L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Màrquez
C’è qualcosa di contagioso come il colera? Sì, l’amore, e una volta contratto questo tipo di virus, dura anche di più di quello del colera. Precisamente «tutta la vita», espressione, questa, che chiude e suggella uno dei capolavori di Gabriel García Márquez, L’amore ai tempi del colera, pubblicato per la prima volta nel 1985, la prima opera scritta dopo il conferimento del premio Nobel per la letteratura (1982).
«Scrivere un romanzo del diciannovesimo secolo come si scriveva nel diciannovesimo secolo»: è questo l’obiettivo, formulato sul filo di una garbata ironia, dello scrittore colombiano naturalizzato messicano, che scioglie un commosso e commovente inno all’amore echeggiante i versi virgiliani dell’Eneide: Omnia vincit amor. Infatti fulcro dell’opera (ambientata a Cartagena de Indias) è la passione travolgente di Florentino Ariza per Fermina Daza. Lui è un uomo malinconico, amante della poesia, con gli occhiali da vista con lenti spesse che fanno da schermo a «occhi spaventati»; lei, bellissima, ha un carattere forte condito da testardaggine e orgoglio.
Un groviglio di vicissitudini si frapporranno tra i due, ma Florentino Ariza non si darà mai per vinto. Ci vorranno cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti» prima che il protagonista possa coronare il suo sogno: allora capirà che cinquantatré anni sono «solo uno spazio di tempo, nulla più. Spazio pervaso di speranza». Non è casuale ma funzionale l’accostamento che lo scrittore stabilisce tra l’innamoramento e il colera, che attanaglia e inficia l’epoca in cui si sviluppa il romanzo. Florentino affida anche a una lettera il compito di trasmettere all’amata la purezza e l’ardore dei suoi sentimenti. Spasmodica è l’attesa per la risposta di Fermina, tanto che sia la psiche che il fisico ne risentono: egli vomita, è preda di diarree, sviene. La madre si preoccupa. È convinta che abbia preso il colera e quindi convoca il suo padrino, l’omeopata Transito Ariza. Anch’egli, in un primo momento, pensa che Florentino ha contratto quella terribile malattia: ma non c’è febbre, non ci sono dolori. E quindi lo svelamento: «Gli bastò un interrogatorio insidioso, prima a lui e poi alla madre, per comprovare una volta di più che i sintomi dell’amore sono gli stessi del colera».
Coloro che sono colpiti da questo morbo vedono la propria vita sconvolta: in uno stato di incoscienza compiono azioni che da sani non farebbero mai: nemmeno le concepirebbero. Amore e colera s’indentificano dunque sotto l’egida di una “patologia” che da un lato segna e lascia cicatrici profonde, dall’altro, con potere catartico, rafforza e nobilita. Per anni Florentino aveva disperso il suo amore in molte donne senza mai dimenticare Fermina. «Aveva imparato — scrive García Márquez — quello che aveva già sofferto parecchie volte senza saperlo: che si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna. Il cuore ha più stanze di un casino». Ma la passione per Fermina è superiore alle altre passioni, quasi le sublima facendole convergere in unico nucleo sentimentale. E l’amore per Fermina è come il colera: esistono, certo, altre malattie contagiose, ma il colera ha una virulenza così potente da risultare spietato e inclemente. Al dunque, letale. La differenza fondamentale sta però nel fatto che Florentino non soccombe al virus dell’amore, ma riesce — dopo un lungo cammino di sofferenza e di maturazione — a domarlo e a tradurlo in una fonte inesauribile di felicità.
L’eroismo di Florentino sta nel coraggio di lasciarsi contagiare dal virus dell’amore, pur lucidamente consapevole delle sofferenze che deriveranno da un’esposizione aperta, schietta — senza infingimenti e diaframmi — ai focolai della passione. «Capita — scrive García Márquez — che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, condividere le malinconie e le inquietudini, fino a riconoscersi nello sguardo dell’altro».
Ed è proprio grazie allo sguardo, espressione della perfetta alchimia tra i due innamorati, che il tentativo di conquistare l’altro può sconfiggere il potere corrosivo del tempo, arrivando laddove non arrivano le parole, anche le più sagge e calzanti. Uno sguardo che irride le coordinate del tempo e dello spazio, come pure le intemperie — litigi, tradimenti, incomprensioni — che nel corso di cinquantatré anni si sono scatenate. «La bambina — si legge in un passo del romanzo — alzò gli occhi per vedere chi stava passando davanti alla finestra, e quello sguardo casuale fu l’origine di un cataclisma amoroso che mezzo secolo dopo non era ancora terminato».
Quella di Florentino, contagiato dall’amore-colera, non è solo la lotta per la conquista della donna amata: è anche una lotta contro il tempo, che va saputo gestire con pazienza per non esserne travolti. «Era ancora troppo giovane — sottolinea García Márquez — per sapere che la memoria del cuore elimina i cattivi ricordi ed esalta quelli buoni, e che grazie a quell’artificio riusciamo a sopportare il passato. Ma quando rivide dalla ringhiera della nave il promontorio bianco del quartiere coloniale, gli avvoltoi immobili sui tetti, la biancheria da poveri stesa ad asciugare sui balconi, solo allora capì fino a che punto era stato vittima facile delle trappole caritatevoli della nostalgia». Florentino dunque risulta vittorioso su due fronti nevralgici: su quello dell’amore e su quello del tempo. Del resto non gli fa difetto una determinazione ostinata e accanita. «Da quando sono nato — dice — non ho detto una solo cosa che non sia sul serio».
E quando il capitano (uno dei personaggi del romanzo) alla fine guarda Florentino Ariza e il suo «dominio invincibile» e il suo «amore impavido», «lo spaventò il sospetto tardivo che è la vita, più che la morte, a non avere limiti». Come stizzito, il capitano gli chiede fin quando crede che sia possibile proseguire questo «andirivieni», in riferimento alla storia d’amore con Firmina. Saldo come una roccia, Florentino aveva la risposta pronta da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti: «Tutta la vita», disse.
di Gabriele Nicolò, L’Osservatore Romano 6 maggio 2020
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