalista del calibro di Gaetano Afeltra, fratello del mio professore ad Amalfi don Andrea, fino al punto di inventare il titolo dell’articolo di Savinio. Non sarà che Savinio col sorbetto di Leopardi copre ben altro? Vediamo.

Alberto Savinio, verso la fine dell’articolo, si dilunga sulla chiusura di un importante caffè napoletano, il Gambrinus, che ancora oggi (ancora oggi: ho controllato) accoglie il pubblico all’angolo di via Chiaia. Il Gambrinus fu aperto nel 1890 e Leopardi non l’aveva conosciuto. Nel 1938 il prefetto Marziale decide la chiusura perché considerato luogo di ritrovo antifascista.

Mai il povero Leopardi avrebbe pensato che la sua morte, a distanza di un secolo, potesse esser causa di un gran putiferio politico-giornalistico-letterario: chiusura del primo rotocalco davvero moderno, allontanamento del suo direttore, Leo Longanesi, enfant terrible del giornalismo italiano, scrittore geniale e inclassificabile.

Grazie alla ricordata micro casa editrice bolognese si intuisce tra le righe del telegramma che il podestà di Napoli, Giovanni Orgera, invia al ministro del Minculpop Dino Alfieri all’indomani della chiusura di «Omnibus»,  quali  fossero gli “atteggiamenti” tollerati da Mussolini fino a un certo punto. Il podestà di Napoli esprime il «ringraziamento della città per il vostro energico rapido salutare provvedimento».

Ma che c’entra il povero Leopardi in una faccenda dai chiaroscuri dichiaratamente politici? C’entra eccome, perché Savinio nel suo scritto, tra altre riflessioni ironiche, pungenti, criptiche, si dilunga su due episodi spinosi, non su uno solo, quello della morte, appunto, del poeta nazionale causata dalla di lui sfrenata passione per «gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati».

Savinio verso la fine dell’articolo, e veniamo al casus belli, in un acuto, ironico e flautato passaggio si dilunga sulla chiusura, pochi mesi prima, del Gambrinus, che ancora oggi accoglie il pubblico all’angolo di via Chiaia. «Ma il Gambrinus non c’è: il Gambrinus non c’è più …. L’aria di Napoli è esiziale ai bei caffè, come le rose sono mortali agli asini». Quanta arguzia in pochi millimetri di testo – scrive Gatta – con la categoria degli asini in prima fila a dire quanto le chiacchiere antifasciste («le rose»), che s’involavano dai tavolini del Gambrinus, fossero esiziali alle orecchie del prefetto di Napoli e consorte («agli asini») che, proprio sopra le sale del caffè avevano gli appartamenti privati. L’equazione asino-prefetto era fin troppo evidente a chi avesse “orecchie per leggere”, e il regime le ebbe e il povero conte Leopardi andò di mezzo.

Altri erano i bersagli, altre le idee da combattere, altri i giornalisti e scrittori di «Omnibus» da mettere a tacere (Barilli, Missiroli, Landolfi, Brancati, Moravia, Patti, Vittorini), altri i giornali da chiudere. Altro che Leopardi.
Il Gambrinus era stato chiuso, chiuso «Omnibus», mandati a spasso Longanesi e Savinio. Eppure nelle sue sale, ridotte dopo la chiusura a raffinato scenario del Banco di Roma, e a quei tavolini, fin dal 1890 quando era nato col nome di Gran Caffè, si era seduta tutta la grande tradizione letteraria fin de siècle, Scarfoglio, Di Giacomo, Zola, d’Annunzio, Oscar Wilde. Insomma Leopardi venne utilizzato dal regime; benché alla fine anche lui avesse realmente un debole per la bassa materia culinaria.

 

One Response to Il sorbetto di Leopardi (la vera storia di una censura fascista)

  1. Antonio Martino ha detto:

    Di palo in frasca, una pagina del Cristo si è fermato a Eboli, non scatologica ma letteraria, dove si parla di una scampagnata di emigati grassanesi a Newark (ma potrebbero essere tricaricesi)

    «C’era un gabinetto, senz’acqua naturalmente, ma un vero gabinetto, col sedile di porcellana. Era il solo esistente a Gagliano, e probabilmente non se ne sarebbe trovato un altro a più di cento chilometri tutt’attorno. […] La mancanza di quel semplice apparecchio, assoluta in tutta la regione, crea naturalmente delle consuetudini che non si sradicano facilmente, che richiamano mille altre cose della vita, e si accompagnano a sentimenti considerati nobilissimi e poetici. Il falegname Lasala, un “americano” intelligente, che era stato, molti anni prima, sindaco di Grassano, e che conservava gelosamente, nel suo monumentale apparecchio radio portato di laggiù, con i dischi di Caruso e dell’arrivo di De Pinedo, quelli di discorsi commemorativi di Matteotti, mi raccontava che, dopo la settimana di lavoro a New York, usava incontrare un gruppo di compaesani, ogni domenica, per una scampagnata. – Eravamo sempre otto o dieci: c’era un dottore, un farmacista, dei commercianti, un cameriere d’albergo, e qualche artigiano. Tutti del nostro paese, ci si conosceva fin da bambini. La vita è triste, tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, e gli ascensori, le porte girevoli, la metropolitana, e sempre case e palazzi e strade, e mai un pò di terra. Viene la malinconia. La domenica mattina si saliva in treno, ma bisognava fare dei chilometri, per trovare la campagna! Quando eravamo arrivati in qualche posto solitario, diventavamo tutti allegri come ci si fosse tolto un peso di dosso. E allora, sotto un albero, tutti insieme, ci si calava i pantaloni. Che delizia! Si sentiva l’aria fresca, la natura. Non come quei gabinetti americani, lucidi e tutti eguali. Ci pareva di essere ragazzi, d’essere tornati a Grassano, si era felici, si rideva, si sentiva l’aria della Patria. E, quando avevamo finito, gridavamo tutti insieme: “Viva l’Italia!”. Ci veniva proprio dal cuore».

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