La vera storia di Helen Keller e Annie Sullivan
ANNA DEI MIRACOLI
Helen Keller rimasta cieca e sorda nei primi mesi di vita a causa di una malattia infantile è una bambina chiusa sotto una campana di vetro e isolata dal mondo in una situazione di isolamento estrema: non può vedere, sentire e parlare (non è muta ma non conosce le cose e i loro nomi, non pronuncia parole, grugnisce). Annie Sullivan aiuta Helen a rompere la sua corazza di isolamento e a connetersi col mondo insegnandole il linguaggio dei segni con le mani. «All’alba del mio secondo compleanno, una malattia squarciò il velo che proteggeva la mia culla. Da quella ferita entrarono centinaia di farfalle nere che si posarono sui miei occhi chiudendo il passaggio alla luce. Mi sprofondarono nell’oscurità e, con il battito delle loro ali, mi impedirono di tornare a sentire le voci amate.» Così la vicenda viene raccontata a cinquant’anni dalla morte di Helen (1968) in un libro di Ana Juan, un libro a metà tra l’albo illustrato e la graphic novel.
Tra l’ottobre 1959 e il luglio 1961 il dramma The Miracle Worker basato sull’infanzia di Helen Keller, viene rappresentato in teatro a Broadway per oltre 700 repliche. Patty Duke, attrice bambina impegnata in ruoli sempre più impegnativi, interpreta Helen e Anne Bancroft interpreta la sua istitutrice Annie Sullivan. In teatro il successo giunge clamoroso e il dramma diventa nel 1962 un film, Anna dei miracoli, per il quale Patty Duke vincerà il premio Oscar alla miglior attrice non protagonista e Anne Bancroft vincerà il premio Oscar alla miglior attrice protagonista. Patty è appena sedicenne e il suo è il primo Oscar della storia a essere conferito a una minorenne.
Nell’Alabama del 1882, dove la famiglia Keller viveva, non esistevano soluzioni per la situazione di isolamento estremo della bambina. L’isolamento e la sovrabbondanza di amore la portano ad essere capricciosa, insolente e violenta, sporca; mangia con le mani prendendo il cibo dai piatti dei suoi cari, che lasciano fare; rompe le cose che capitano a portata di mano; butta via le carte del padre. La situazione diventa isopportabile e si pensa di rinchiudere la bambina in un istituto, soluzione a cui si oppone con determinaziona la madre Kate. I genitori cercano quindi un aiuto esterno, qualcuno che potesse aiutare a connettere un minimo la bambina col mondo. Trovano Annie Sullivan, una delle prime donne ad aver imparato a esprimersi col linguaggio delle mani. L’aiuto caparbio e ostinato di Annie Sullivan riuscirà a scardinare il tragico isolamento di Helen.
Centrale in tutto questo fu, senza ombra di dubbio, anche il ruolo della madre di Helen, Kate, che mai si rassegnò a questo ingiusto destino. L’arrivo di Annie Sullivan, il suo coscienzioso ed energico operato segnarono una vera e propria svolta nella vita della giovanissima Helen. Fu anche l’inizio di una lunga e proficua amicizia. Le due donne rimasero infatti insieme per molti anni; anni durante i quali affrontarono lunghi viaggi per tenere conferenze, raccogliere fondi per i non vedenti, offrire alla gente aiuti e speranza. Helen, infatti, riuscì a rompere il suo isolamento, si laureò, divenne una scrittrice impegnata in tante cause sociali, dal voto alle donne all’antimilitarismo, per citare alcune delle sue campagne. Ci lascerà questa toccante testimonianza: «Noi tutti vedenti e non vedenti ci differenziamo gli uni dagli altri non per i nostri sensi, ma nell’uso che ne facciamo, nell’immaginazione e nel coraggio con cui cerchiamo la conoscenza al di là dei sensi». Sin dal 1971 campeggia nella Women’s Hall of Fame dell’Alabama, stato in cui era nata il 27 giugno 1880.
Il film ci fa conoscere la piccola Helen cresciuta dai genitori Kate e Arthur, che assecondano ogni suo capriccio. Pur amandola molto, il padre e il fratellastro non riescono più a sopportarla. Pensano persino di farla rinchiudere in un ospizio per malati mentali, ma le disperate richieste della madre li convincono a contattare un centro, chiedendo l’invio di una persona che si occupi della scatenata Helen. Dalla grande città giunge una giovane donna, Annie Sullivan, alle prime armi ma molto determinata e segnata da un’infanzia alquanto difficile. Anche lei era cieca, aveva parzialmente recuperato la vista grazie ad alcuni interventi chirurgici e ha passato diversi anni in manicomio nelle condizioni più disumane. Sin dai primi contatti con Helen si rende conto dell’intelligenza della piccola, vanificata dai continui capricci a cui nessuno ha mai opposto resistenza. Annie decide quindi di imprimere una svolta radicale alla sua vita disordinata, lottando in tutti i modi per insegnarle la disciplina. Questi metodi non sono però apprezzati dai genitori della bambina, i quali non credono che il comportamento della figlia possa migliorare. Propensi a licenziare l’energica maestra, vengono infine dissuasi dalle sue argomentazioni. Annie chiede di poter lavorare con Helen in completa solitudine per un periodo, lontano dalla presenza dei suoi cari, in modo tale da impartirle una nuova educazione. Qui si inserisce l’intensa scena della più che probabile autocitazione di Anne Bancroft che ho riferito in un precedente articolo del mio blog dedicato a questa vicenda, Della lucanità di “Anna dei miracocli”. I Keller abitano in una grande tenuta di campagna, all’interno della quale si trova una baracca semi-abbandonata e sufficientemente distante dalla loro abitazione. Per Annie è il luogo ideale, e così maestra e allieva vi si insediano. L’impegno della istitutrice si scontra per un certo periodo contro un muro di indisciplina, ma, con il passare dei giorni, la bambina comincia ad accettare alcune restrizioni: beve nel bicchiere, modera le proprie intemperanze e impara l’ubbidienza. Tuttavia, non riesce ancora a collegare le parole insegnate (e ripetute con i gesti dell’alfabeto per i muti), con la cosa che esse designano. Kate diventa ansiosa, ha nostalgia della figlia e vuole riabbracciarla. A nulla valgono le insistenze di Annie, conscia di aver svolto solo una parte del proprio lavoro. Helen viene riportata a casa: per i genitori è sufficiente averne moderato i comportamenti e averle insegnato la pulizia. Tuttavia, durante un pranzo con tutta la famiglia la piccola dà nuovamente l’idea di voler riprendere le vecchie abitudini. Rompe una caraffa d’acqua e Annie ha come una felice intuizione, strappa con forza la bambina dall’indulgenza del padre e della madre e la conduce in giardino, moltiplicando i suoi sforzi per portarla a collegare le parole con le cose. È la scena finale, molto intensa del film. Una pompa d’acqua, pugni di terra bagnata, segni quasi parossistici delle mani, fin quando, d’improvviso, Helen pronuncia la parola “acqua”. Helen è connessa col mondo, ha compreso il nesso tra la parola “acqua” nell’alfabeto delle mani insegnatole da Annie e la cosa “acqua”. I Keller, riconoscenti verso la maestra, sommergono Helen in un grande abbraccio. Helen raggiunge Annie e la bacia.
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Il film mi è tornato in mente con tutta la sua drammaticità, forse l’ho visto più di quarant’anni fa, ma ricordo anche la rappresentazione teatrale con Anna Proclemer e Ottavia Piccolo, intensa.
Anna dei miracoli mi ha emozionato moltissimo e scrivendo i due articoli per Rabatana sono stato più volte sul punto di piangere. Sapevamo vagamente che Anna Maria Italiano era una brava attrice teatrale, ma quando vidi il film (rivisto quattro / cinque volte) non è descrivibile l’emozione del ritorno al mio paese natio e del ricordo della bambina che avevo conosciuto. Mi ricordai e ricordo tuttora com’era vestita e ricordo che la timidezza mi paralizzava. A Palazzo S.G. la maggior parte delle case erano a pian terreno e Anna Maria veniva dalla metropoli dei grattacieli! Nella storia qui raccontata avevo inizialmente inclusa una descrizione del libro di Ana Juan e descrizioni delle edizioni teatrale e televisiva con Anna Proclemer e Ottavia Piccolo e, in TV, con Cinzia de Carolis nel ruolo di Helen, nonché, più recente, con Mariangela Melato. Ma poi ho pensato che sarebbe stato un grave errore appesantire il racconto: Anna dei miracoli è Anna Bancroft, la piccola Anna Maria Italiano che mi ha riportato al mio paese.
Grazie del tuo intervento, cara Rachele. Mi ha commosso e mi ha instillato, vagamente, l’idea di scrivere un librino, Ritorno a Palazzo, su alcuni ricordi di un bambino che lasciò il suo paese.
Allora aspettiamo il tuo grande librino.
O è sbagliato l’aggettivo o il nominativo.