Da Manzoni a Camus: cosa ci insegna la letteratura della pandemia, secondo Orhan Pamuk
Orhan Pamuk (1952), premio Nobel della letteratura per il 2006, primo autore turco a conseguire tale onorificenza, con la seguente motivazione: “nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture“. Tra i maggiori romanzieri turchi contemporanei, oltreché il più letto in assoluto (dei suoi romanzi ne sono stati vendute oltre tredici milioni di copie, tradotte in più di sessanta lingue).
Da Daniel Defoe ad Alessandro Manzoni, da Tucidide a Camus: il premio Nobel per la letteratura turco Orhan Pamuk ha lavorato negli ultimi quattro anni a un romanzo storico ambientato durante l’ultima ondata di peste e ha interrogato la letteratura scoprendo che ogni pandemia si somiglia per le risposte che suscita in noi
“Nella storia umana e letteraria ciò che rende simili le pandemie non è la semplice comunanza di germi e virus ma che le nostre risposte iniziali sono sempre state le stesse”. Si intitolerà “Nights of plague” il prossimo romanzo di Orhan Pamuk. Negli ultimi quattro anni il premio Nobel per la Letteratura del 2006 ha scritto un romanzo storico ambientato nel 1901, durante quella che è conosciuta come la terza pandemia di peste, “uno scoppio di peste bubbonica che ha ucciso milioni di persone in Asia ma non molte in Europa”. A scriverlo è lo stesso autore turco sulle colonne del New York Times. Negli ultimi due mesi, amici e parenti, editori e giornalisti che conoscono l’argomento di quel romanzo, “Nights of Plague”, gli hanno fatto una raffica di domande sulle pandemie. Sono curiosi di trovare somiglianze tra l’attuale pandemia di coronavirus e gli scoppi storici di peste e colera. In effetti c’è una sovrabbondanza di somiglianze. Cosa ci insegnano, dunque, i grandi romanzi sulle pandemie del passato? Che vi sono alcuni tratti comuni.
Il potere nega sempre le pandemie. La risposta iniziale allo scoppio di una pandemia è sempre stata la negazione. I governi nazionali e locali sono sempre in ritardo nel rispondere e distorcono i fatti e manipolano le informazioni per negare l’esistenza dell’epidemia. In proposito, Pamuk fa l’esempio delle opere di Daniel Defoe e “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni: Nelle prime pagine di “A Journal of the Plague Year”, l’opera letteraria più illuminante mai scritta sul contagio e sul comportamento umano, Daniel Defoe riferisce che nel 1664, le autorità locali di alcuni quartieri di Londra cercarono di aumentare il numero di pestilenze per fare apparire inferiori i decessi. Ne “I promessi sposi”, forse il romanzo più realista mai scritto su un focolaio di peste, Alessandro Manzoni descrive e sostiene la rabbia della popolazione locale per la risposta ufficiale alla pestilenza del 1630 a Milano. Nonostante le prove, il governatore di Milano ignora la minaccia rappresentata dalla malattia e non annullerà nemmeno le celebrazioni per il compleanno di un principe locale. Manzoni mostrò che la peste si diffuse rapidamente perché le restrizioni introdotte erano insufficienti, la loro applicazione era lenta e i suoi concittadini non li seguirono.
Nelle pandemie proliferano le fake news L’altra risposta universale dell’umanità alle pandemie, secondo Pamuk, è sempre stata quella di creare voci e diffondere false informazioni. Durante le pandemie passate, le voci sono state principalmente alimentate dalla disinformazione e dall’impossibilità di vedere il quadro della situazione completo. In un mondo senza giornali, radio, televisione o internet, la maggioranza analfabeta aveva solo l’immaginazione con cui capire dove fosse il pericolo, la sua gravità e l’entità del male che poteva causare. Questa dipendenza dall’immaginazione ha dato alla paura di ogni persona la propria voce individuale. Le voci più comuni durante gli scoppi della peste riguardavano chi aveva portato la malattia e da dove era venuta. Il virus è sempre estraneo. Verso metà marzo, mentre il panico e la paura cominciavano a diffondersi in Turchia, il direttore della banca dello scrittore a Cihangir, il suo quartiere di Istanbul, gli disse con aria consapevole che “questa cosa” era la risposta economica della Cina negli Stati Uniti e nel resto del mondo.
Con quest’episodio, accaduto in prima persona a Pamuk nelle scorse settimane, viene fuori un’altra caratteristica delle pandemie. La peste, come ci raccontano i grandi romanzi sulle pandemie, veniva sempre descritta come qualcosa che era venuto dall’esterno. In precedenza aveva colpito altrove e non era stato fatto abbastanza per contenerlo. Nel suo resoconto della diffusione della peste ad Atene, ricorda ne “Il mio nome è Rosso” Tucidide iniziò osservando che l’epidemia era iniziata molto lontano, in Etiopia ed Egitto. La malattia è estranea, proviene dall’esterno, è causata da intenzioni maligne. Le voci sulla presunta identità dei suoi vettori originali sono sempre le più pervasive e popolari. La ricerca del capro espiatorio “La storia e la letteratura delle malattie” scrive Pamuk sul New York Times “ci mostra che l’intensità della sofferenza, della paura della morte, del terrore metafisico e del senso di inquietudine vissuto dalla popolazione colpita determinerà anche la profondità della loro rabbia e malcontento politico”. A cui segue, inevitabile la ricerca di un capro espiatorio: Marco Aurelio incolpò i cristiani dell’Impero romano per la peste del vaiolo antonino, poiché non si unirono ai rituali per propiziare gli dei romani. E durante le successive piaghe gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi sia nell’Impero ottomano che nell’Europa cristiana. Come nelle antiche pandemie della peste, voci e accuse infondate basate sull’identità nazionalista, religiosa, etnica e regionalista hanno avuto un effetto significativo su come si sono verificati gli eventi durante l’epidemia di coronavirus. “Anche la tendenza dei social media e dei populisti di destra ad amplificare le menzogne ha avuto un ruolo.
La paura come isolamento e solidarietà. L’ultimo punto che Orhan Pamuk individua comune alla storia della letteratura nel racconto delle pandemie è il duplice ruolo svolto dalla paura. Il terrore che proviamo, tuttavia, esclude l’immaginazione e l’individualità e rivela quanto inaspettatamente simili siano le nostre fragili vite e l’umanità condivisa. La paura, come il pensiero di morire, ci fa sentire soli, ma il riconoscimento che stiamo tutti vivendo un’angoscia simile ci tira fuori dalla nostra solitudine. Si tratta di un punto molto importante, perché è alla base – nella sua duplice e frammentata capacità di generare risposte – del punto di ripartenza che l’autore di Istanbul dovrebbe esse il faro guida di ciò che dovrebbe orientare l’azione dei governi. Affinché un mondo migliore emerga dopo questa pandemia, dobbiamo abbracciare e nutrire i sentimenti di umiltà e solidarietà generati dal momento attuale
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