DEH ! ESCLAMAZIONE CHE INTRODUCE UN GRIDO DEL SENTIMENTO DI UN EX GRANDE PORTIERE DELLA GLORIOSA SQUADRA DI CALCIO DI TRICARICO, COPERTOSI DI GLORIA SUL CAMPO DI SANTA MARIA. EBBE COME RISESRVA MARIO TRUFELLI, CHE DELUSO FINO ALLA DISPERAZIONE DELL’ETERNA CONDIZIONE DI RISERVA, RIPIEGO’ ALLA GRANDE SULLA POESIA. GIOVANNI DE MARIA RICATTO’ UN  POSTO IN SQUADRA, IL RUOLO PRESITIGIOSO DI CENTRAVANTI E L’ONORE DELLA FASCIA DI CAPITANO AL BRACCIO PERCHE’ L’UNICO PALLONE ESISTENTE A TRICARICO ERA SUO

 

Leggo quest’oggi sul Sole 24 Ore DOMENICA 10 MAGGIO 2020 una storia del calcio nazionale scritta da Maria Luisa Colledani, intitolata Storia d’Italia in pantaloncini. Il 15 maggio 1910 la Nazionale di calcio debuttò in maglia bianca per risparmiare: una maglia colorata costava sette centesimi (di una lira!) di più, un bel risparmio di settatasette centesimi.

Mi sono già impegnato a incitare alla pubblicazione di questa troppo sospirata Storia del calcio tricaricese con due articoli. Nel primo, Introduzione a una ricerca sul calcio tricaricese, chiamai in soccorso Albert Camus, Enrico Remmet, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Leopardi, Umberto Saba, Nick Horby, Adriasno Sofri, Biavati, Rivera, Mazzola, Maradona, Ezio Vendrame, Jorge Valdano, Osvaldo Soriano, Livio Paladin, George Yeah e, per finire, sicuro di averne scordato qualcuno, papa Francesco.

Gilberto Marselli mi scrisse – e come faccio a tacere ? – « Resto semplicemente ammirato e conquistato da questa ennesima prova di cultura dimostrata dal nostro attento ed accurato mentore don Tonino da Tricarico, momentaneamente prestato ai ferraresi perché anche essi potessero godere delle sue molteplici attitudini. Tricarico-Ferrara con goal perfettamente eseguito: partita vinta 1 a 0 a scorno dei padani !!! »  Gli risposi – in inglese senza traduzione ! – «Just don’t overdo it» (Non esagerare). Il secondo articolo è intitolato Calcio. Creato dai poveri e rubato dai ricchi. Li ripropongo, con qualche aggiornamento, subito dopo l’articolo del Domenicale di oggi,

Storia d’Italia in pantaloncini

Prima di tutto difendere le finanze, poi si va all’attacco. Così l’Italia del calcio, che esordisce il 15 maggio 1910 sulla scena internazionale, sceglie le maglie bianche perché costano 7 centesimi meno di quelle colorate. Per l’azzurro c’è tempo ma quell’Italia-Francia è l’inizio della storia : 110 anni sempre all’attacco.

L’anno prima, nel 1909, l’Arena civica di Milano aveva ospitato l’arrivo del primo Giro d’Italia ed era la cornice perfetta per il debutto. Quattromila tifosi sugli spalti – a Milano allora vivevano 700mila persone – aspettano la prima Nazionale. Umberto Meazza, commerciante di vini e liquori ma niente a che fare con Peppìn, è il trainer: in campo, otto milanesi, che giocano nell’Unione Sportiva Milanese, nel Milan, nell’Internazionale e nell’Ausonia. Poi, ci sono due atleti del Torino e il capitano, il nr. 3 Francesco Calì dell’Andrea Doria di Genova, scelto perché è il più anziano e perché, da figlio di emigranti in Svizzera, parla cinque lingue. La rincorsa al marketing delle maglie è fantascienza e, quella domenica pomeriggio, chi veste in total white, chi con braghe nere e chi con papalina: a muover tutto solo l’amore e la curiosità per il foot-ball, arrivato da una quindicina d’anni in Italia, soprattutto nel Nord del Paese. La partita, nonostante il blasone degli avversari, è una passeggiata, 6-2, con tripletta di Pietro Lana, primo goleador della storia. Scrive il cronista del «Corriere della Sera»: «una netta vittoria, e meritata, che avrebbe potuto anche essere maggiore. La squadra italiana (…) velocissima sulla palla, instancabile, i suoi continui passaggi snervarono gli avversari e li scombussolarono. Fu questa rapidità di gioco che ci fruttò la vittoria, unita al grande spirito di altruismo di cui diedero prova i forwards, che avanzavano di passaggio in passaggio. Tutti gli italiani vollero superarsi e sono tutti degni di lode». Il premio-partita, secondo le cronache, furono pacchetti di sigarette lanciati dal pubblico.

La seconda gara – sempre nel maggio del 1910 – porta l’Italia in Ungheria. Il viaggio in terza classe è più di un’avventura: in treno fino a Venezia e poi, non essendoci quel giorno il vaporetto per Fiume, arrivano a Trieste e in treno a Budapest, via Vienna. Il vitto sono decine di panini nella valigia di Attilio Trerè, giocatore dell’Ausonia Milano, ma non bastano perché quell’alba di calcio è dominata dagli squadroni danubiani: Austria, Ungheria, Cecoslovacchia e i maestri magiari mettono in riga l’Italia per 6-1. Andrà meglio quando gli ungheresi restituiranno la visita a Milano, il 6 gennaio 1911, perché l’Italia potrà finalmente schierare i giocatori della Pro Vercelli, squalificati l’anno prima. Solo 1-0 per i campioni danubiani ma soprattutto l’Italia veste d’azzurro in omaggio ai Savoia e con tanto di stemma: «la casacca è molto sgargiante – scriveva il giornalista della Lettura Sportiva – e ha il colore del cielo».

Poi, verranno la guerra, i giocatori caduti al fronte (da Luigi Ferraris a Giovanni Zini) e il regno di Vittorio Pozzo, dal 1929 al 1948. Per lui parlano i numeri: 90 partite, 61 vittorie, 16 pareggi e 13 sconfitte. Vent’anni di gloria, i due Mondiali nel 1934 (Mussolini aveva ordinato: «L’Italia fascista deve tendere al primato sulla terra, sul mare, nei cieli, nella materia e negli spiriti») e nel 1938, la vittoria ai Giochi di Berlino nel 1936. Era un uomo di ferro, Pozzo, tenente degli Alpini uscito dalla Grande Guerra, giornalista, poliglotta e psicologo ante litteram. Fedele al “metodo”, allevava i suoi ragazzi, da Schiavio a Luisito Monti, da Orsi a Peppìn Meazza, da Combi a Piola, alla fatica del vivere. Non è vero che li motivava con i canti alpini, aveva una ricetta tutta sua: «Lavorare in modo chiaro, lineare, schietto, in tono e sostanza tale da dare al giocatore la sicurezza assoluta dell’onestà e della dirittura di condotta nei suoi riguardi. Dividere col giocatore lavoro, fatica e sacrificio. Comandare con l’esempio. Non abbandonarlo mai. Essere con lui cordiale e gioviale anche, pur mantenendo, in modo che esista senza che quasi la si senta, la distanza che sempre deve intercorrere tra superiore e inferiore».

Con la tragedia di Superga, se ne vanno il Torino degli invincibili e la prospettiva di un’Italia dominatrice. Inizia, invece, un azzurro opaco: in Brasile, al Mondiale del 1950, gli azzurri arrivano spompati dal lungo viaggio in nave, con poco allenamento e tanta saudade; nel 1954, in Svizzera, subito fuori e, nonostante il ritorno degli oriundi, nel 1958, per la prima volta, l’Italia neppure si qualifica, per arrivare alla “fatal” Corea del 1966. Bisognerà aspettare il 1968 per riveder le stelle: Italia campione d’Europa e pronta a Mexico 70 con quell’Italia-Germania 4-3, la partita del secolo e della staffetta Mazzola-Rivera. E il 17 giugno saranno cinquant’anni.

Delle sciagure in terra tedesca nel 1974, la cosa migliore resta il romanzo di Giovanni Arpino Azzurro tenebra: nel Mondiale del nostro scontento, la lingua è una terracotta di invenzioni e l’esergo del libro, «Il ricordo comincia con la cicatrice», basta per dire che forse Germania 74 è la letteratura sportiva al suo meglio.

L’Italia giovane e sbarazzina di Bearzot nel Mondiale della dittatura argentina è avvicinamento al trionfo di España 82, iconico nell’urlo di Tardelli e nel presidente-tifoso Pertini accanto a re Juan Carlos. Di quel Mundial, fra silenzi stampa blindati e un Pablito in stato di grazia, va ricordata la tribuna stampa: Giovanni Arpino, Mario Soldati, Gianni Brera, Oreste Del Buono, Vladimiro Caminiti, Gianni Mura, Mario Sconcerti, Darwin Pastorin. Anche loro sono storia azzurra.

Dopo le notti magiche di Italia 90 e i rigori di Usa 94 con i quali Roby Baggio ci ha insegnato la nobiltà della sconfitta, negli ultimi vent’anni la coppa vinta a Berlino dalla truppa di Lippi, sulle macerie di Calciopoli, è il momento più alto, fino allo sfregio della mancata qualificazione a Russia 2018.

Da un biennio il ct Roberto Mancini ha riacceso l’azzurro, dopo tante tenebre. Ha superato con undici vittorie consecutive il record di Pozzo (“fermo” a nove gare vinte) ma, dopo il 9-1 contro l’Armenia, ha detto: «Il record? Vorrei i due Mondiali di Pozzo ma mi basterebbe l’Europeo…».

Ora, la pandemia ha inchiodato il calcio in panchina. La serie A balla sull’orlo dell’abisso, fra auspici di ripresa e il rischio di stop al campionato, con conseguenze buissime per il nostro pallone. Peccato per l’Europeo 2020, con un Ciro Immobile così in forma tutto poteva essere.

L’Italia del calcio è pane e vino, è Botticelli e il Cupolone, è Fellini e la Ferrari, insieme. È la storia d’Italia e 110 anni di passione per gli azzurri ci sussurrano, per dirla con Vincenzo Cardarelli, che «Dovevamo saperlo che l’amore / brucia la vita e fa volare il tempo».

 

Introduzione a una ricerca sulla storia del calcio tricaricese.

Rabatana è venuta a sapere dell’esistenza di un progetto, allo stato pre-embrionale, per una ricerca sulla storia del calcio tricaricese e ricorda ai ricercatori che il calcio non significa semplicemente tirare calci a una palla di pezze o a un pallone. Albert Camus disse: «Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio». Si tratta di una traduzione in italiano semplificata. La frase originale sarebbe: «Tutto quello che so della morale e dei suoi imperativi l’ho imparato sui campi di calcio».

La storia del calcio tricaricese inizia quando ragazzini d’ogni ceto sociale, che tutti o quasi non ci sono più, affratellati, tiravano calci a palle di pezze o a un pallone in ogni spiazzo utile: a Santa Lucia, nel largo successivamente invaso dall’edificio scolastico e dalla littorina, nella piazzetta del vescovado, nella petraia di Santa Maria. Racconto quel nostro tirar calci con la fedele descrizione dello scrittore torinese Enrico Remmert, memoria quasi mitica del calcio delle origini in Italia e nel resto d’Europa e nei Paesi del Sud America, dove in ogni spiazzo o largo si vedevano ragazzi tirar calci. Remmert ricorda nel racconto «Tutti contro tutti, portieri volanti»: « A quei tempi le partite avevano una durata illimitata: fino a quando il pallone si perdeva o si bucava oppure fino al tramonto. Solo allora si tornava a casa da madri urlanti e preoccupate, con le strade buie ma con in corpo quella strana contentezza che si ha solo quando si è sfiniti». Le nostre mamme erano preoccupate per le scarpe: l’unico paio di scarpe che avevamo, di cui il calcio affrettava velocemente l’usura. Ipocritamente, invece, fingevano di essere preoccupate della nostra salute, della bronchite che, sudando, ci saremmo beccata. Le origini, per il vero, ci riportano anche alle fitte sassaiole che si scambiavano le tifoserie di Tricarico e di Grassano, con immancabile corollario di teste rotte e di sangue. E questo era un serio motivo di preoccupazione.

Saltellando su FB capita di vedere fotografie di Pier Paolo Pasolini, che gioca al calcio nei campi di Carrara, altrettante petraie alla periferia di Bologna, oltre l’ospedale Maggiore. Una fotografia, in particolare, bellissima, è un osanna al calcio. Riproduco la descrizione: « È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e delle scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l’abbigliamento, con l’interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, sotto il peso sull’altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dell’equilibri; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico. È in una strada ai margini di un campo pietroso. Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il ‘gioco’: sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca l’aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale in quella foto: la posa e lo sguardo, l’abito e la strada; è una bella fotografia del Pasolini calciatore, perché il calcio al pallone è in essa un gesto di gioia e di libertà». A quel tempo non avevamo mai sentito pronunciare il nome di Pasolini, ma poi, egli più di tutti, ci ha fatto capire che il calcio è poesia. Nel goal Pasolini vedrà il momento poietico della poesia. E noi abbiamo scoperto il posto che il calcio ha nella letteratura.

Saliamo nella notte dei tempi, alla canzone di Giacomo Leopardi «A un vincitore nel pallone». Scritta nel 1821, la canzone faceva parte del ciclo delle cosiddette «Canzoni civili e patriottiche», che esortavano alla riscossa nazionale. Il canto è già emblematico di quel modo di intendere lo sport appunto come metafora della vita, perché Leopardi, cantando le gesta di un famoso campione, peraltro patriota e carbonaro, lo esalta come esempio di energia sportiva, incoraggiandolo a comportarsi così anche nella vita, vedendo nell’azione coraggiosa e determinata l’unico rimedio ad un’esistenza altrimenti vuota e infelice.

Umberto Saba, un secolo dopo dedica al calcio cinque poesie, tra le quali la più bella è forse “Goal, che mette in evidenza il momento più importante della partita, quello del goal che risolve il gioco di squadra in un confronto diretto tra l’attaccante il portiere:

GOAL

Il portiere caduto alla difesa

ultima vana, contro terra cela

la faccia, a non veder l’amara luce.

Il compagno in ginocchio che l’induce

con parole e con mano, a rilevarsi,

scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla- unita ebrezza – per trabocchi

nel campo. Intorno al vincitore stanno,

al suo collo si gettano i fratelli.

Pochi momenti come questo belli,

a quanti l’odio consuma e l’amore,

è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere

– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,

con la persona vi è rimasta sola.

La sua gioia si fa una capriola,

si fa baci che manda di lontano.

Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Le altre quattro poesie sono: Squadra paesana (Anch’io tra i molti vi saluto, rosso – / alabardati, /sputati /dalla terra natia, da tutto un popolo /amati), Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio.

Perché il calcio è così misteriosa magia, nel suo primo romanzo «Febbre a 90’ », lo scrittore inglese Nick Hornby può scrivere: « Mi innamorai del calcio come mi sarei innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente». «Febbre a 90′»  è la storia della relazione tra l’autore, Hornby stesso, e il calcio, in special modo con l’Arsenal, squadra di Londra. Consiste di un buon numero di racconti , ognuno relazionato con una singola partita tra il 1968 e il 1992. Mentre Hornby racconta gli alti e bassi dell’Arsenal, espone anche gli avvenimenti della propria vita, sempre intrecciati con l’adorazione di idoli dell’Arsenal e il disprezzo per giocatori deludenti. «Febbre a 90’» vendette più di un milione di copie solo nel Regno Unito. Fu anche visto come una pietra miliare nella percezione pubblica del football, rendendo accettabile, o addirittura alla moda, l’interesse per questo sport anche in circoli più sofisticati.

Ritorno a Pasolini rimarcando che fu fantasiosa ala destra (ispirato al suo modello, il grande Amedeo Biavati) e scrisse molto di calcio, definendolo «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Con originalità assimilò il calcio a un vero e proprio linguaggio coi suoi poeti e prosatori (i cifratori sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori). «Corso» – diceva Pasolini – «gioca un calcio in poesia». E ancora: «Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è prosa poetica, da ‘elzeviro’. Anche Mazzola è un elzevirista che potrebbe scrivere sul ‘Corriere della Sera’, ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.» E, infine, «ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica». In un’intervista, Adriano Sofri disse: “Non c’è niente che spieghi Pasolini quanto il suo modo di giocare a pallone.”

Persino il papa Francesco, anch’egli appassionato di calcio (spesso ha citato il gol del calciatore Pontoni che diede lo scudetto argentino al San Lorenzo nel 1946 come uno dei suoi ricordi più belli) ha ripreso, a modo suo, il tema del calcio come metafora della vita. «Mi spiego» – ha detto rivolgendosi a dei calciatori – «nel gioco, quando siete in campo, si trovano la bellezza, la gratuità e il cameratismo. Se a una partita manca questo, perde forza, anche se la squadra vince. Non c’è posto per l’individualismo, ma tutto è coordinazione per la squadra.»

Se molti sono gli scrittori e poeti italiani, anglosassoni, sudamericani in particolare, ecc,. che hanno dedicato loro opere al calcio (sono tanti, impossibile citare anche solo i più significativi – e, citandoli, dire qualcosa di essenziale sulle loro opere), non sono mancati e non mancano calciatori che hanno scritto dei libri – non quei libri-biografie scritti evidentemente da (o con l’aiuto di) ghostwriter con intenti più commerciali che letterari. Alcuni calciatori sono diventati anche grandi scrittori o poeti. Ricordo Ezio Vendrame (estroso e atipico calciatore degli anni Settanta, genio e sregolatezza), oggi apprezzato poeta; il campione argentino Jorge Valdano, compagno di nazionale del grande Maradona, e la promessa del calcio, sempre argentino, Osvaldo Soriano. Forse Soriano è il più grande scrittore di calcio (e perciò… di vita) con i suoi indimenticabili racconti proposti, come spesso accade nella narrativa sudamericana, con accenti visionari, poetici, fantastici. «Pensare con i piedi» e «Fùtbol»: le sue raccolte più famose, nelle quali parla di calcio, certo, ma anche della storia sofferta dell’Argentina, del suo immaginario privato, della sua infanzia, del suo orgoglioso genitore, antiperonista ed eterno perdente, storie dove spesso l’avversario è un stopper arcigno che ti rifila calcioni senza pensarci due volte, proprio come fa la vita, ma dove puoi anche sognare: «Avevo l’impressione di guadagnarmi qualche attimo di paradiso ogni volta che entravo in area e mi ritrovavo tra due disperati che si credevamo macellai e assassini…». «Il rigore più lungo del mondo» è un capolavoro e non a caso è probabilmente il racconto di calcio più conosciuto al mondo. Straordinaria la lettura di Baricco – scrittore per il quale non nutro particolare simpatia – qualche anno fa in un programma televisivo. Tra i tanti, tantissimi non ricordati, non posso tuttavia ignorare quella sorta di thriller sportivo che è «Il centravanti è stato assassinato verso sera» del grandissimo scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, scomparso nel 2003. Montalbán prende a pretesto una vicenda sportiva per scrivere un giallo (protagonista il suo mitico personaggio, il detective Pepe Carvalho) e per raccontare una Barcellona sconvolta dai lavori e dalle speculazioni per i Giochi Olimpici del 1992.

La personalità del costituzionalista e regionalista Livio Paladin (ordinario di diritto costituzionale all’Università di Padova, presidente della corte costituzionale e due volte ministro, chiamato al governo come tecnico in momenti di gravi crisi politiche e governative), presentava lati diversi, oltre quello del giurista, al quale univa la grande passione per la musica e l’amore per lo sport, in particolare la montagna e il calcio. Giovanissimo fu giocatore della squadra della Triestina, che militava in serie B, e fu anche presidente della Commissione d’appello federale della Federazione italiana giuoco calcio (CAF) dal 1986 al 1992. L’accettazione di questa carica suscitò grande sorpresa e qualche critica. Il 1° luglio 1986 scadde il mandato di presidente della corte costituzionale e, potrebbe dirsi, senza soluzione di continuità Paladin passò a presiedere il supremo tribunale della giustizia calcistica. La CAF, infatti, era l’organismo che giudicava in ultima istanza sulle controversie di giustizia sportiva che via via si presentavano nel calcio italiano. Tali controversie, solitamente, venivano sottoposte dapprima al giudizio delle Commissioni Disciplinari pertinenti e poi, in secondo grado, alla CAF. La sentenza d’appello emessa da quest’ultima era quella definitiva ed inappellabile, anche grazie alla cosiddetta “clausola compromissoria” che impediva a tesserati e società di ricorrere alla giustizia ordinaria per risolvere le controversie sportive. La mancata conoscenza del calcio trattato giuridicamente dalla penna dl grande giurista Livio Paladin è un vuoto, che non spero di poter colmare.

Ultimo George Weah compreso nella lista del 100 più grandi calciatori viventi; ora è presidente della Liberia non degno del suo passato di calciatore.

Il calcio. Creato dai poveri e rubato dai ricchi.

E il calcio fu. Accadde tutto intorno al 1860, oltre Manica. Dopo avere spossessato le comunità agricole e paesane del loro gioco popolare, il folk football, le classi dominanti inglesi trasformarono quella che era ancora una pratica ingenua, violenta, giocata in spazi bucolici e irregolari, in una nuova forma di socialità per gentlemen, e codificarono le regole del gioco.

Era incominciata una partita avvincente, dal risultato incerto. In appena una trentina di anni, un gigantesco contropiede della storia impresse al pallone una traiettoria nuova e imprevedibile: la classe operaia britannica, figlia dello sviluppo industriale, si invaghì e si impadronì dello sport più bello del mondo, e non lo abbandonò più. Il popolo correva a perdifiato e giocava da squadra. Il passing game, fatto di una ragnatela di passaggi, aveva in sé il segreto della vittoria: mantenere il più possibile il possesso del pallone. Il passing game rifletteva l’aiuto reciproco proprio della condizione operaia e dell’organizzazione di fabbrica, e si contrapponeva al dribbling game, la serpentina snob ed egoista tipica del calcio aristocratico e borghese.

Anche oggi, a più di un secolo e mezzo di distanza, la partita di calcio conserva lo stesso sapore di umana, imponderabile avventura, di braccio di ferro tra forti e deboli, di decreti del destino crudeli e imprevedibili a dispetto di ogni sforzo agonistico. Entrare in uno stadio è come rinnovare l’appuntamento con la speranza: in 90 minuti si concentrano l’emozione dell’incertezza e la possibilità della gioia. E questo è sempre vero, anche se a scontrarsi sul terreno verde sono la corazzata abituata a navigare nei mari della Champions League e il guscio di noce della neopromossa dalla serie B.

Il rischio, in epoca di video assistenza per l’arbitro, di sponsorizzazioni miliardarie, e di compensi faraonici per calciatori e procuratori, è di trasformare il calcio in chirurgica operazione commerciale. Di dimenticarne gli archetipi, le simbologie, gli intrecci con la storia e con il riscatto degli emarginati. C’era forse qualcosa di sinistramente riassuntivo in uno striscione esposto dai tifosi del Club Africain di Tunisi, durante una partita con il Paris Saint Germain, nel gennaio 2017, che così recitava: «Il calcio. Creato dai poveri e rubato dai ricchi».

Il calcio è metafora della vita, è danza tribale, teatro, sogno, battaglia. È aritmetica, geometria, ma anche fantasia, caos e immaginazione. «La bellezza è la prima cosa, la vittoria la seconda. L’importante è la gioia», diceva Socrates, calciatore brasiliano degli anni 80, dottore in medicina a tempo perso, punto di forza dalla nazionale brasiliana abbattuta da tre gol di Paolo Rossi ai Mondiali dell’82. «Il calcio non è una questione di vita o di morte, è qualcosa di molto più importante» concludeva drasticamente da parte sua Bill Sankly, uno che se ne intendeva, allenatore del Liverpool dal 1959 al 1974.

Mickaël Correia, giornalista francese indipendente, si è messo a scavare con meticolosità nel passato e nel presente alla ricerca di tutto ciò che è sovversivo, popolare, sociale, politico nel mondo del pallone. Dall’epoca del calcio fiorentino ai giorni nostri, con un’attenzione particolare a tutti coloro che, nel mondo, ne hanno fatto un mezzo di emancipazione, di opposizione alle dittature, di lotta alla povertà.
Il risultato è un libro, Storia popolare del calcio, dove il profumo non è quello dolciastro dell’erba degli stadi, ma quello da polvere da sparo della storia, delle rivoluzioni civili e industriali, delle partite giocate e vinte per fare dispetto ai dittatori, delle periferie più povere dove sbocciano campioni destinati a far prosperare un business mondiale. Un lavoro ricchissimo, denso di informazioni, che sottolinea il carattere sovversivo del calcio, sport “costruito dal basso”.

Ai nostri giorni il gioco del pallone rischia di dare l’addio alle sue radici autenticamente popolari e di diventare un prodotto da laboratorio. Ma proprio per questo il libro di Correia è un archivio preziosissimo di fatti che ci permettono di fare il punto sui primi centosessanta anni del calcio moderno. Viste alla moviola, sfilano le radici agricole e industriali del football, la nascita del professionismo e del calciomercato, la sofferta storia del calcio femminile, le partite manipolate dalle dittature, la politicizzazione del movimento ultrà in Italia, le finte e le derive di un calcio sempre più invaso dal business.

Fanno bene i tifosi del Liverpool a far vibrare di emozione gli stadi cantando il loro inno, You’ll never walk alone, qualunque sia il risultato della partita: «Anche se i tuoi sogni sono scossi e spazzati via dal vento, continua a camminare, continua a camminare con la speranza nel cuore, e non camminerai mai da solo». Calcio autenticamente popolare.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.