Ieri 2 giugno – Festa della Repubblica – la compostezza e la serietà della «piazza» di Codogno, stretta intorno a Sergio Mattarella, hanno trasmesso l’impressione di un’Italia unita e consapevole del dramma che stiamo vivendo.

Quella «smascherata» e chiassosa di Roma ne ha offerta una diversa, perfino opposta. Ed ha finito per sottolineare non la forza dell’opposizione di destra, il suo «assalto» inesorabile al governo, ma la difficoltà crescente di una proposta alternativa credibile. Gridare «libertà» e invocare elezioni anticipate al più presto sono apparsi slogan sfasati rispetto alla dura realtà post-coronavirus. E non perché manifestare contro l’esecutivo non sia un diritto sacrosanto, e criticarlo quasi un dovere per chi non ne fa parte.

Dispiace, ma, a ben vedere, sono pertinente, utile e opportuna introduzione un paio di paginette del libro di Ilaria Capua IL DOPO, dove si sostiene e si dimostra che la salute dell ‘uomo è la salute del pianeta, e viceversa. Se riteniamo che la salute umana sia un bene primario, universale, non possiamo più permetterci di considerarla avulsa da quella del pianeta: questa pandemia ci ha insegnato che un uomo di trentotto anni che vive a Codogno, nel Lodigiano, è connesso con un pipistrello che svolazza in una foresta asiatica. Che il benessere del primo ministro inglese dipende direttamente da quanto la biodiversità del globo è stata erosa. In un altro libro (La salute circolare. Una rivoluzione necessaria, Milano, Egea, 2019) la professoressa Capua ha  ho parlato diffusamente di come la biodiversità costituisca un vivaio praticamente infinito di risorse biomediche: nel veleno delle creature marine si cercano sostanze antidolorifiche, dagli esseri viventi più impensabili si estraggono principi attivi che, poi, serviranno per elaborare farmaci o antibiotici nuovi. Se queste specie dovessero rischiare l’estinzione (come il pangolino), con esse scomparirebbero anche queste riserve di molecole potenzialmente potentissime e oggi ignote. Non possiamo ignorare che ad aver causato molte delle maggiori sfide che dobbiamo affrontare sia stato il nostro modo arrogante di rapportarci alla natura. Finora ci siamo comportati come se le riserve e la resilienza del pianeta e dei suoi abitanti fossero infinite: abbiamo sfruttato terra, mare e organismi viventi in modo indisciplinato, abbiamo innescato il cambiamento climatico, abbiamo inquinato. È tutto correlato: l’emergere di agenti patogeni sconosciuti ha a che fare con il riscaldamento globale e la perdita di biodiversità. Invadendo l’ambiente, costringiamo gli animali a vivere in spazi sempre più ristretti, e i virus si trasferiscono da uno all’altro. In tutta l’Asia e l’Africa i mercati sono luoghi dove potenzialmente potrebbero verificarsi degli spillover (salto di specie del virus, dagli animali all’uomo), perché uomini e animali di allevamento e selvatici, magari trafficati illegalmente, sono affastellati gli uni sugli altri in poco spazio. Le città italiane si allagano, le foreste australiane bruciano, i ghiacciai argentini si sciolgono, gli oceani si scaldano, gli insetti muoiono e i virus saltano da una specie all’altra: tutto grazie alle nostre azioni. Rifiutarsi di vedere che ci si ritorcono contro è come voltarsi dall’altra parte. Negli Stati Uniti, alla fine del 2018 un batterio tipico delle feci delle mucche, Escherichia coli O157:H7, attraverso la fertirrigazione delle colture è finito su un campo di insalata e l’ha contaminata. Quella partita di insalata infetta è finita sia nei banconi frigorifero della grande distribuzione, sia nella produzione su scala industriale di panini. Risultato? Sedici Stati coinvolti. L’Escherichia coli O157:H7 causa una tossinfezione che può essere anche molto grave, addirittura fatale. La sua presenza sulle tavole degli americani, però, non deve stupire: è semplicemente figlia della scelta di privilegiare le esigenze produttive al rispetto dei meccanismi ecologici e naturali, i ricchi e volatili benefici a breve termine agli inevitabili danni nel medio-lungo termine. A onor del vero, in questi ultimi anni qualcosa si sta muovendo, ma non abbastanza. Sembra quasi uno scherzo ma, come ha ricordato il «Financial Times››, a ottobre sarà proprio la Cina a ospitare un incontro della Convenzione sulla Diversità biologica, noto come «Davos of Nature››. Inoltre, sempre in Cina si terrà un summit sul Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza e sul Protocollo di Nagoya sull’accesso e l’equa distribuzione delle risorse naturali. Sono tutte iniziative che ci si augura fruttuose, ma nessun paese ha finora davvero preso posizione e cominciato fattivamente a ridefinire il suo rapporto con la natura. Siamo più consapevoli di quanto il cambiamento climatico rappresenti una minaccia, ma non siamo disposti a cambiare, per arrestarlo. La professoressa Capua illustra un esempio, che non riferisco data la sua tecnicalità. Qauello che qui conta è la morale, la quale in sintesi ci dice che siamo i soliti: creiamo regole bellissime sulla carta, poi le aggiriamo per il nostro tornaconto. È inconfutabile quanto sia irresponsabile sottostimare il deterioramento della biodi- versità e del clima, e quanto sia necessario agire collettivamente per cambiare le cose. Trovare la volontà per farlo è nel nostro interesse come mai, forse, è stato prima.

Quando la fase acuta dell’emergenza sarà stata contenuta, sarà anche essenziale e urgente riflettere su come prepararsi a un’altra eventualità di questo tipo. Il SARS-CoV-2 ci ha sorpreso e, di conseguenza, costretto a inseguirlo. Farci sorprendere una seconda volta sarebbe assurdo, un rischio che non possiamo permetterci di correre. Per evitare di trovarci nuovamente in questa condizione, dunque, dobbiamo muoverci in anticipo, da subito, a tre livelli: sovranazionale, collettivo, individuale.

Rabatana si riserva di riferire il pensiero della prof. Capua su questo tre livelli.

 

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