La peste motoria

NELLA PROSA SCORREVOLE DI UN ARTICOLO DI CRONACA – E BEN PRIMA CHE IL COMPUTER VENISSE A COSTITUIRE UN ELEMENTO FONDAMENTALE DELLE NOSTRE VITE – DINO BUZZATI INTUISCE CHE NEL MONDO MODERNO L’EPIDEMIA PUO’ COINVOLGERE, OLTRE ALL’UOMO, LE SUE MACCHINE PIU’ ELABORATE E PREZIOSE. L’INCUBO DEL CONTAGIO – SI PENSI AL VIRUS DEL COMPUTER – CHE COLPISCA PERSONE UMANE O COLPISCA MACCHINE, NON CAMBIA.

Può essere interessante, in questo tempo in cui il coronavirus continua a circolare, leggere o rileggere un racconto a suo modo fantascientifico di Dino Buzzati-Traverso, uno dei pilastri della letteratura italiana del Novecento, autore di quel capolavoro che è Il deserto dei Tartari. Il racconto, intitolato La peste motoria, pubblicato per la prima volta nel numero del 9 dicembre 1956 del Corriere della Sera, fu quindi ristampato nella raccolta Sessanta racconti con cui Buzzati vinse il Premio Strega nel 1958. La Peste Motoria è la parodia letteraria dei Promessi Sposi, traendo ispirazione dal capitolo sulla peste per raccontare l’evoluzione della malattia che dopo gli uomini iniziò a colpire le automobili.

” Un mattino di settembre, nel garage Iride di via Mendoza – per caso ero presente – entrò un’auto grigia di marca esotica e di forma inusitata, con una targa straniera che non si era vista mai. Il padrone, io, il vecchio capo meccanico Celada, mio ottimo amico, e gli altri operai, eravamo tutti di là nell’officina. Ma attraverso una vetrata il grande salone dei posteggi era visibile. Dall’auto scese un signore sui 40, alto, biondo, elegantissimo, un po’ curvo, che si guardò intorno preoccupato. Il motore non era stato spento e andava al minimo. Ciononostante, ne veniva un rumore strano, mai udito, un arido stridio, quasi i cilindri macinassero dei sassi. Subito vidi come Celada si sbiancasse in volto. ” Madonna santa ” mormorò. ” Questa è la peste. Come nel Messico. Me la ricordo bene. ” Poi corse incontro allo sconosciuto, che era straniero e non capiva una parola d’italiano. Ma al meccanico bastarono le gesticolazioni per spiegarsi, tanto era ansioso che quello se n’andasse. E il forestiero se n’andò, sempre con quel rumore orrendo. “Hai delle gran balle tu ” disse il padrone del garage al capomeccanico, come fu rientrato in officina. Li conoscevamo fin troppo bene, per averli uditi cento volte, gli inverosimili racconti di Celada, che da giovane era stato nelle Americhe. L’altro non se la prese. ” Vedrete, vedrete ” disse. ” Per noi tutti sarà un affare serio. ”

Questa, che io sappia, fu la prima avvisaglia del flagello, il timido rintocco che prelude al dispiegato scampanìo di morte. Passarono però tre settimane prima che un altro sintomo affiorasse. Era un ambiguo comunicato del Comune: a evitare “abusi e irregolarità”, speciali squadre erano state istituite, a cura della polizia stradale e della vigilanza urbana – era scritto – per controllare, anche a domicilio e nelle rimesse, l’efficienza degli automezzi pubblici e privati e, nel caso, ordinare il “ricovero conservativo”, anche immediato. Era impossibile indovinare, sotto così vaghi termini, il vero scopo; e la gente non ci fece caso. Chi sospettò che quei “controllori” non fossero altro che monatti? Ci vollero altri due giorni prima che l’allarme si spargesse. Poi, con rapidità fulminea, la voce, per quanto inverosimile, si diffuse da un capo all’altro della città: era arrivata la peste delle macchine. Sui prodromi e manifestazioni del misterioso male se ne sentì di ogni colore. Dicevano che l’infezione si rivelasse con una cavernosa risonanza del motore, come per un intoppo di catarro. Poi i giunti si gonfiavano in gibbosità mostruose, le superfici si ricoprivano di incrostazioni gialle e fetide, infine il blocco motore si disfaceva in un intrico sconvolto di assi, bielle ed ingranaggi infranti. In quanto al contagio, si pretendeva che avvenisse attraverso i gas di scarico, perciò gli automobilisti evitavano le strade frequentate, il centro divenne pressoché deserto e il silenzio, già tanto invocato, vi si stabilì sovrano come un incubo. Oh, festosi clacson, oh tonanti scappamenti dei bei giorni. Anche i garages, per la promiscuità che implicavano, furono nella maggioranza abbandonati. Chi non disponeva di un ricovero privato, preferiva lasciare l’auto nelle località meno battute come i prati della periferia. E al di là dell’ippodromo il cielo rosseggiò dei roghi delle macchine uccise dalla peste e ammucchiate a bruciare in un vasto recinto che il popolo chiamava lazzaretto. Come era fatale, si scatenarono i peggiori eccessi: furti e saccheggi di vetture incustodite; denunce anonime di auto che in realtà erano sane ma ad ogni buon conto, nel dubbio, venivano prelevate e date al fuoco; abusi dei monatti incaricati del controllo e dei sequestri; incoscienza delittuosa di chi, pur sapendo la propria macchina impestata, circolava tuttavia, seminando il contagio; auto sospette bruciate ancora vive (se ne udivano, a distanza, le urla atroci). Da principio, per la verità, il panico fu maggiore del danno. Si calcola che nel primo mese non più di 5000 automobili, sulle 200.000 della nostra provincia, soccombessero alla peste. Parve quindi subentrare una tregua; il che fu male perché, con l’illusione che il flagello fosse praticamente terminato, una quantità di macchine tornò in circolazione, moltiplicando così le occasioni di contagio. Ed ecco il morbo ridestarsi con esacerbata furia. Lo spettacolo di vetture fulminate dalla peste per la via divenne la cosa più normale. Il soffice rombo del motore all’improvviso si increspava e screpolava, frantumandosi in un rovinìo frenetico di ferro. Qualche sussulto ancora, poi il mezzo si fermava, maceria fumigante e maledetta. Ma più orribile ancora era l’agonia dei camion, le cui possenti viscere impegnavano una disperata resistenza. Lugubri tonfi e scrosci uscivano allora da quei mostri, finché una sorta di ululato sibilante annunciava l’obbrobriosa fine.

Ero in quel tempo autista di una ricca vedova, la marchesa Rosanna Finamore, che viveva in compagnia di una nipote nell’antico palazzo di famiglia. Io mi ci trovavo molto bene. La paga non si poteva dire principesca, ma in compenso il servizio era pressoché una sinecura: poche uscite di giorno, rarissime alla sera, e la manutenzione della macchina. Si trattava di una grossa Roll-Royce nera, già veterana, ma di aspetto superlativamente aristocratico. Ne ero orgoglioso. Per la via, anche le più potenti supersport smarrivano l’abituale tracotanza alla comparsa di quel superatissimo sarcofago trasudante sangue blu. Il motore poi, nonostante l’età, era un miracolo. Insomma, io le volevo bene più che se fosse mia. L’epidemia quindi tolse anche a me la pace. Si diceva, è vero, che le maggiori cilindrate fossero praticamente immuni. Ma come esserne sicuri? Anche per mio consiglio, la marchesa rinunciò a uscire di giorno, quando era più facile il contagio; e limitò l’uso della macchina a rare sortite dopo cena, in occasione di concerti, conferenze o visite. Una notte verso la fine d’ottobre, proprio nel colmo della peste, tornavamo a casa, con la solita Roll-Royce; tornavamo da un ridotto di dame solite a scambiare quattro chiacchiere per passare la malinconia di quel tempo. Quand’ecco, proprio mentre si imboccava piazza Bismarck, percepii, nell’armonioso fruscìo del motore, una breve incrinatura, un aspro grattamento che durò una frazione di secondo. Ne chiesi alla marchesa. ” Non ho sentito niente, io ” mi disse. ” Sta’ su di giri, Giovanni, non pensarci, questo vecchio catenaccio non ha paura di nessuno. ”

Tuttavia, prima di arrivare a casa, altre due volte quel sinistro cigolìo, o ingorgo, o sfregamento, non saprei proprio come dire, si ripeté, riempiendomi l’animo di orgasmo. Rientrato, a lungo rimasi nel piccolo garage a contemplare la nobile macchina, apparentemente addormentata. Finché, per certi indicibili gemiti provenienti a tratti dal cofano, benché il motore fosse spento, fui certo del peggio. Che fare? Per avere un consiglio pensai di rivolgermi al vecchio meccanico Celada, che, oltre all’esperienza messicana, pretendeva di conoscere una speciale mistura d’oli minerali capace di prodigiose guarigioni. Benché fosse passata mezzanotte, telefonai al caffè dove egli usava fare quasi ogni sera la partita. C’era. ” Celada ” gli dissi ” tu sei sempre stato mio amico. ” ” Eh, spero bene?” ” Siamo sempre andati d’accordo. ” ” Per grazia di Dio. ” ” Di te mi posso fidare…? ” ” Diavolo! ” ” Vieni, allora. Vorrei che tu vedessi la Roll-Royce. ” ” Vengo subito. ” E mi parve, prima che quello mettesse giù la cornetta, di udire un lieve risolino. Restai, seduto su una panca, ad aspettare, mentre dalle profondità del motore uscivano sempre più frequenti rantoli. Con l’immaginazione contavo i passi del Celada, calcolavo il tempo; fra poco sarebbe stato lì. E, standomene in orecchi, per sentire se il meccanico arrivava, tutt’a un tratto udii nel cortile uno stropiccìo di piedi, ma non di un uomo solo. Un orrendo sospetto mi passò per la mente. Ed ecco aprirsi l’uscio del garage, presentarsi e venire avanti due sudice tute marrone, due facce scomunicate, due monatti, in una parola: vidi mezza la faccia del Celada che, nascosto dietro un battente, rimaneva lì a spiare. ” Ah, lurida carogna… Via maledetti! ” E cercavo affannosamente un’arma, una chiave inglese, una barra metallica, un bastone. Ma quelli mi erano addosso, fra quelle braccia forzute fui ben presto prigioniero. ” Tu, mascalzone ” gridavano, con versacci di rabbia insieme e di scherno ” rivoltarsi contro i controllori del Comune, contro i pubblici funzionari! contro quelli che lavorano per il bene della città! ” E mi legarono alla panca, dopo avermi infilato in una tasca, suprema irrisione, il modulo regolamentare per il “ricovero conservativo”. Infine misero in moto la Roll-Royce che si allontanò con un mugolìo doloroso ma pieno di sovrana dignità. Sembrava volesse dirmi addio. Allorché, dopo mezz’ora di tremendi sforzi, fui riuscito a liberarmi, senza neppure avvertire dell’accaduto la padrona, mi lanciai nella notte, correndo come un pazzo al lazzaretto, di là dall’ippodromo, sperando di giungere in tempo. Ma proprio mentre io arrivavo, il Celada coi due monatti stava uscendo dal recinto, e filò via come se non mi avesse visto mai, dileguando nel buio. Non riuscii a raggiungerlo, non riuscii a entrare nel campo, non riuscii a ottenere che sospendessero la distruzione della Roll-Royce. A lungo restai con un occhio incollato a una fessura della palizzata, vedevo il rogo delle sventurate macchine, sagome scure si contorcevano spasimando tra le vampe. Dov’era la mia? In quell’inferno era impossibile distinguere. Solo per un istante, sopra il muggito selvaggio delle fiamme, credetti di riconoscere la sua cara voce; un urlo altissimo, straziante, che svanì presto nel nulla. “”

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