IN CAUDA VENENUM ovvero DULCIS IN FUNDO

Antonio Martino, nato a Palazzo San Gervasio (PZ) il 18 giugno 1930, anno VIII E.F. (rabatana)

Si preannunciava proprio come una bella giornata di sole, quel martedì del 28 ottobre 1930. Mërëkandònëjë, Domenicantonio, ne prese atto con soddisfazione, mentre alle prime luci dell’alba si preparava per andare in paese dalla sua casa colonica, che si trovava non molto distante dallo storico Palazzo di Santo Spirito. Per questo, durante il giorno, mentre lavorava, aveva la possibilità di guardarlo da diverse angolazioni e sempre ne rimaneva estasiato. La monumentale Masseria Fortificata, che sembrava avere una straordinaria energia magnetica, calamitava lo sguardo e lo incantava con la maestosità delle sue linee architettoniche severe ed armoniose.

       Appena fu pronto, Mërëkandònëjë si mise in viaggio. Respirava a pieni polmoni l’aria finissima del mattino, mentre se ne saliva di buon’ora verso Stigliano. Quell’aria era un confortevole balsamo per il corpo e per l’anima. Lui, perciò, si lasciava dondolare beatamente in groppa a Stellina, la superba  e docile giumenta, con la quale da tempo viveva quasi in simbiosi. Ora stavano per affrontare con andatura regolare e sicura la ripida faticosa salita dë Lléuëcë, di cui animale e padrone conoscevano a memoria i tratti più disagevoli.

Mërëkandònëjë, nel frattempo, cercava di ripassare bene nella  mente tutte le faccende che avrebbe dovuto sbrigare, senza perdere tempo, prima di recarsi alla “benedetta” adunata, della  quale avrebbe fatto volentieri a meno. Ma, per evitare guai, non se ne poteva purtroppo sottrarre. Per questo, aveva anche ritardato di qualche giorno il suo viaggio al paese, dove si recava ogni mese per l’approvvigionamento di viveri e di tante altre cose, che erano necessarie alla famiglia e che non si trovavano in campagna. Sperava solo che, una volta fatta ogni cosa per bene, al campo sportivo avrebbe potuto incontrare e salutare Maccëuànn, il calzolaio Mastro Giovanni, suo vecchio amico e compare di antica data. Gli piaceva intrattenersi con lui e da lui essere informato puntualmente sulle novità della vita stiglianese. Il calzolaio, infatti, non si lasciava sfuggire nessun fatto, piccolo o grande che fosse, ed era poi capace di raccontarlo con particolare maestria.

Arrivato, dunque, a destinazione, Mërëkandònëjë si mosse quanto più in fretta possibile. Fece prima rifornimento di farina e crusca al Mulino a Fuoco e poi di sale e trinciato forte al tabacchino di Vincenzino Ciruzzi alla Villa, passò dalla mascalcìa di Mastro Vincenzo Diruggiero, noto Taccarrónë, per far ferrare Stellina, si recò all’Ufficio Postale e, infine, si diresse con passo spedito verso il campo sportivo sopra la fontana dë lë “Tré cannéuënë”. Voleva evitare ad ogni costo di fare tardi e di avere poi delle noie da parte dei fascisti, che ne avrebbero magari ritardato il ritorno in campagna.

«Quelli” , – diceva tra sé e sé – nullafacenti e perdigiorno come sono, sarebbero capaci per ripicca di trattenermi per ore e ore con le scuse più strambe e di irritarmi con le loro chiacchiere odiose. E io non posso permettermelo, perché i miei rimarrebbero in pensiero, se non mi vedessero tornare prima di sera».

Per fortuna, arrivò giusto in tempo per ascoltare il gerarca locale al quale era stato affidato l’incarico del discorso ufficiale. Questi con oratoria magniloquente ricordò il fatidico giorno della marcia su Roma, che era avvenuta otto anni prima e aveva aperto nuovi e luminosi orizzonti all’Italia e a Stigliano. Alla prima, lasciando balenare il fulgido destino che tocca a una vera potenza mondiale; alla seconda, dischiudendo finalmente le porte a un futuro di benessere e di serenità.

Si capiva a lume di naso che il povero oratore, sudato e affannato, si sforzava in ogni modo di imitare il “Principale”, quello che in quello stesso momento stava tuonando dal famoso balcone romano con atteggiamenti da vero istrione. Ma i risultati furono meschini, ahilui, sicché ricevette appena qualche timido applauso, scattato peraltro a comando, su invito perentorio degli uomini che lo circondavano. Una ventina di uccellacci neri che, impettiti, gli facevano corona e mostravano ostentatamente di assentire alle sue vuote parole.

Del lungo e reboante discorso dai numerosi presenti fu apprezzato con un applauso sincero e prolungato solo il passaggio in cui si ricordava l’evento che Stigliano aveva vissuto tre mesi prima, quando il 31 luglio era stato inaugurato, dopo molte traversie, il Monumento ai Caduti della Grande Guerra.

Era stata, quella, una manifestazione davvero solenne con la benedizione della scultura di Giuseppe Ciocchetti, la concelebrazione della Messa del Vescovo Raffaello Delle Nocche e dell’arciprete don Rocco Longo, l’esecuzione di marcette della banda locale diretta dal Maestro Giuseppe Colangelo e l’esplosione di bombe carta preparate dal fochista Pancrazio Di Napoli. Grande e commossa era stata la partecipazione del popolo, che aveva voluto in tal modo onorare la memoria dei 131 caduti stiglianesi.

Mërëkandònëjë, intanto, facendo finta di prestare attenzione, in realtà girava e rigirava continuamente la testa nel tentativo di rassicurarsi della presenza dell’amico Giovanni. Finalmente lo individuò e riuscì a incrociarne lo sguardo. Con muti cenni d’intesa i due concordarono di incontrarsi non appena l’oratore avesse concluso il suo infervorato discorso.

Così fu. Si avvicinarono e si salutarono, mentre nel campo sportivo figli e figlie della lupa, balilla e avanguardisti, piccole e giovani italiane, si esibivano in difficili esercitazioni ginniche e in improbabili manovre paramilitari. Si mossero, ad un certo punto, con movimenti studiati per formare dapprima la parola “Dux”, poi una gigantesca “M”. Ma, nonostante la buona volontà di tutti, i risultati non furono certo lusinghieri.

Ai due amici, però, la cosa importava ben poco. Anzi, approfittando della confusione che si era creata, Maccëuànn ne approfittò per ragguagliare sugli ultimi avvenimenti del paese l’amico che veniva dalla campagna.

Si soffermò, in particolare, a raccontare in maniera  dettagliata un fatto che negli ultimi giorni era stato sulla bocca di tutti gli stiglianesi. Lui raccontò i fatti tali quali glieli aveva esposti Francesco, un invalido della Grande Guerra, che alla sede del fascio svolgeva le mansioni di bidello e che frequentava quotidianamente la bottega del calzolaio, di cui era grande amico. Si preoccupò solo di aggiungere, ed è superfluo sottolinearlo, una piacevole cornice.

Era ormai sera ed era giunta perciò l’ora in cui capi, capetti e galoppini, insomma tutti gli abituali ospiti della Casa del Fascio, stavano per andare via, quando irruppe Giuseppe, un contadino che abitava al Casale. Lo chiamavano Peppe “il fascista”, appellativo di cui egli andava fiero, perché se lo era guadagnato sul campo per la solerte, o per meglio dire fanatica, attività spesa a favore della causa, che aveva sposato fin dalla prima ora. Non per nulla era sempre in prima linea  e si dava un gran da fare, quando si trattava di impartire qualche lezione agli antifascisti, o presunti tali, dispensando un po’ di botte o  imbottendoli di olio di ricino.

Peppe, dunque, quella sera era riuscito a trascinare a viva forza dietro di sé la moglie Matalena, che invano aveva tentato di opporre resistenza. E, appena fu entrato, le vene del collo taurino gonfie da far paura e gli occhi fuori dalle orbite, continuando a tenere ferma per un braccio la povera donna, prese a urlare come un ossesso: «Arrestate questa donna … ha parlato male di Mussolini … questa disgraziata si è permessa di parlare male del nostro amato Duce … merita di essere arrestata!».

Rimasero tutti senza parole. Il segretario del Fascio Vincenzo Dinisi, che fra i camerati si segnalava anch’egli per impulsività e  intransigenza, era già pronto a intervenire e ad assecondare la richiesta perentoria del contadino. Ma il Podestà don Ciccillo Campobasso, bravo medico e uomo assennato, intuendone le minacciose intenzioni, lo prevenne e chiese di far parlare la donna, per conoscere meglio i motivi dell’insolita denuncia.

Allora Matalena, incoraggiata dalle parole del dottore, non esitò a spiegare davanti a tutti le sue ragioni e, seppure con il cuore in tumulto, riuscì a dare la sua versione e a ricostruire i fatti così come si erano realmente svolti.

Rivolgendosi poi direttamente al Podestà, spiegò che, in effetti, aveva più volte redarguito il marito per il comportamento che teneva ormai da diversi mesi. E anche stasera lo aveva rimproverato aspramente perché, con la scusa degli impegni “politici”, trascurava ormai completamente la famiglia, evitava di andare a lavorare e, per completare l’opera, spesso se ne tornava a casa a notte fonda e perdipiù mezzo ubriaco.

«Don Cëccé, – gridò  Matalena esasperata e incapace di trattenere la rabbia – inzòmm l’àgg détt sckétt ka pë la skéuësë dë Mësëléjën jé dëvëndàtë në mòlë fatëgatórë e në mbriokónë!».

Il Podestà, che aveva ben compreso fin dal primo momento che bersaglio delle accuse della donna non era certo Mussolini, ma il marito sfaccendato e dedito più al vino che al lavoro e alla famiglia, non ebbe bisogno di sentire altro e congedò tutti. Disse alla donna di non avere paura a rimanere da sola e le suggerì di trascorrere la notte là, nella Casa del Fascio. Non era per punizione, tenne subito a rassicurarla, ma per evitare possibili inconsulte reazioni contro di lei da parte del marito, che era stato pubblicamente svergognato. Convinta la donna, il buon don Ciccillo poté andare via tranquillo.

Terminato l’incredibile racconto del calzolaio, Mërëkandònëjë salutò in fretta l’amico, perché gli rimaneva da fare un’ultima cosa urgente,  vale a dire tagliarsi la barba e i capelli, che da troppo tempo aspettavano ansiosamente il momento di una buona tosatura.

Era l’una passata, ma per fortuna tra la folla intravide Màst Savatórë, il barbiere, che stava per tornarsene a casa per il pranzo. Lo pregò vivamente di fare un sacrificio e di andare a raparlo, nonostante l’ora tarda. Lo convinse e si avviarono. Appena messo piede nel salone, il contadino si trovò di fronte all’altra incredibile sorpresa della giornata: un bel recipiente di alluminio, lucido e tondeggiante. Non aveva mai visto prima una roba del genere. Era situato sul lato sinistro della poltroncina destinata ai clienti e sembrava essere stato messo là, di proposito, come un elegante oggetto ornamentale.

«Si vede proprio – pensò Mërëkandònëjë – che Salvatore ha buongusto e ci tiene ad abbellire il suo salone, anche se è frequentato più da cafoni che da galantuomini. Che pure non mancano, però, tra i suoi clienti».

Così arzigogolando, prese posto senza dire una parola e appariva quasi intimidito da quella strana novità. Fu naturale, pertanto, che mentre il barbiere indossava il camice, egli ne approfittasse per girarsi e sputare sul pavimento dal lato opposto a quello dove si trovava l’oggetto misterioso. Avendolo adocchiato, Salvatore, prese allora delicatamente il misterioso oggetto e, senza dire nulla, lo spostò dalla parte destra. Incominciò così ad insaponare l’ispida barba del cliente, che dopo un po’, mentre il barbiere provvedeva ad affilare il rasoio, girò appena la testa e sputò sul lato sinistro. Sempre, cioè,  dalla parte opposta rispetto all’elegante vaso ornamentale. Che fu allora di nuovo spostato da Salvatore, pazientemente, dall’altra parte. La  scena si ripeté ancora un paio di volte, fino a quando Mërëkandònëjë, spazientito, esclamò:

«Màst Savató, së nò la fërnìsc dë fa mùva mùva, vàjë a fërnèsc ka ngë scëppéuëtë d’ajénd. Pó, non të la pëgghià kë mmé».

Insomma, il buon contadino, ignaro che si trattasse di una sputacchiera, divenuta obbligatoria per salvaguardare l’igiene nei locali pubblici, dove era abitudine diffusa sputare per terra, aveva detto al barbiere che, se non avesse posto fine a quei suoi continui spostamenti, avrebbe finito per sputarci dentro. In tal caso non avesse, poi, da lamentarsi.

Ben rasato, “decespugliato” e soddisfatto di aver fatto tutto ciò che si era ripromesso di fare, finalmente Mërëkandònëjë poté tornarsene a casa. Qui, dopo aver preso velocemente un boccone per acquietare lo stomaco che da tempo brontolava rumorosamente, sistemò per bene ogni cosa, mise il basto a  Stellina, vi caricò i due cofani e si avviò sulla strada del ritorno.

Era contento, perché portava con sé anche una bisaccia piena delle curiose novità trovate al paese. Il loro pensiero gli avrebbe tenuto compagnia fino alla prossima rimpatriata.

Angelo Colangelo

 

3 Responses to Angelo COLANGELO: Novità in paese nell’anno VIII dell’era fascista

  1. domenico langerano ha detto:

    Il racconto é intrigante quando inocula nel lettore la visione della scena dell’accadimento narrato.
    Il racconto proposto nel tuo Blog, caro Antonio, se é un assaggio degli altri presenti nel libro pubblicato da Angelo, é un ottimo stimolo per l’acquisto.
    In me la lettura si é trasformata in un interiore 3D completo dei personaggi, della luce, dei colori, dei rumori realistici come i film in b/n del dopoguerra, senti sulla tua pelle perfino il clima di quel giorno in cui avvenivano i fatti, l’aria calda che respiravi perché tu eri/sei presente alla scena e partecipi con simpatia ai movimenti e agli intrecci che si sviluppano, perfino negli aneddoti accaduti in tempi precedenti a quello del racconto (vedi processo a Mataléna) quasi una scena di un’altro film nel film che stai vivendo.
    Bravo Angelo e grazie a te, Antonio, che ci stai consentendo di conoscerlo.
    Buona notte
    Mimmo

  2. Angelo Colangelo ha detto:

    Il commento di Domenico Langerano mi induce a fornire qualche informazione, che mi pare doverosa.
    Preciso, innanzi tutto, che il racconto qui pubblicato è inedito e non è, pertanto, compreso in nessuna delle due mie precedenti raccolte, Le piazze raccontano e la più recente “Storie dalla terra dell’osso”.
    Posso aggiungere anche un particolare curioso riguardo alla sua composizione, confessando che Antonio Martino in qualche modo lo ha aiutato a nascere. E mi spiego.
    In una delle nostre frequenti, potrei dire quasi quotidiane conversazioni telefoniche, alcuni giorni fa ci si ritrovò a parlare, non ricordo perchè, di sputacchiere. Dissi allora al mio amico che proprio alcuni mesi prima avevo iniziato a scrivere un racconto che le vedevano quanto meno co-protagoniste. Quel mio lavoro poi l’avevo messo da parte, per dedicarmi ad altro.
    Mi venne così l’idea di riprendere quel testo lasciato interrotto e mi premurai di completarlo.
    Ciò detto, non posso fare a meno di ringraziare Domenico per le sue gratificanti parole. E aggiungo che, pur non conoscendolo direttamente, la sua persona incomincia a diventarmi familiare. Infatti, non solo Antonio me ne parla spesso e bene, ma la sua figura ormai si associa a quella di Mimì Rasulo, per il quale io sempre nutrii affetto a stima.
    Auguro a tutti una buona domenica.
    Angelo

    • Antonio Martino ha detto:

      Ci trovammo a parlare di sputacchiere con l’amico Angelo parlando di epidemie nelle storia dell’umanità, un modo di consolarsi per questo maledetto o benedetto CoVid-19. Su FB avevo ricordato la battaglia antitubercolare, scrivendo: “Ricordo a scuola, sul tram, nei negozi, negli uffici cartelli in lamierino di zinco, con la scritta: “Vietato sputare” o addirittura – può essere incredibile ma assicuro che è vero […]“La persona civile non bestemmia e non sputa per terra”, sormontati dalla croce di Lorena, emblema dal 1902 della Tbc. Fungevano da placebo per non infettarsi di Tbc. Il motivo dello sputare è semplice: la saliva disseccata portata dal vento contribuiva alla diffusione della malattia…; ma più del bacillo di Koch era diffuso il vezzo, diciamo così, della bestemmia. In uno di questi cartelli compariva una bambina: era la piccola Sandra Mondaini.
      La tubercolosi è un’infezione polmonare e sistemica da Mycobacterium Tubercolosis, detto anche “Bacillo di Koch” che lo scoprì. Ancor oggi se ne muore. Il “mal sottile”, tisi o piaga bianca, colpiva senza guardare in faccia nessuno. Nella mia famiglia ne morirono tre, tutt’e tre giovanissimi: due fretelli e un cognato di mio padre.Mio padre perse anche il padre con la spagnola, e mia madre, per la stessa malattia, suo padre.
      Solo alcuni infettati dal bacillo ne venivano romanticamente illuminati: Silvia (Leopardi 1828), Violetta (Verdi 1853, che spira nel Terzo atto di Traviata con un rigurgito di “oh gioia, oh gioia”) o la gelida manina (Puccini, 1896) anch’ella spirante causa tisi sul palcoscenico. Ma il povero Chopin ne morì davvero (scriveva George Sand “tossisce con grazia infinita”) e così Paganini, il diavolo.
      Sputare era socialmente approvato. Qui da noi come in Cina, dove il grande timoniere Mao Tse-tung veniva liturgicamente ritratto con una solenne sputacchiera ai piedi della poltrona.
      Ogni anno si raccoglievano fondi nella “Giornata delle due Croci” dando in cambio di donazioni in denaro piccoli ed oggi molto ricercati distintivi metallici di varia forma, materiale di propaganda antitubercolare, contrassegnata dalla croce di Lorena. Molto diffusi anche i chiudilettera, piccoli francobolli il cui ricavato era devoluto alla cura e alla ricerca oltre che alla creazione di sanatori in località montane “.

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