Angelo COLANGELO: Storie dalla “terra dell’osso”
PREFAZIONE DI GIOVANNI CASERTA
Angelo Colangelo dedica alla memoria di Rocco Brancati, instancabile apostolo della lucanità, undici storie della «terra dell’osso», «tessute col filo resistente dei ricordi», pubblicate dalle ERRECIEDIZIONI-ALIANOPARCOLEVI con la Prefazione di Giovanni Caserta. Colangelo è lontano dal suo paese e – scrive il prof. Casera – non ci vuole molto a capire che il paese lo si scopre quando si è lontano e quasi sempre a una certa età. Scrive anche che Angelo sa che arriverà un giorno in cui al paese non potrà più andare, perché gli ultimi conoscenti o parenti non ci saranno più.
Per queste ed altre ragioni da tempo quel giorno è giunto per me e mia moglie, che dal nostro comune paese siamo lontani da tutta la vita e non andremo più. Ma torneremo. Lì c’è un campo su una distesa di vigne che scendono al fiume e domina la valle del Basento, lungo le cui mura esterne torneranno a maturare le more dolcissime che raccoglievo e mangiavo quando ero ragazzo. Lì c’è il nostro nido e ci sono genitori e amici che erano rimasti o sono tornati. Ci aspettano, lì torneremo, perché, come diceva Cesare Pavese, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Manlio Rossi-Doria, senatore eletto nel collegio di Sant’Angelo dei Lombardi (AV), chiamava “Terra dell’osso” l’Alta Irpinia. Il suo primo discorso parlamentare fu tutto centrato su una diagnosi dei problemi dell’Alta Irpinia e il suo pensiero spaziava nella simile terra confinante così studiata e amata, dove aveva sofferto l’ingiustizia del confino, perché a lui importava solo capire l’oscuro processo in atto nella campagne. Lascio quindi alla Prefazione del prof. Caserta dirci del “paese” nella sua ricca e articolata presentazione dei racconti di Angelo.
Prefazione di Giovanni Caserta
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Queste parole, registrate nell’ultimo romanzo dello scrittore piemontese, cioè in La luna e i falò, rappresentano la estrema conclusione cui egli giunse, dopo aver fatto il giro dell’Italia ed essere stato trai protagonisti della cultura italiana del primo Novecento, e del secondo dopoguerra. Sono, infatti, parole scritte nel 1949 e pubblicate nel 1950. Solo pochi mesi dopo Cesare Pavese, nel mese di agosto, in una grande città come Torino, vuota, si uccideva. Accadeva nell’anonima stanza dell’albergo “Roma”, a pochi passi dalla stazione di Porta Nuova.
Era necessario cominciare con questo preambolo, per ricordare come Pavese, tutto sommato, non abbia avuto un paese, perche’ a Santo Stefano Belbo, dove era nato, ci andava solo d’estate. Ma era bastato. E anzi il tema lo sentiva, per questo, più forte che altri, visto che la città di Torino e la città di Roma, in certo qual senso, lo avevano tradito, facendolo sentire più che mai solo, dopo che dalla città e nella città aveva cercato il miracolo del superamento della sua solitudine e del suo mancato rapporto con gli altri. Da giovane, anzi, per sentirsi vivo, aveva pensato di trasferirsi in America, affascinato dalla decantata e mossa democrazia americana, contrapposta al grigiore imposto dal fascismo. E invece, quando ormai dalla città aveva ottenuto tutto quanto poteva ottenere in termini di successo letterario e riconoscimenti mondani, capì che gli mancava il sangue, la vita, l’uomo, l’affinità con gli altri. E sognò, ultima risorsa, fallita, la soluzione del ritorno al paese, che aveva conosciuto solo d’estate.
Non ci vuol molto a capire che il paese lo si scopre quando si è lontano, e quasi sempre ad una certa età. E vero, infatti, che, quando nel paese si vive, i rapporti quotidiani, gli impegni di lavoro e di famiglia sono come l’aria che si respira. Non ci si accorge di quel che si ha e di cui si gode. Anzi, può anche succedere, come nel caso stesso di Pavese e di Leopardi, che si senta il bisogno di fuggire, perché sembra che quel luogo, che ti dà l’aria, ti dia anche un senso di soffocamento. Non pochi, in gioventù, fuggirono anche e solo per questo.
C’è anche stato, però, chi, come nell’Addio di Lucia, dal paese non avrebbe mai voluto allontanarsi. E ha dovuto farlo. Questo, in Italia, è sempre accaduto nel Sud, almeno dall’Unità d’Italia in qua. In un racconto di Colangelo Già, deve partire si dibatte il problema. È ozioso dice uno dei protagonisti domandarsi se ha ragione chi è andato via, o chi è rimasto. Si direbbe che, nella condizione meridionale, a parte lo strappo doloroso iniziale di chi va via, è da ritenersi più coraggioso chi rimane, spesso anche perché pensa che la partenza sia un tradimento verso i propri affetti. Il paese è pur anche gli amici, i parenti, i genitori, coloro che ti vogliono bene, ai quali hai dato e dai quali hai avuto. E, spesso, chi è rimasto, vero “pazzo malinconico” (secondo una espressione che fu di Gaetano Salvemini), è anche colui che pensa, generosamente, di migliorare le condizioni della propria comunità. Purtroppo anche per costui, quasi sempre deluso, arriva il momento, ben più doloroso, in cui la partenza diventa ineludibile. È vero, infatti, che, nel Sud, soprattutto in quello “dell’osso”, di cui parlò Manlio Rossi Doria e parla Colangelo, l’emigrazione, prima o poi, diventa inevitabile. Non per nulla, tra gli undici racconti di Colangelo, ben quattro toccano il tema della emigrazione. È come dire che, nella “terra dell’osso”, non c°è famiglia che non abbia un parente che vive lontano. È solo questione di tempo. Si tratta di vedere se ad emigrare saranno prima i figli e poi i genitori, o viceversa. Ormai è quasi un destino, che, come un destino, viene, nell’inconscio collettivo, serenamente accettato.
Colangelo è stato tra i coraggiosi che, con una laurea in lettere classiche, pensò di fermarsi. Erano gli anni in cui nel Sud si lottava e si sognava. Colangelo fece il professore di scuola media nel paese di confino di Carlo Levi. Tutto il suo lavoro lo svolse in perfetta simpatia ed empatia col paese e i paesani, non assente un sentimento di religiosa pietà. Non è azzardato pensare che molto l’abbia suggestionato proprio Carlo Levi, che, venuto dal Nord, in Lucania conobbe i contadini e in loro vide il volto autentico dell’uomo, e quindi il fratello. Non per nulla a Levi, diventato suo nume tutelare, Colangelo ha dedicato affettuosa attenzione, così come non per nulla, in uno dei suoi racconti, lo ricorda pittore accerchiato da incantati bambini con capretta, finalmente buona essa pure.
Colangelo non sarebbe mai andato via dal suo paese, se i figli, giunto il momento della scelta di vita, e cioè del lavoro, non fossero partiti, contribuendo al lento, inesorabile consumarsi demografico del paese, anzi dei paesi. E furono mille chilometri di distanza da colmare. Il paese diventò il paese dei ricordi. Non poteva essere altro ormai, salvo qualche salto tra un Natale e una Pasqua, e gli inesorabili funerali. Negli intervalli, a sera soprattutto, o alla vigilia della domenica e la domenica, bussavano frequenti, e bussano ancora, non chiamati, persone, eventi, storie avvenute 0 non avvenute, ma date per awenute. Sono ricordi di visi e fatti che segnarono l’infanzia dell’autore, avendone egli conoscenza diretta o indiretta. Riguardano una particolare area, dove oggi diventa sempre più difficile arrivare, a causa di uno straordinario aumento di frane e smottamenti, che vanno di pari passo con lo svuotamento demografico. Né poteva essere altrimenti.
Colangelo sa che arriverà un giomo in cui al paese non potrà più andare, perché gli ultimi conoscenti o parenti non ci saranno più. Ogni anno ce n’è sempre qualcuno in meno. Perciò il paese se lo sta costruendo sulle carta, attraverso la memoria. Compare la nonna che, vicino all’immancabile focolare, raccontava le fiabe al nipotino, cui piacevano le poesie di Giovanni Pascoli. Compare il paese sotto la neve, che sempre meno, pur essa, si vede. Si rievocano figure straordinarie, come il Sud ne ebbe sempre, tra il grottesco e il patetico. Per esempio, c’è l’ex detenuto che si adopera perché altri non seguano la sua via. Perciò, si fa missionario di bontà, fede e cultura. C’è la lunga serie di zii, zie, cugini, cugine, che sparvero nella lontana America. C’è il ricordo di giovani soldati tedeschi che, in fuga sotto l’incalzare degli Alleati, per necessità devono far razzia di galline in una masseria. Festosamente, forse per l’ultima volta allegri ragazzi, le rincorrono per l’aia.
A mille chilometri di distanza, ovviamente, tutto diventa più sfuocato, più diffuso, ma anche più ampio e corale. Al posto dell’occhio subentra l’immaginazione, il sogno e, quindi, il cuore. Le figure perdono i contorni netti, per lasciar posto a fantasmi, anche quando sono colti in comportamenti ruvidi, che facevano parte della “genuinità” del personaggio e dei personaggi, spesso al di qua del bene e del male. Proprio per questo, però, essi avevano bisogno di maggiore attenzione e comprensione. Bisognava aspettare che lo scoprisse e lo dicesse il pittore forestiero. Di qui il sentimento, non di rabbia, non di nostalgia, ma, piuttosto, di contenuta sofferenza. Dopo anni d’impegno per cambiarne le sorti attraverso il lavoro quotidiano e iniziative culturali, Colangelo prende atto che, nella “terra dell’osso”, forse tutto si sta perdendo per sempre. L’anno venturo, a Natale, ci saranno ancora abitanti in meno. Quasi sicuramente, un altro pezzo di paese sarà sceso a valle.
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Buongiorno, Antonio. E’bello svegliarsi al mattino e vedersi servito a colazione, dolce prelibato, sul familiare blog della Rabatana la copertina delle mie “Storie dalla terra dell’osso” con il bel dipinto dell’amico artista Nicola Iosca, le note di commento dell’amico Antonio Martino e il testo integrale della Prefazione dell’amico Giovanni Caserta.
Ti ringrazio per il gradito omaggio, ulteriore testimonianza della tua affettuosa attenzione verso di me.
Angelo Colangelo