10 giugno 1940, 80 anni fa: scocca l’ora del destino
ALLE CINQUE IN PUNTO DELLA SERA / UN BAMBINO PORTO’ UN LENZUOLO BIANCO ALLE CINQUE DELLA SERA
Quel giorno di ottanta anni fa – il 10 giugno 1940 – come nella canzone di Garcìa Lorca cominciò alle cinque della sera. Parla il duce! Il duce, alle sei, si affacciò al balcone di palazzo Venezia – la piazza era strapiena. Avevo dieci anni, ricordo ogni momento di quel giorno e li ho raccontati in questo blog. Questo è il link https://www.rabatana.it/?p=5763258 per chi eventualmente intendesse conoscere la testimonianza di un bambino di dieci anni, bianca come un lenzuolo bianco.
Sono passati ottant’anni dal quell’annunzio fatidico e tragico risuonato da balcone di Palazzo Venezia: “Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano. Alcuni lustri della storia più recente si possono riassumere in queste parole: frasi, promesse, minacce, ricatti e, alla fine, quale coronamento dell’edificio, l’ignobile assedio societario di cinquantadue stati. La nostra coscienza è assolutamente tranquilla. Con voi il mondo intero è testimone che l’Italia del Littorio ha fatto quanto era umanamente possibile per evitare la tormenta che sconvolge l’Europa; ma tutto fu vano. …”
Lo storico Emilio Gentile – che firma la copertina della Domenica del Sole 24 Ore – entra nel vivo della vicenda cercando di ricostruire, passo dopo passo, che cosa Mussolini stesso pensasse di quell’annuncio e che cosa di fatto si attendesse dagli eventi bellici da lui scatenati con lo storico discorso. Si trattò del discorso più difficile della sua trentennale avventura politica, nel momento supremo della sua vita.
Ma è tempo di cedere la parola a Emilio Gentile ed entrare nel vivo della vicenda.
Sette giugno 1940, venerdì. Mancano tre giorni alla dichiarazione di guerra. Il 2 giugno il duce ha scritto al Führer: «Il mio programma è il seguente: lunedì 10 giugno, dico 10 giugno, dichiarazione di guerra; e dal giorno 11 mattina, inizio ostilità». Il 4 ha detto ai ministri: «Questa è l’ultima nostra riunione in tempo di pace». L’Italia combatterà a fianco della Germania, per mantenere fede alla parola che lui aveva dato pubblicamente a Berlino il 28 settembre 1937: «Il fascismo ha la sua etica, alla quale intende rimanere fedele, ed è anche la mia morale personale: parlare chiaro e aperto e, quando si ha un amico, marciare con lui fino in fondo».
Un “patto d’acciaio” ha consolidato l’impegno con l’amico germanico. Da qualche giorno, il duce medita sul discorso per annunciare al popolo la dichiarazione di guerra. È il discorso più difficile della sua trentennale avventura politica, nel momento supremo della sua vita. E per la vita degli italiani. «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria». È la prima frase che gli viene in mente, e subito l’annota. Il destino! Lo ha sempre sottomesso alla sua volontà. E sempre ha vinto: contro il socialismo riformista, contro il neutralismo, contro il bolscevismo, contro l’antifascismo, contro l’Etiopia, contro la Società della nazioni. Ora contro Francia e Gran Bretagna: «Vinceremo!».
Immaginiamo fossero questi i pensieri di Mussolini, il 7 giugno di ottanta anni fa, mentre nella sala del Mappamondo, a Palazzo Venezia, leggeva i rapporti sull’atteggiamento della popolazione verso la guerra. «Si fanno infinite congetture sull’andamento degli eventi», riferiva quel giorno un fiduciario da Milano: «In Borsa si era sparsa la voce che per autorevole intervento del Papa e di Roosevelt, dopo le ottime disposizioni di Francia e Inghilterra a renderci gran parte di quanto da noi richiesto, le cose sarebbero state fermate. Unanime è sentito il bisogno di pace e di lavoro e di ordine».
Il duce si domandò se opinioni così idiote fossero del fiduciario o espressione di quel che pensava la gente. Certo, Roosevelt e il Papa gli avevano scritto per esortarlo a non portare l’Italia in guerra. Anche Churchill gli aveva scritto, ricordando i loro incontri romani: «Non sono mai stato nemico del popolo italiano, né mai sono stato nel mio cuore avversario di chi governa l’Italia». Ma poi aveva sfoderato l’arroganza britannica: «L’Inghilterra proseguirà fino alla fine, anche se completamente sola, come abbiamo già fatto altre volte, e io ritengo con qualche buon motivo che saremo aiutati in maniera crescente dagli Stati Uniti d’America e anzi da tutte le Americhe». Il duce gli aveva risposto ricordando «l’iniziativa presa dal vostro governo per organizzare a Ginevra le sanzioni contro l’Italia» per mantenerla nello «stato di schiavitù vero e proprio nel quale l’Italia si trova nel suo stesso mare».
Che le democrazie plutocratiche e imperialiste, nemiche irriducibili del fascismo, fossero disposte a soddisfare le sacrosante rivendicazioni italiane, era un’illusione generata nella gente dalla viltà. Gli italiani erano agnelli: quando sarebbero diventati lupi? Da diciotto anni, lui ci stava provando a forgiare la nuova razza dell’Italia fascista. La guerra era necessaria anche per questo: avrebbe inculcato negli italiani l’odio per il nemico, e la volontà di annientarlo.
Tuttavia, nei mesi di “non belligeranza”, lui stesso era stato travagliato da dubbi. Soprattutto non si fidava dell’alleato, che già lo aveva ingannato: a sua insaputa, Hitler aveva fatto un accordo con Stalin. Peggio ancora: non aveva mantenuto l’impegno di attendere almeno due anni, prima di dar fuoco alle polveri, per consentire all’Italia di completare la preparazione militare. E poi, c’era un’incognita che impauriva: il Führer ammirava il duce, ma disprezzava gli italiani: quale sarebbe stata la sua reazione verso l’Italia, se tradiva l’alleato in guerra, come nel 1914?
Non c’era alternativa: la guerra a fianco della Germania era inevitabile. Erano in gioco l’onore e il futuro dell’Italia. Lo aveva detto chiaramente ai ministri, il 23 gennaio: «Nessuno penserà che noi possiamo rimanere del tutto fuori. Non possiamo lasciarci iscrivere nel girone B. Sarebbe una declassazione dell’Italia». Lo aveva ribadito il 23 marzo nel promemoria segretissimo inviato al re: «Se la guerra continua, credere che l’Italia possa rimanersene estranea sino alla fine è assurdo e impossibile», perché «è in mezzo ai belligeranti, tanto in terra, quanto in mare. L’Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci». Era inevitabile perciò intervenire a fianco dell’alleato germanico, ma conducendo una “guerra parallela”, con propri obiettivi.
Per il duce, il dilemma cruciale non era se entrare in guerra, ma quando. Tuttavia, all’inizio della “non belligeranza”, non aveva scommesso sulla vittoria dei tedeschi, ma sulla resistenza dei loro nemici. All’inizio di aprile, la scommessa era persa: Hitler aveva occupato la Norvegia e la Danimarca; all’inizio di maggio aveva invaso il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo, e marciava dritto su Parigi. La “guerra lampo” dissolse i dubbi: bisognava entrare in guerra prima della resa francese, per essere al fianco del Führer nel momento di decidere il futuro del continente. La guerra sarebbe finita in pochi mesi, con la vittoria dell’Asse. Dopo gli strepitosi successi tedeschi, anche il re, i gerarchi, i generali, prima contrari alla guerra, accettarono la decisione del duce, riconoscendo che poteva avere ragione, come nel 1935, quando dichiarò guerra all’Etiopia, e vinse.
Da ogni parte d’Italia, i fiduciari facevano sapere che la “guerra lampo” aveva convertito anche gran parte della popolazione: «I successi germanici hanno fatto riflettere molta gente. Nessuno dubita più che l’azione finale italo-germanica condurrà alla vittoria»; «tutti sono convinti che detta guerra potrà durare solo qualche mese e che la vittoria si otterrà facilmente». Anche sua sorella Edvige gli aveva confermato quel che pensava la gente: «Che diavoli quei tedeschi! E come è stato saggio il duce ad allearsi con loro».
Ma Edvige gli aveva riferito anche il messaggio inquietante di una suora con le stimmate, che scongiurava il duce di non entrare in guerra, perché aveva avuto la visione di «città distrutte, armate straniere e genti esotiche accampate sul suolo italiano, gli italiani intenti ad odiarsi e ad uccidersi». Il duce sapeva che la suora aveva fama di santità, e restò sopra pensiero. Poi disse: «La Francia è caduta, l’Inghilterra continua la guerra nel suo modo, è venuta anche per l’Italia l’ora del destino. Certo la santità e le visioni sanno di amaro per chi è impegnato nella Storia».
Il duce non aveva dubbi sulla vittoria dell’Asse. Immaginava già, colorata sul mappamondo, l’espansione italiana in Europa, nel Mediterraneo, in Africa. Pensò anche ai conti in sospeso con la monarchia subdola, i generali bugiardi, la borghesia egoista, la popolazione recalcitrante alla rigenerazione totalitaria: incoronato con la gloria e la potenza di una nuova e più grande vittoria, avrebbe usato il pugno di ferro per eliminare questi pesi morti, che per un ventennio avevano frenato le sue ambizioni. E avrebbe saldato anche i conti con la Chiesa. E rafforzato l’orgoglio razzista e l’antisemitismo inculcati negli italiani, relegando in qualche sperduta regione dell’impero gli ebrei espulsi nel 1938 dalla comunità nazionale.
Il 10 giugno, alle ore 18, il duce apparve alla folla che rumoreggiava in piazza Venezia, immenso ondeggiante lago di teste umane. Dopo averla osservata per un attimo sorridendo, con sguardo severo impose il silenzio. E parlò: «Combattenti di terra, di mare e dell’aria…». Dalle prime parole, le italiane e gli italiani capirono che, per loro, la pace era finita.
[nda: Poiché circolano voci su anonimi untori, pare travestiti da storici, intenti a propagare un nuovo virus del «fascismo eterno», è opportuno precisare che i pensieri attribuiti al duce sono tratti da documenti autentici].
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Grazie, caro Antonio, per il tuo ruolo di dispensatore di informazioni culturali e, oggi, di ricordi storici ai quali molte volte si rischia di non dare più importanza o per i quali non si ha conoscenza di importanti dettagli, come quelli che la tua meticolosa attenzione agli eventi ci consente di porre rimedio.
Buona giornata a te e agli amici che ti seguono
Mimmo
Caro Mimmo, grazie della lettura. Quello che più ricordo è il fallimento della manifestazione nella piazza di Accettura e l’oscuramento della prima sera della guerra. L’oscuramento era fatto rispettare con isterica severità dove non c’era bisogno, perché aerei nemici non sorvolavano, a Tricarico l’isteria burocratica sfociò, come una disgrazia naturale, in una tragedia fulmineamente dimenticata. La guerra si era messa male, gli Alleati avevano occupato la Sicilia e, sbarcati in Calabria, avevano occupato Reggio Calabria. Cadde il fascismo, Mussolini fu arrestato. Il nuovo capo del governo, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, appena nominato pronunciò un discorso alla radio, che conteneva la famosa frase: «La guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data… chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito». E la punizione colpì inesorabilmente a Tricarico.
Badoglio, il giorno 26, emanò un provvedimento con il quale l’autorità militare era investita di pieni poteri relativamente all’ordine pubblico, veniva istituito il coprifuoco (divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne) e venivano vietate le pubbliche riunioni (era persino vietato camminare, pure di giorno, in più di due.) Una sera, c’era tanto buio che non si vedeva a un palmo dal naso, nella Saracena, una pattuglia di Carabinieri scorse un’ombra e intimò l’alt: – Alt o sparo – intimò uno dei militi. L’infelice si impaurì e fuggì, il carabiniere sparò e l’uccise. Dovette sentire un piccolo disagio e disse: – Era talmente scuro! … Dal paese il tragico evento fu vissuto come una mera disgrazia naturale, come una morte causata da un fulmine. Sono cose che succedono, si dice in questi casi.
A Napoli, dove vissi molto tempo della guerra, non si aveva paura delle luci, ma delle bombe.