Ringrazio sentitamente l’ambasciatore Mario Emanuele Maiolini di avermi autorizzato a pubblicare su Rabatana il suo interessante saggio, dove, a conclusione di una approfondita analisi, giunge alla conclusione che il Covid-19 non è l’Apocalisse (non è la fine del mondo), ma di certo è la fine del mondo che abbiamo vissuto. L’ambasciatore Maiolini è un caro amico. Amichevolmente mi ha inviato il suo saggio e, a mia richiesta, mi ha concesso di pubblicarlo. Sono convinto che il suo amichevole gesto, nonché da un sentimento di amicizia, è stato soprattutto dettato dall’amore per la poesia di Rocco Scotellaro e per la Lucania (terra lontana, conosciuta e amata soprattutto grazie alla poesia di Rocco), oggetti di  conversazioni nel corso delle nostre vacanze nell’incanto del dolomitico Renon. Di necessità utilizzo tre blocchi per presentare il saggio: questo e i primi due paragrafi del saggio.  

Il testo del saggio

“Il mondo non sarà più come prima” sentiamo ripetere in questi giorni. Similmente, in una sera di agosto di oltre cento anni fa, quando l’Austria consegnava il suo ultimatum alla Serbia, Lord Grey, Segretario al Foreign Office, esclamava: “Le luci si stanno spegnendo sull’Europa e finché vivremo non le vedremo brillare mai più”.

E allora l’Europa era il mondo. Un mondo che cercò di risollevarsi attraversando due immani tragedie. Dopo la seconda si è arrivati a costruire quello che ora possiamo definire, il migliore dei mondi possibili. Vi siamo giunti per tappe come per tappe siamo arrivati al disordine e alle incertezze di oggi.

Per ora abbiamo immagini destinate a rimanere nella nostra memoria. Parigi che il 17 marzo 2020, si svuota in pieno giorno affollando stazioni e autostrade; la fila di automezzi militari, che nella notte dal 17 al 18 marzo, carichi di bare, lasciano Bergamo perché non vi è più posto per ulteriori sepolture. Le fosse comuni che a New York si riempiono di bare destinate a rimanere per sempre senza nome, nello sgomento di una America impotente. Immagini mute come quelle delle Torri Gemelle in fiamme, in uno sgomento che questa volta non può neppure gridare vendetta perché la natura del nemico è completamente diversa e sconosciuta.

La pandemia è esplosa nel tempo in cui l’ordine mondiale multilaterale post-1945 ha toccato un punto di massima crisi, con due crisi planetarie che convergono: una ecologica e una sanitaria, frutto di una devastazione ambientale che è conseguenza di azioni non deliberate. Un’affermazione, questa, che merita una qualificazione, nel senso che la pandemia – sino a prova contraria – non è responsabilità di nessun membro della comunità internazionale, mentre la crisi dell’ordine mondiale è una colpa a cui hanno concorso maggiori e minori protagonisti; ciascuno a modo suo. E’ una colpa infatti essersi trovati in questo frangente senza che fossero in vigore le misure preventive da tempo auspicate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, anche alla luce della recente esperienza col virus Ebola. E ciò senza che il Trattato che proibisce lo sviluppo, produzione e accumulo di agenti biologici, potesse essere sostenuto e completato da un Protocollo attuativo. Strumento, questo, che avrebbe consentito di disporre di adeguate misure preventive e ispettive proprie delle convenzioni contro le armi di distruzione di massa. Il Protocollo, a lungo negoziato a Ginevra, fu rifiutato dalla Amministrazione Bush nel 2001 per decisione dell’allora Under Secretary Bolton. E dire che la campagna contro le armi batteriologiche ebbe inizio – come spontaneo movimento di opinione – negli anni ’60 proprio negli Stati Uniti e portò alla Convenzione (BWC) del 1970, epoca Nixon, mentre la Cina vi aderì nel 1984, memore del conflitto con il Giappone – che impiegò in Cina lo Imperial Japanese Army’s Bioware Unit 731. Il Giappone a sua volta, grande produttore farmaceutico, fu strenuo propugnatore del Protocollo.

La scomposizione del mosaico multilaterale

La scomposizione del mosaico multilaterale si è andata attuando per gradi.

A motivo della sua retorica e delle sue decisioni di politica estera, in questi anni del suo primo mandato Donald Trump ha fatto del suo meglio, tanto da apparire il principale picconatore dell’ordine mondiale post 1945. Ma vi è evidenza che non sia affatto il solo. Con meno clamore e simile intento, Russia e Cina hanno fatto la loro parte. E così anche l’Unione Europea: per la sua passività come istituzione e contradditorietà politica ha svolto un suo ruolo di modo che il concerto delle Potenze è divenuto un sogno, al punto che il Washington Consensus sta divenendo il Beijing Consensus. La Russia, con il suo revanscismo, è fra i grandi protagonisti ed è quella che ha più potenzialità destabilizzanti: per avere un solo uomo al comando, il cui potere non è bilanciato da nessuna istituzione consolidata: nessun Congresso del Popolo, nessun Congresso, nessun Pentagono; per mirare ad una politica di ricostituzione della grandezza territoriale passata in tempi accelerati: gli zar impiegarono secoli, Stalin e successori impiegarono settanta anni, ma con l’appoggio formidabile di una ideologia planetaria; per basarsi su un sistema di alleanze precarie, contraddittorie e suscettibili di trascinare Mosca in conflitti molteplici, per sostenere i quali non ha le stesse capacità finanziarie di Washington e Pechino. Mosca può però contare a sostegno su due grandi fattori: la memoria storica dell’Europa e l’affinità culturale con l’Occidente. Lo stesso Trump, nonostante le infinite polemiche e accuse, non sembra avere abbandonato la speranza di ritrovare un dialogo con la Russia di Putin, quasi ricordando gli sforzi profusi a suo tempo da Charles Bohlen, che a lungo rifiutò di riconoscere la divisione dell’Europa in sfere di influenza americana e sovietica – nell’idea di Kennan – per mantenere l’obiettivo di un mondo unito dall’esperienza dell’alleanza antinazista e dalla creazione della Carta di San Francisco. Putin inoltre può oggi fare anche assegnamento su un rapporto particolare con la Germania che, come perno dell’equilibrio intraeuropeo e inter-Atlantico, sta suscitando speranze e delusioni. In tutto questo, l’Unione Europea è quasi un convitato di pietra: pesante perché rappresenta o potrebbe rappresentare quasi 500 milioni di abitanti, taciturno perché non riesce di far sentire una sua voce univoca sugli affari mondiali. Ed è pertanto un vuoto da riempire non si sa come, oltre che una mancanza colpevole.

La complessa ridefinizione del rapporto USA – Cina, il ruolo della Russia e il convitato di pietra europeo.

La Cina, per parte sua, ha da un lato presentato due richieste in apparenza difficilmente contestabili: voler far sentire la propria voce nel mondo per essere la nazione più popolosa del pianeta, ed essere membro permanente e riconosciuto del Consiglio di Sicurezza. Per gran parte della sua storia ha basato la sua grandezza non tanto e solo sulla potenza delle armi quanto sul riconoscimento della sua supremazia culturale ed economica: la sua “centralità” (Middle Kingdom) in Asia e oltre. Dall’altro lato, la prorompente crescita economica e importanza finanziaria ne hanno legittimato la richiesta di voler contare sempre più nelle organizzazioni internazionali, quasi al di là di un riconoscimento formale o notarile. Sue sono le maggiori risorse monetarie e sua è la maggior parte del debito estero americano e di tante altre economie mondiali. Suo è l’imponente progetto della Via della Seta, a fronte del quale lo storico Piano Marshall rischia di apparire inferiore per obiettivi, sfera d’azione e mezzi. La nuova Cina, dopo oltre un secolo di umiliazione e di guerre civili, si presenta al mondo con una politica di non interferenza, e di difesa del multilateralismo, che ne fanno un partner attraente per i paesi emersi con la globalizzazione dalla massa informe del sottosviluppo e del non allineamento.

Tuttavia Pechino porta con sé tre peccati originali agli occhi dell’Occidente e del Sud Est asiatico: l’alleanza con un Pakistan forte ma fragile, irriducibile nemico dell’India e della sua incombente potenza politica, economica, demografica e militare; il volere contestare la sfera di influenza americana in Asia e la sua supremazia mondiale. Tre obiettivi ragguardevoli, fonte di contrasti, che però Pechino è riuscita a gestire. Pensiamo alle tensioni con Washington su Taiwan, il conflitto con l’India, quello con il Vietnam, gestiti comunque in modo meno cruento che non gli Stati Uniti con il Vietnam, l’Afghanistan e l’Iraq. Fu il realismo che a suo tempo portò al riconoscimento delle rispettive sfere di influenza – americana e cinese – dopo la guerra di Corea e alla divisione della penisola coreana.

Come potenza emergente Pechino ha sfruttato la critica che l’Amministrazione americana ha esercitato contro il sistema multilaterale, per farsene a sua volta paladina e quindi acquisendo consensi e appoggi che rendono difficile l’intento americano di ostacolarne e contenerne l’affermazione.

Per tornare agli Stati Uniti, nel giro di pochi anni Washington ha dovuto constatare che la sua posizione nel mondo è cambiata. Secondo Graham Allison, ancora nel 2018, la National Security Strategy delineata dal Segretario alla Difesa, James Mattis, permetteva di affermare che gli Stati Uniti “enjoyed uncontested or dominant superiority in every operating domain”. Spingendosi ad affermare: “We could generally deploy our forces when we wanted… where we wanted… how we wanted”. “Ma questo era vero allora e non più oggi” fa rilevare Allison, il politologo che ha riproposto la trappola di Tucidide. “Nei primi venti anni del secolo si è verificato un sismico riassestamento nell’equilibrio fra potenze”. Il Pil degli USA è passato dal 50% mondiale al 7%. Il progetto della Via della Seta, conta sua una forte base finanziaria cinese che può fare da volano all’impiego di 1,4 trilioni di investimenti, provenienti da diverse fonti, anche esterne alla Cina. Ciò a fronte di investimenti americani nell’area Indo-Pacifico che ammontano a 886 miliardi di dollari. *(vedi nota in calce).

Il Presidente Trump ha ritenuto di dover rispondere con una aspra e inusuale retorica alla pressione di milioni di colletti bianchi e blu che hanno perso il loro posto di lavoro per la competizione cinese e delle “tigri asiatiche”, alla insofferenza di vasti settori dell’opinione pubblica per le spese militari all’estero e per il bilancio militare in continua crescita, a fronte di un sostegno degli alleati (Nato, Giappone, Corea del Sud) di molto inferiore alla loro effettiva capacità economica e finanziaria.

Quello che con l’Amministrazione Obama è nato come il “pivot to ASIA” è divenuto con l’Amministrazione Trump quello che Fareed Zakaria ha definito “The new China Scare” “convincimento dei due partiti americani, dell’apparato militare, dei principali organi di informazione secondo i quali la Cina è minaccia vitale per gli Stati Uniti dal punto di vista economico e strategico”. Convincimento che secondo l’autore rischia di portare Stati Uniti e Cina verso un conflitto di vasta portata e di lunga durata, come al tempo di Mao Zedong, se non si ponderano accuratamente le ragioni del contendere. Per sostanziare il suo punto in favore di prudenza e cautela, Zakaria sostiene che la Cina di oggi sarebbe “a remarkable responsible nation” per non essere stata coinvolta in conflitti dal 1979, per non aver fatto interventi militari dal 1988, non aver appoggiato movimenti insurrezionali dal 1980: tutto questo contrariamente a quanto fatto da altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Inoltre Pechino è divenuta il secondo finanziatore delle Nazioni Unite e importante contributore di truppe per le operazioni di pace e coerente propugnatore di una politica estera di “non intervento” e di rispetto della integrità territoriale. In breve “guardiano dello status quo internazionale” secondo l’autore, il quale ricorda come molte delle accuse e apprensioni rivolte oggi alla Cina erano sistematicamente indirizzate al Giappone.

Purtroppo questo clima di sospetto, timore e ostilità ha e sta inficiando i rapporti fra Stati Uniti e Cina, gettando un’ombra che va al di là del duello sui dazi per investire la polemica sulla responsabilità – o meglio le congetture – sulla diffusione della pandemia del coronavirus che sta sconvolgendo il pianeta.

Secondo quello che scrive “Le Figaro” in data 24 marzo, diplomatici cinesi avrebbero accusato militari americani di aver diffuso il virus a Wuhan, aggiungendo – secondo un portavoce del Ministero degli Esteri cinese – che la pandemia avrebbe avuto origine negli Stati Uniti nel 2019, diffondendosi “per l’irresponsabilità e incompetenza della cosiddetta elite politica di Washington”. Donald Trump a sua volta parla di “virus cinese”, e il Segretario di Stato, Pompeo, accusa Pechino di orchestrare una “campagna per sviare l’attenzione sulle origini del virus” (Financial Times del 26 Marzo). Lo scambio di accuse ha reso il clima dei rapporti “ostile” come nota lo stesso Financial Times del 19 marzo, che riporta il giudizio dell’esperto Eswar Prasad, già Capo dell’Unità Cina del Fondo Monetario, ora docente alla Cornell University, secondo cui “l’aperta ostilità (esistente) renderà arduo limitare i danni economici e finanziari” della pandemia.

Reciproca mancanza di fiducia e fraintendimenti è un dato di fatto, anche secondo l’esperto Yanzhong Huang già citato agli inizi, che ricorda l’esistenza di attività di ricerca di guerra biologica da parte cinese, ma mai provati, mentre ricercatori militari cinesi accusano gli Stati Uniti di aver rifiutato di sottoscrivere il Protocollo di attuazione della Convenzione contro le armi batteriologiche perché “insufficiente”.

Lasciando la polemica allo stadio in cui è, sta di fatto che la mancanza di fiducia fra le due superpotenze su questo argomento nonché su una vasta gamma di temi, ha reso la Comunità internazionale divisa e incapace di affrontare la pandemia con mezzi e intenti validi e comuni e la crisi economica che si è aperta nel mondo meno profonda e – come si asserisce – devastante.

Non solo la discordia fra Washington e Pechino, ma la Comunità degli Stati nel suo complesso si trova ad affrontare la pandemia del coronavirus e le sue ancora incerte conseguenze, particolarmente divisa fra USA, Cina e Russia, e con gli Stati Uniti che vivono un momento critico dei loro rapporti con l’Unione Europea e la Nato. Il Presidente americano non ha risparmiato critiche agli alleati europei e all’organizzazione atlantica, sotto l’influenza di parte della sua opinione pubblica ma anche del gruppo di neoconservatori che tante novità e molti scossoni hanno introdotto nella politica estera americana da George W. Bush in poi, tra cui la guerra al terrore, l’invasione dell’Iraq e la balcanizzazione del Medio Oriente. Manca al mondo in questo momento quella leadership tanto spesso esercitata in momenti di crisi.

Vi è stato qualche esponente neo-con, consigliere del Presidente, che ha persino ventilato la possibilità di una uscita dalla Nato. Di rimando il Presidente Macron ha risposto alle minacce e rimproveri di Trump parlando di “morte cerebrale della Nato”, mentre la Cancelliera Merkel, rincarando la dose, ha messo in dubbio l’affidabilità degli Stati Uniti. Affidabilità per il vero incerta anche per alcuni alleati medio-orientali e del sud-est asiatico.

L’Unione Europea risente di questa atmosfera, fatta di impaziente irritazione e di insofferenza per un cocchiere visto usare la frusta spesso a sproposito. Opinionisti d’oltre atlantico accusano Trump di “public and arbitrary coercion”. Una conseguenza è stata il rifiuto di Londra e Berlino di accettare l’invito americano a non collaborare con il sistema informatico cinese 5G della Huawey, accusato di potenziale capacità spionistica. Per la prima volta nella storia del dopoguerra, le alleanze di Washington – lo “scudo della Repubblica” nella definizione di Walter Lippmann – scricchiolano e rischiano di lasciarla sola. Perplessità e incertezza hanno suscitato nei paesi membri dell’Unione EU le dichiarazioni della Cancelliera, che risentono anche dei rapporti di Berlino con Russia e Cina. Da un lato la stretta collaborazione con Mosca nel campo energetico- ora vitale per l’economia dei paesi europei – dall’altra gli intensi rapporti commerciali con la Cina. (Vedi nota in calce)**

Quali prospettive

Dopo decenni, i rapporti con Mosca e Pechino danno alla Germania una rinnovata capacità di manovra fra Occidente e Oriente, sottraendola ad allineamenti obbligati.

Tutte queste constatazioni ci suggeriscono che l’insieme dei rapporti internazionali non è dei migliori per affrontare la crisi in atto. Al tempo stesso, occorre una particolare prudenza nel formulare ipotesi sugli scenari del mondo futuro. Con cautela, è quantomeno possibile fare qualche constatazione. La Cina sembra poter uscire dalla crisi più celermente di altri, soprattutto perché conta su un modello di regime autoritario, capace di decisioni rapide e drastiche. La Russia da un lato mostra capacità di inserirsi nelle zone di crisi, ma queste sono suscettibili di trascinarla in aree di tensione e di conflitti fra i suoi stessi Alleati, mentre la sua solidità economico-finanziaria non le dà molto ossigeno.

Gli Stati Uniti attraversano una grave ed imprevedibile crisi sanitaria ed economica ma possiedono una economia capace di assorbire gravi colpi come nel caso del 2008. Però stanno affrontando serie difficoltà con le loro alleanze, non tanto per le intemperanze retoriche del loro leader quanto per la necessità di adeguare i decrescenti mezzi disponibili alle sole alleanze essenziali per i loro interessi vitali. Aggiungasi la sfida ormai aperta fra modelli autoritari e democratici.

L’Unione Europea, che resta protagonista per popolazione, economia e modello di vita, vive di soprassalti che suggeriscono di adeguarsi ai tempi e alle aspirazioni emergenti, pensando anche a come rimodellarsi.

L’Italia, per uno di quei fenomeni non infrequenti nella sua storia, è uscita dall’isolamento diplomatico in cui incoscientemente si era cacciata, ricostituendo alcuni pilastri fondamentali della sua politica estera: intesa con gli Stati Uniti, cordialità e comunanza di intenti con la Francia, identità di fini con la Spagna, portando ad una maggiore consistenza quella Europa mediterranea che ha un suo ruolo pur se nella debolezza del momento, grazie anche alla solidarietà di molti europei.

Peraltro, importanti interrogativi si delineano per l’Italia dal punto di vista interno. La società mostra una vitale capacità di resilienza, grazie ad una duplice spinta solidaristica, una di ispirazione religiosa, francescana, l’altra di natura egualitaristica, che ha le sue radici nelle tradizioni riformiste ottocentesche del Paese. Molto dipende se la società potrà arginare la crisi economica tenendo salde le due spinte parallele.

Mario E. Maiolini

    

 

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