Il capitolo diciannovesimo dell’Esodo inizia con una notazione apparentemente strana. Tradotta alla lettera suona così: «Al terzo mese dall’uscita dei figli di Israele dalla terra d’Egitto, in questo giorno essi giunsero al deserto del Sinai» (Es 19,1). Perché, si chiede l’ermeneutica rabbinica, vi è quell’incongruo «questo» e non un più logico «quel»?  La risposta è immediata: ciò sta a significare che la Torah è come se fosse stata data oggi. In altri termini, il patto va riconfermato ogni giorno osservando le clausole da esso imposte.

Nella liturgia ebraica il cammino dall’Egitto al Sinai è ripercorso nel periodo che va da Pesach (Pasqua) a Shavu‘ot (Settimane, l’equivalente della Pentecoste). Se volessimo compiere una trascrizione secolarizzata di questo itinerario nell’ambito della storia italiana, si potrebbe proporre la seguente analogia: Pesach sta a  Shavu‘ot come il 25 aprile sta al 2 giugno (che non fu solo la data del referendum ma anche quella dell’elezione dell’Assemblea costituente). Un modo autentico per celebrare il 25 aprile consiste nell’osservare le clausole di un patto che ci si è  responsabilmente e liberamente dati, il che comporta un quotidiano rispetto della legalità.

In riferimento al Sinai e all’uscita dall’Egitto si legge nel Midrash: «chiunque confessa il giogo dei comandamenti confessa l’esodo dall’Egitto, e chiunque nega il giogo dei comandamenti nega l’esodo dall’Egitto». Proponiamone una trascrizione secolarizzata in ambito italiano: «chiunque pratica la legalità costituzionale, fa memoria del 25 aprile, e chiunque nega la legalità costituzionale nega il 25 aprile».

 

3 Responses to 25 Aprile

  1. Rachele ha detto:

    Potremmo anche dire “sillogismo civile”.

  2. Antonio Martino ha detto:

    Questo post dedicato al 25 Aprile è stato commentato con un brano del Discorso sulla Costituzione pronunciato da Piero Calamandrei nel Salone degli Affreschi delle Società umanitarie il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti univesitari e medi per illustrare in modo accessibile a tutti i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa.

    Questi principi interessano ancora gli studenti universitari e medi di oggi? E può essere che manchi un collegamento tra Piero Calamandrei e Rocco Scotellaro?

    Su un fascicolo della rivista mensile Il Ponte, fondata appunto da Piero Calamadrei, fu pubblicata la poesia di Rocco Scotellaro “Al Sopportico delle Api il primo amore”. Il titolo, bellissimo, illuminò di aura poetica quel sopportico, che era brutto e non lo fu più … fin quando a Tricarico non ci hanno (ri)messo le mani:

    Al sopportico delle Api
    affisse ai muri le nostre iniziali
    col colore della paglia bruciata.
    L’amore nostro crebbe qui
    nella stalla vicina.
    E io vederti sorgere tenera ombra,
    misuravo le parole tue calde
    cercandoti le labbra con le dita.
    Ombre di noi che siamo in fuga
    si allungano, scompaiono
    quando la lucerna del mulattiere
    mette fremito alle bestie per la biada.

    Com’erano arrivate lì le api? Ecco spiegato il mistero. Il sopportico doveva essere dedicato agli artisti della pietra, ossia ai lapicidi. Lapicida e omicida hanno la stessa desinenza cida, dal verbo latino caedere = troncare, tagliare. L’etimo è lo stesso, ma gli effetti sono affatto diversi se si interviene su una pietra o su una persona umana. Al momento di passare alla fase esecutiva, la diversità non fu percepita: si rifiutò l’orrenda decisione di dedicare quello squallido sopportico agli assassini dei lapi e si decise di dedicarlo ai lapi anziché ai loro uccisori. L’operazione esecutiva finale non fu affidata a un lapicida, a uno che sapesse incidere le pietre, ma a uno che avrebbe dovuto semplicemente scrivere sul muro, con un pennarello, il nome del sopportico. Costui, non sapendo giustamente cosa o chi fossero i lapi, pensò a un errore fatto al comune, scrivendo lapi invece di api. E così il sopportico si chiamò. Con questo nome l’ha conosciuto la mia generazione e, fortunatamente, l’ha conosciuto Rocco Scotellaro. Dai lapi alle api. Sembra una favola, è una favola. Le api volano nell’aria, nelle parole scritte della poesia di Scotellaro. Grande cosa ci resta.

    Was bleibet aber,
    sufren die Dichter.
    (Ma quel che resta,
    è dono dei poeti).

    Friedrich Hölderlin
    Andenken

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